Alessandra Bialetti / Blog | 19 Giugno 2018

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Lettere dal Pride

9 giugno 2018. Una giornata calda ma anche abbastanza clemente per i tanti che hanno affollato Piazza della Repubblica a Roma per celebrare e festeggiare il Gay Pride. In tanti, “variegati”, colorati o meno, omosessuali o meno, passeggini con bimbi di famiglie eterosessuali, passeggini con bimbi di famiglie omogenitoriali, carri di genitori Agedo (associazione di genitori di figli omosessuali) come anche carri di varie realtà presenti a Roma. Associazioni di cristiani e credenti sia omosessuali che no. Quest’anno alla testa del corteo anche due partigiani: Tina Costa 93 anni e Modesto 92. In piazza per una lotta che ritengono giusta.

Sono anni, 24 per la precisione, che la città vede sfilare questa manifestazione tra critiche, pareri concordi e discordi. Una carnevalata, una pagliacciata, una provocazione e un’offesa al senso del pudore per molti, un motivo forte per scendere in piazza e poter esprimere se stessi, il proprio percorso di vita, il desiderio di non nascondersi più per tanti altri. Per molte persone anche eterosessuali il modo di lottare per i diritti di ciascuno che, come si dice spesso, se non sono per tutti non sono diritti. Sicuramente i media veicolano messaggi di grande impatto, immagini di nudi esibiti, di canzoni urlate, di vestiti dalle fogge discutibili. Non posso non riconoscere che il Pride sia anche questo ma non posso non dire che non sia solo questo. Dipende sempre con che animo si partecipi e quale motivo spinga a scendere in piazza magari vestiti semplicemente, magari senza urlare, magari senza provocare in alcun modo.

Così ho voluto raccogliere delle testimonianze di chi il Pride lo ha vissuto sulla sua pelle magari per la prima volta. Pensieri, emozioni, riflessioni che riporto perché ognuno possa esprimere se stesso al di là di catalogazioni ed etichette. E non sono parole solo di persone omosessuali ma di persone in quanto tali.

Felice

È il primo anno che partecipo al gay pride.

Sono stato indeciso fino all’ultimo: riflettevo sul fatto che il documento politico non rappresenta la mia sensibilità, ero un po’ imbarazzato all’idea di sfilare accanto a gente appariscente quando per mia natura sono un po’ timido.

Poi però ci ho pregato su, e ho sentito che anche il mio contributo, quello di un giovane cattolico omosessuale che sogna un’affettività forse controcorrente rispetto a quella della maggioranza dei ragazzi lgbt, che crede in un amore omosessuale con al centro Gesù, potesse essere importante.

Perché la bellezza del gay pride è proprio l’arricchente diversità di tutti coloro che vi partecipano, che non possono essere ridotti ad una categoria – “lesbiche”, “gay”, “bisessuali”, “transessuali” – perché sono persone , ognuna con la propria storia, i propri sogni, il progetto unico di bene che Dio ha per ciascuno dei suoi figli.

Alla fine dunque ci sono andato  perché volevo festeggiare il potermi finalmente definire “orgoglioso” di quello che sono.

Orgoglioso non di essere gay. Orgoglioso di riuscire a scorgere anche nel mio essere omosessuale la mano del Signore che mi guida verso la vita nuova, la vita piena. Orgoglioso di essere figlio di un Dio che mi ha voluto proprio così come sono e grato della dolcezza di Gesù che in un percorso – tortuoso, non facile, ma intenso e molto bello – sta riuscendo a ribaltare la percezione che avevo del mio essere omosessuale. Non più limite, barriera, muro che mi impedisce di essere pienamente felice, ma soglia da attraversare per seguire il sentiero di bene che il Signore ha tracciato per me. 

E allora anche io ho ballato, urlato, riso, battuto le mani, abbracciato i miei amici, per celebrare la grandezza di Dio portando nel mio cuore il passo del salmo 139 “io ti rendo grazie, hai fatto di me una meraviglia stupenda”!

Giovanna

Ho partecipato al Pride in nome di chi ha subito violenza perché omosessuale, di chi è stato ucciso perché omosessuale.

Sì, perché sembra incredibile, ma ancora oggi si  subisce violenza e si muore solo perché si è omosessuali, cioè perché si ama una persona dello stesso sesso.

Durante tutto il Pride, ho fatto ciò che alcuni “cristiani” hanno proposto: una preghiera di riparazione. 

Ho pregato per le vittime innocenti e per i loro carnefici, perché possano trovare misericordia davanti a Dio, quel Dio di amore che non abbandona nessuno dei suoi figli.

Si, ho visto qualche eccesso negli atteggiamenti qualche cartello ingiurioso, ma lo considero una reazione, forse un po’ dura, di chi si sente continuamente vessato, umiliato, scartato…. 

