Blog / Scritti segnalati dal blog | 06 Novembre 2018

Progetto Gionata – Sono un gay cattolico. Sareste disposti a mettervi nei miei panni?

Marco G. segnala al blog questo articolo, introducendolo così: 

Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce. Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce. Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere». Lc 8,16-18

Riflessioni di Patrick Gothman* pubblicate sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) l’11 ottobre 2018, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro

C’è un videogioco che parla di un bambino che lentamente muore di cancro. È certamente un’ambientazione insolita per un videogioco: si sentono le registrazioni autentiche di un malato terminale di cinque anni, di nome Joel, che parla con i genitori e il fratello, e dopo la sua morte si vedono bellissime animazioni. Quel drago chiamato cancro sfida l’illusione, data dai moderni videogiochi, di essere immersi in un mondo parallelo e non dà, come questi, l’illusione del controllo. Potete muovervi nel mondo di Joel e della sua famiglia, ma non potete cambiarlo, e in questo senso è l’opposto di un videogioco tradizionale. Siete lì che girate e guardate interagire i protagonisti momento per momento: dalle passeggiate serene nel parco alle notti inconsolabili con le torture di cure mediche incapaci di guarire, ma siete testimoni, non potete salvare il bambino. Il cancro esiste, e presto avrà la meglio. Non c’è nulla da sconfiggere, nessuna strategia, nessuna abilità, nessuna combinazione segreta di comandi vi darà la vittoria. Pensare di controllare è un’illusione, giocare a quel gioco vuol dire perderlo.

In una delle scene, assumete il punto di vista del padre di Joel mentre di notte culla il figlio tra le braccia, seduto su un divano in ospedale. I monitor ripetono lentamente il loro bip bip e la luce sterile delle sale ospedaliere si riversa su Joel, raggomitolato in silenzio sul vostro petto. Sentite nelle viscere l’angoscia e l’istinto di non darvi per vinti, mai, di combattere con ogni fibra del vostro essere per questo bambino, che merita molto di più, di amare gli estranei attorno a voi nella loro notte buia.

Non ho potuto fare a meno di sentire quanto sia cattolico questo gioco. Sposteremmo le montagne per offrire un momento di sollievo a Joel e alla sua famiglia, ma anche se le montagne non si spostano, c’è comunque dignità nel dolore. Forse non è bello il lutto, ma bisogna riconoscere il coraggio che ci vuole per portarlo. Prima della solidarietà dev’esserci sempre la vulnerabilità: come possiamo apprendere la realtà di un aspetto così profondamente umano della vita se non siamo disposti a guardare, ascoltare, persino a far finta di capire quando qualcuno dice “Questa è la mia storia”?.

Poco tempo fa ho cercato di immaginare cosa vedrebbero gli altri se cercassero di combattere i draghi che ci sono nella mia vita. Forse è egotistico immaginare il videogioco della propria vita, ma vi assicuro una cosa: nulla mi terrorizzerebbe di più che lasciarvi frugare tra i ricordi che tengo chiusi in cassaforte.

Se sul vostro computer apriste una versione interattiva della mia vita, penso che vedreste la mensa di una scuola media. Pavimenti di linoleum, lunghi tavoli laminati, un palco a un lato dello stanzone. Mi vedreste lì seduto, circondato da altri ragazzi. Parlano crudamente di quale ragazza è la più figa, di chi sta nelle loro grazie. Frugo con circospezione nel contenuto del sacchetto del pranzo, di tanto in tanto abbozzo un sorriso o una risata quando mi sembra il momento giusto.

“Patrick, a te chi ti piace?” mi chiede uno dei ragazzi che guidano la conversazione.
“Oh, non saprei” ridacchio nervosamente.
“Ma non ti piace nessuna?” si stupisce il ragazzo. “Cosa c’è che non va?” Nessuno ridacchia più, tutti mi fissano.
“Penso che mi piace Claire” dico.
“Be’ sì, piace a tutti” Il ragazzo rotea gli occhi, poi si mette a gridare: “Hey Claire! Claire! Ti piacerebbe uscire con Patrick?”. Sulla mensa cade il silenzio, e per un momento, e mentre state fissando lo schermo e vi aggrappate goffamente ai manici della sedia, sembra che lei possa alzare le spalle e dire di sì.
“Nooooooo!” grida Claire da due tavoli più in là, prima di tornare al suo pranzo.

