Se “mi” racconto mi conosci – Dio è il mio capocordata: mi ha salvato la vita
Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]
Era a un passo dalla conquista del Nanga Parbat in ascensione invernale, ma è tornata indietro. «Sono grata a Dio, mi ha sussurrato di rinunciare: sarei morta».
«Essere la prima donna a scalare un Ottomila in una prima salita invernale era uno dei miei sogni più belli. Ho rinunciato e sono tornata indietro, ma mi è stato regalato molto, molto di più».
Si aspettava la vetta e la gloria dell’impresa sul Nanga Parbat, 8.125 metri di altitudine, prima spedizione al mondo in invernale dopo 28 anni di tentativi. Invece, a soli 70 metri dalla vetta, Tamara Lunger, 30 anni appena compiuti, è tornata indietro.
Cosa è successo il 26 febbraio sul Nanga Parbat?
«Quel giorno ci siamo alzati alle 4 del mattino per attaccare la vetta, ma stavo male. Quando scalo solitamente sento Dio vicino, così anche questa volta ho pregato che facesse cessare il vento, troppo forte e fastidioso. Ma Dio non mi ascoltava e lasciava che il vento mi tramortisse».
Così ha capito che doveva rivedere i suoi piani…
«Il vento non cessava, ho cercato un punto riparato in cui riposare, ma soffiava forte dappertutto. Ce l’avevo quasi fatta, dalla vetta Ali Sadpara (uno dei compagni, ndr) mi incitava a salire. Ero davvero vicina ma dentro di me ho sentito questa frase: “Se vai in cima non rientri più”».
Quanto ha influito la fede nel rinunciare alla vetta?
«Moltissimo. Io so soffrire e resistere a tutto, rinunciare a così poco dalla cima non è da me. Dicevo a Dio: “Se non mi ascolti e fra cinque minuti c’è ancora vento vuol dire che non vuoi che vada in cima”. Le cose non succedono mai per caso e, siccome più camminavo più la gioia di salire mi passava, ho capito che aveva ragione Dio: ora sono sicura che se fossi andata in cima sarei morta. Come dice Simone Moro, Dio mi ha regalato il vento per farmi capire che dovevo tornare indietro».
In discesa poi ha rischiato nuovamente la pelle…
«Saltando un crepaccio ho preso una storta, sono caduta sulla pancia e il cappello mi è sceso sugli occhi. Non vedevo più niente, all’inizio ho lottato, cercavo di fermarmi con ramponi e picozza. Poi, me lo ricordo come se fosse adesso, mi sono lasciata andare, e ho detto al Signore: “Non pensavo che mi avresti presa così”. Ero lucida, ho accettato la morte imminente e aspettavo solo il colpo finale, sulle rocce o in un crepaccio. A un certo punto invece sono atterrata su un mucchio di neve fresca: Dio mi ha fatto adagiare lì. Quando mi sono ripresa ho guardato il tramonto, mi è apparso come un regalo del Cielo per me. Nessuno mi aveva visto cadere e nessuno mi avrebbe mai trovata: mi sentivo grata, sicura che fosse stato proprio Dio a salvarmi».
Non si è sentita abbandonata?
«No, sentivo che il Signore mi accompagnava. Volevo dare il meglio ma evidentemente, visto che non stavo bene, salire il Nanga Parbat era troppo per me: Dio mi ha fermata giusto in tempo. Così mi sono rimessa in piedi, l’ho ringraziato e sono ripartita. Nella caduta mi ero strappata i legamenti della caviglia e quasi rotto i tendini della spalla: è stata molto dura. Piano piano ho ritrovato la tenda e quando sono arrivati i miei compagni, felici per il successo, ho fatto loro le congratulazioni. Ero triste per l’occasione persa, ma in fondo sapevo di essere stata davvero vicina alla morte».
Dio le ha dato indicazioni come un capo cordata. Che rapporto ha con la fede?
«Fin da quando ero piccola sento Dio come una persona che mi mette la mano sulla spalla. I miei genitori portavano me e le mie sorelle a Messa e la sera dicevamo assieme le preghiere. Poi la mia fede è cresciuta in autonomia dalla famiglia, forse perché ho vissuto tante spedizioni in quota, dove ti senti vicina a Dio e la fede ti prende in un modo più viscerale. Per me la preghiera è un dialogo con il Signore, sento che ascolta molto la mia preghiera. Tutte le cose importanti che ho chiesto prima o poi si sono verificate. So che Dio mi è vicino, mi guarda: la fede mi rende felice e mi fa superare gli insuccessi come una parte del disegno che Dio ha per la mia vita».
Quando è in spedizione la sua famiglia non si preoccupa?
«I miei genitori si fidano di me perché sanno che so rinunciare. Solitamente quando arrivo in vetta telefono a casa, sul Nanga Parbat li ho chiamati solo una volta rientrata alla tenda. Mia mamma mi ha detto che era molto orgogliosa di me perché ero tornata indietro senza rischiare la vita: mi ha dato grande serenità».
A proposito del Discorso della montagna, quali sono per lei le beatitudini?
«I beati sono coloro a cui Dio, come a me, dona la fede. Sono beati perché la fede fa vivere con speranza. Quando muore qualcuno in montagna, io non penso alla tragedia avvenuta, quanto alla fortuna di avere conosciuto persone che hanno vissuto con passione. Dio dà a ciascuno possibilità e talenti: sta a noi metterli a frutto. A chi mi dice che metto a rischio la vita e così facendo “provoco” Dio, rispondo che ho ricevuto un dono che mi fa provare felicità e se non lo sfrutto è un’occasione persa. Di più: un peccato. La vita è breve e dobbiamo cercare di fare il meglio possibile, per noi stessi e per gli altri».
Qual è la tentazione più forte per un alpinista?
«Alzare sempre più l’asticella del limite per mostrarsi al mondo».
Il paradiso per lei è fra le Dolomiti, casa sua, o in Himalaya?
«In alta montagna, dove trovo pace e posso contemplare il creato: le nuvole, il sole ma anche le valanghe. Ogni mattina mi ritaglio del tempo per stare in silenzio e meditare, anche questo mi dà la sensazione del paradiso. Prima di ogni spedizione invece faccio dire una Messa al santuario Santa Croce di Lazfóns, accanto al rifugio che i miei genitori gestiscono sulle Dolomiti. Con Balthasar Schrott, un sacerdote a cui siamo affezionati e che spesso si ferma in rifugio per lunghe chiacchierate, chiamo anche i miei amici: insieme celebriamo la Messa e solo dopo mi sento pronta per partire, verso il paradiso».
Tratto da Credere