Le Lettere di Alessandra Bialetti – Unici o diversi?
La parola diverso è diventata di moda. Identifica tutto ciò che si discosta dalla norma, dalla curva di Gauss per chi ama le statistiche e per chi non ne mastica abbastanza è quella curva che ci permette di valutare cosa sia “normale” perché racchiuso in valori vicini alla media e ciò che invece non lo è perché “deviato” dalla norma. E’ un concetto caro agli scienziati e utilizzato molto spesso anche nella ricerca psicologica per attestare ciò che possa essere considerato “normale” al fine di interpretare comportamenti, atteggiamenti, modi di essere. Sul termine normalità si è discusso molto senza pervenire ad una reale specificazione: solitamente ci si attesta sulla misurazione statistica per cui più è frequente un determinato comportamento più è normale. Tutto ciò che si allontana da tale riferimento viene considerato una deviazione. E purtroppo tale vocabolo ha finito per permeare molti dei nostri rapporti: quando vediamo qualcosa che non riusciamo a catalogare, a definire o che ci appare “strano”, si forma in noi il concetto di deviazione. Questo ci aiuta a tenere sotto controllo situazioni e persone che sembrano sfuggire alla nostra comprensione, ci aiuta a sentirci dalla parte del giusto, allena il nostro sguardo a discriminare ciò che non si presenta come simile a noi, vicino alla nostra esperienza e possibilmente catalogabile nei nostri parametri. Così chi non si comporta conformemente alla media diventa un deviato, chi presenta caratteristiche difformi dalla maggioranza diventa un diverso. Purtroppo non prendiamo a prestito dalla statistica il significato di deviazione ma gli attribuiamo un colore patologico, sbagliato, insano. Restare nella media, all’interno della curva normale di Gauss diventa garanzia del nostro vivere e metro di paragone per chi invece sembra discostarsene. Quante volte scherzando, ma in fin dei conti nemmeno tanto, ci capita di dire “ma tu non sei proprio normale” attestando così la nostra rettitudine di vita, di comportamento e di abitudini. La normalità ci rassicura, ci mette al riparo da attacchi e da sguardi giudicanti. Guai poi a farsi vedere in giro con i cosiddetti devianti ovvero con chi mette in atto modi di concepire la vita, vivere la propria esperienza, la propria affettività, le proprie relazioni in modo difforme cioè lontano dalla forma e dalla struttura che garantisce l’essere al posto giusto. Per mitigare il concetto di deviato abbiamo creato quello di diverso ma il risultato non cambia poi di molto. Diverso da cosa? Diverso da chi? Quale è il parametro che definisce una persona uguale o diversa? La presunzione di essere sempre dalla parte del giusto? La rettitudine che non mi fa mai deviare o scivolare in cadute umanamente comprensibili ma che diventano metro di giudizio? Il diverso è sempre qualcosa che non corrisponde a parametri, che sfugge al controllo di chi vuole tutto uguale per non dover compiere uno sforzo di comprensione, che fatica a cogliere similitudini piuttosto che differenze incolmabili. Ci rende uguali il condividere l’esperienza comune a TUTTI dell’umanità, di un’umanità che fatica, che arranca, che soffre, gioisce, spera, che è debole e forte allo stesso tempo, di un’umanità in cui tutti ci dovremmo riconoscere.
Così la parola diverso abita i nostri dialoghi, alberga nei nostri pensieri, guida le nostre azioni di apertura o chiusura, riempie giornali e testi di studio ma ci allontana dall’accoglienza incondizionata dell’altro come appartenente al mio stesso cammino di vita. La parola diversità stenta a colorarsi di connotazioni positive anche se si parla spesso della sua ricchezza e dello sforzo continuo di valorizzarla. E’ triste ammetterlo ma ancora fa paura questa diversità: di etnia, di religione, di lingua, di sesso, di condizioni personali e sociali, di modi di esprimere se stessi, di modi di costruire relazioni, di modi di vivere la propria affettività. Arranchiamo ad estendere la realtà a qualcosa che sfugge alla nostra esperienza e di certo le barriere che si stanno elevando sulle nostre coste italiche e ancor più nei nostri cuori, non ci aiutano. Ci rendono sempre più dissimili, sempre più sconosciuti uno all’altro e spesso, sempre più spesso, nemici.
Quanta gioia quando ci sentiamo dire che siamo “unici”. Ci fa sentire speciali, non omologati alla massa, portatori di splendide connotazioni che sono solo nostre, ci fa sentire rari, non un numero tra tanti, ci rende visibili ed evidenti nelle nostre peculiarità. Ma se ci dicono che siamo “diversi”? Ci sentiamo fuori dalla norma, incomprensibili, invisibili, strani, sbagliati, difformi, non catalogabili e quindi estranei e stranieri. Si eleva la barriera davanti al diverso per paura di entrarci in contatto, per paura di scoprire in noi le stesse radici di diversità o altre che ci pongono al di fuori del normale, per paura di mischiarsi con qualcosa che socialmente viene discriminato e allontanato (essere amico del diverso mi macchia della stessa diversità…).
Le parole avvicinano o costruiscono muri. Sta a noi utilizzarle in modo positivo, sta a noi costruire ponti tra diversità perché in fondo tutti siamo diversi uno dall’altro in quanto unici ed originali e non copia conforme. Sta a noi riscoprire quell’unicità che rende ciascuno amabile per ciò che è e non in quanto appartenente alla comoda schiera dei normali, sta a noi reinventare modi rivoluzionari di dialogare ed entrare in relazione. Perché l’accoglienza spesso inizia proprio dal linguaggio, dalle nostre parole.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.