Dallo stanzone parte un mormorio, che però piano piano si zittisce mentre mi vedete alzarmi ed uscire. Prima di entrare nei bagni, potete vedermi mentre mi fermo, mi volto e fisso quel ragazzo con i capelli castani arruffati e le spalle quadrate. Poi chiudo la porta dietro di me e mi lascio cadere a terra in uno dei gabinetti.

Nella scena successiva mi vedete seduto sul letto dei miei genitori. Le lenzuola sono perfettamente piegate e aderiscono come un guanto al gigantesco materasso. Una donna, mia madre, siede contro una pila di guanciali e mio padre siede tranquillo sul bordo della sedia nell’angolo. La porta è chiusa, ma lo stesso conversiamo bisbigliando lentamente.

“Se potessi toglierti questo dolore, lo farei. Farei di tutto. La prenderei io questa attrazione, se potessi toglierla a te”dice mia madre. Mi vedete mentre la guardo, poi mentre storno lo sguardo. L’angolatura si sposta in alto e rimane lì mentre noi tre respiriamo piano. Sono lì che tiro su col naso e fisso la moquette.

“Ti farebbe sentire meglio? Cos’è che vuoi?” chiede mia madre. C’è una punta di esasperazione nella sua voce, e lo sentite anche voi. “Perché non risponde?” pensate, “Di’ qualcosa. Qualsiasi cosa. Perché è così difficile dire quello che vuoi?”. Alla fine, dopo tanto tempo che vorreste chiudere il gioco e fare qualcos’altro, sentite dire “Vorrei solo poterlo dire a qualcuno”“Ma non deve importare a nessuno se sei attratto dallo stesso sesso” dice mio padre. Un’altra pausa estenuante. “Sono solo stanco di mentire.”

Nella scena seguente mi vedete addormentato sul divano. Avrò forse vent’anni. Un libro dell’università riposa sul mio petto, ci sono zucche di Halloween in giro per la stanza. La luce e il crepitio che vengono dal caminetto vi incantano e vi fanno sentire subito a casa. Sentite delle voci che vengono da qualche parte e la scena si sposta dal divano alla cucina, dove mio nonno e mia madre stanno parlando. Sembrano non accorgersi che sono a pochissima distanza e poco a poco le loro voci mi svegliano dal sonnellino.

“Potrebbe essere molto peggio, avrebbe potuto scappare a San Francisco o in qualche posto dimenticato da Dio” dice mia madre. Si zooma su di me, sulle mie lacrime. Afferro il cuscino da sotto la testa e me lo metto sulle orecchie. Sento queste parole smorzate: “Perlomeno non è uno di quei gay lì”. Mi metto una mano sulla bocca per non farmi sentire, mentre il caminetto continua a riscaldare e illuminare.

Ora mi vedete seduto fuori da una chiesa, su una panchina, con un sacerdote in collarino. È il crepuscolo, le lucciole occhieggiano nel cortile. È un sacerdote anziano, che siede ingobbito e si storce per guardarmi negli occhi.

“Be’, penso tu sia coraggioso, Patrick” dice.
“No, non lo sono.”
“Pochi hanno scelto di essere fedeli alla Chiesa come te.”
Lo guardo. “Forse ho troppa paura di fare qualcos’altro.”
Sorride e scuote la testa. “Perché dici questo?”
“Tutti mi conoscono come quello che è stato in seminario, che tiene incontri in parrocchia ed ha addosso l’odore della sacrestia. Se cambiassi, perderei tutto e tutti. Qualche volta mi chiedo se sono davvero fedele oppure sono solamente terrorizzato di perdere tutto se seguissi la mia coscienza.”
Il sacerdote replica d’impulso: “Penso che ti stai sottovalutando. Sei un bravo ragazzo, hai aiutato un sacco di gente”.
Resto in silenzio. Lui incalza: “Non pensi che questo sia importante?”.
“Non lo so. Forse. Dico solo che, se la gente sapesse davvero che tipo di persona è seduta accanto a loro a Messa, ci tratterebbero in modo diverso. Meno pronti a definirci intrinsecamente disordinati, più disponibili a capire i desideri di chi si sente attratto dalle persone dello stesso sesso, come loro sono attratti dalla moglie o dal marito.”
Il sacerdote esita, fa cenno di sì e dice “Se sapessero della tua attrazione, potrebbero anche non demonizzarti. Pensi di avere il dovere di dirglielo?”
“Sono solo stanco di essere definito ‘schifoso’ per avere dei desideri come tutti gli altri.”
“Io sono celibe, e la maggior parte della gente non capisce, anzi, pensa che sia una cosa parecchio strana.”
Scuoto la testa. “Tu qui sei un eroe, padre. Quando è stata l’ultima sera in cui una famiglia non ti ha chiesto di andare a cenare da loro?”
Cerca di scherzare. “Forse non sai quanto possa essere estenuante.”
Non cedo, ma questa volta la mia voce è sofferente: “In questo Paese, i gay non possono nemmeno donare il sangue. Ecco cosa la maggior parte della gente pensa di noi: non siamo un po’ strani, siamo tossici. Non è che non vogliono che ci sposiamo, dicono che non ne saremmo mai capaci. Il tuo celibato significa che la tua sessualità è buona, e che la stai offrendo alla Chiesa; il mio celibato vuol dire che non ho nulla da offrire”.

La scena seguente si svolge al tramonto, in una cappella vuota. Girate tra i banchi in legno fino a trovarmi per terra, in fondo, con le gambe incrociate e un diario aperto. Mi raggiungete e vi sedete vicino a me, ma io non alzo la testa. Mentre scrivo nel diario, le parole appaiono sullo schermo: “Non capisco, Dio”. Le parole sono ferme, ma tutt’altro che levigate. “Ho cercato in tutti i modi di fare bene. Quante volte ti ho chiesto di togliermi questo dolore? O di concedermi la forza di sopportarlo? Non mi sembra di poterlo sopportare. Sto affogando. Sono solo.”

Mi vedete mettere giù la penna, mentre una lacrima cade sulla parola solo: una chiazza d’inchiostro si allarga e cola giù dallo schermo. “Darei qualsiasi cosa per innamorarmi, e allora perché non sono capace d’altro che di restare solo? Una donna non potrà mai amare me, il mio vero me. E non mi è concesso amare un uomo. È qualcosa di disordinato, intrinsecamente disordinato, come me. Anche questo è fatto a tua immagine?” Lo schermo diventa nero e appare una scrittura disordinata, la frase finale: “Come posso vivere e sopravvivere se sono incapace di amare?”.

Spesso mi è stato detto che vale la pena soffrire per la mia sessualità, perché reprimendola mi sarei guadagnato il paradiso. Se in questa vita farò la parte dell’uomo etero, nell’altra mi aspetta un paradiso etero. Ad essere sincero, questa posizione fa sorgere in me dei problemi teologici e filosofici; ma, soprattutto un problema emotivo, perché troppo spesso tutto questo mi è stato detto da altri cattolici che non conoscono il peso del fardello che chiedono di portare ai loro fratelli gay e alle loro sorelle lesbiche; e nemmeno se ne curano. Noi siamo un’astrazione, qualcosa di cui parla il Catechismo, non qualcuno con cui capita di parlare. Sanno che ci siamo, ma non ci conoscono.

Per quanto possa essere stupido il mio videogioco, mi piacerebbe squadernare la mia vita e far immergere i cattolici nella vita di chi crede di essere inabile all’amore romantico, incapace di formare una coppia, una famiglia, di crescere dei figli, quanto sia profonda la ferita nella mia anima, quanto influenzi ogni istante della mia vita. Sareste disposti ad essere testimoni, senza poter cambiare nulla? Perlomeno, non sarei più un’astrazione. Mi conoscereste. Avreste l’opportunità di partecipare alle mie lotte e a sedervi accanto a me nel momento del dolore.

E forse mi capireste persino quando dico che non ce la faccio più, che credo che la mia sessualità sia normale, non malvagia. Potreste persino sentirmi raccontare la mia storia e capire che non è un attacco alla Chiesa, ma un modo di sentirmi ancora più parte di essa.

Mi chiedo come reagireste se mi conosceste, se vedeste com’è in realtà la vita che ci chiedete di vivere. Se volete conoscerci veramente, i cattolici e le cattoliche omosessuali sono già qui, vicino a voi.

*Patrick Gothman è un autore cattolico che vive a Seattle ed è curatore di Reaching Out, che raccoglie storie di persone LGBT credenti. Twitter: @pgothman

Testo originale: I am gay and Catholic. Are you willing to walk in my shoes?