Edoardo

Come spesso faccio durante le mie giornate ho inviato a mia madre qualche foto di quel che stavo vivendo sabato: il RomaPride. Per errore però le ho inviato anche una un po’ più goliardica dove sono in compagnia di un avvenente ragazzo del Muccassassina (locale romano).

Lei, da sempre molto aperta e mai contraria alle mie scelte, questa volta ha “accusato il colpo” dicendomi che certe pagliacciate anche no e chiedendomi come mai ci ostiniamo a chiedere più diritti coprendoci di ridicolo. Oltre a spiegarle la storia del Pride, partendo dai moti di Stonewall del 1969 le ho anche ricordato come le altre manifestazioni più “culturali” siano sempre ignorate dai media e come sia invece favorevole continuare a diffondere l’immagine del gay seminudo che chiede diritti ballando a ritmo di musica su di un carro (perché i vari servizi dei TG solo questo hanno mostrato). 

Per me il Pride è liberazione, è portare in piazza quello che giornalmente viviamo. E’ liberazione del corpo e della mente, è essere per un pomeriggio tutti quello che siamo, senza nasconderci. E’ dire: “Oh, noi ci siamo, siamo pure tanti.” E’ manifestare per i miei diritti in maniera gioiosa, senza slogan contro quello o questo anche se sì, qualcuno più arrabbiato c’è sempre e spesso si scaglia contro Santa Madre Chiesa.

Per quanto mi riguarda più che rabbia quello che mi crea sdegno è l’ipocrisia di chi vorrebbe che non esistessimo così come siamo, con il valore e la dignità della nostra vita per poi organizzare preghiere e manifestazioni riparative. Ma se invece di puntarci il dito contro a vicenda provassimo a parlare, no?

Franco

Io, avvocato, da credente e gay non avevo mai partecipato ad un pride. Non mi identificavo in quella che credevo una manifestazione troppo esibizionista. Ma con il  gruppo di gay credenti omosessuali di Nuova Proposta ho iniziato a partecipare a questa iniziativa e piano piano mi sono reso conto che è anche una manifestazione politica e di affermazione della propria presenza e direi della propria esistenza. Come per altre manifestazioni il numero conta. È’ quindi giusto esserci per dire che si esiste e si hanno dei diritti che nessuno può negare. Le minoranza vanno tutelate come afferma la nostra stessa costituzione.

Dea

Appuntamento in piazza della Repubblica, una piazza piena di tanti colori e di musica, troppo alta per i miei gusti. Ho sempre partecipato a manifestazioni per rivendicare il diritto a qualcosa, qui è diverso, si tratta di rivendicare il diritto ad esistere, a non nascondersi, ad essere riconosciuti. Quello che mi colpisce è il come questa rivendicazione è espressa. Niente slogan gridati, nessuna parola d’ordine specifica, si canta e si balla per le strade di Roma, tanti tantissimi ragazzi e ragazze, sono loro che mi colpiscono di più: è la loro festa. È facendo festa che dicono con forza: ci siamo, è divertendosi come matti che mettono sotto scacco il ministro Fontana e ridicolizzano le sue affermazioni. E mi riviene in mente la citazione dell’anarchico russo, Mikhail Bakunin: “Una risata vi seppellirà”.  Senza rabbia, con la forza della leggerezza, aprono brecce nei muri che li escludono.

Penso ai muri con cui fece i conti Gesù nella Palestina del suo tempo, quelli eretti a protezione della purezza dei “buoni”, che dividevano i poveri, gli impuri, i malati e i peccatori da coloro che si preoccupavano di tenerli a distanza per non contaminarsi con la loro impurità. Anche Gesù, come i ragazzi e le ragazze del gay pride, pensava che i muri si potessero abbattere facendo festa.

Ci aiutano a capire il pensiero di Gesù le tre parabole del Vangelo di Luca, la pecora smarrita, la moneta perduta e la parabola dei due fratelli. Gesù le racconta in risposta ai farisei e agli scribi, che, da benpensanti (diremmo noi oggi), lo criticavano per le sue frequentazioni, come chiarisce l’introduzione contenuta nel capitolo 15 di Luca (Lc 15,1-2). Diverse sono le situazioni che le tre parabole presentano, ma la conclusione è la stessa: c’è una festa, e alla festa sono tutti invitati, lasciando cadere le differenze: i bravi (o quelli che tali si considerano) e i meno bravi, i puri e gli impuri… Perché se gli emarginati da una parte del muro soffrono, siamo sicuri che quelli dall’altra parte siano felici? Per stare bene gli uni e gli altri i muri devono cadere e si deve far festa. Questo pensava Gesù, e per tutta la sua vita ha sempre seguitato a rilanciare l’invito ad entrare alla festa, lo stesso invito che il padre della parabola fa al figlio maggiore, che si rifiuta di entrare. Quello di Gesù è stato per molti un invito scomodo. Tocca a noi oggi rilanciarlo.

Gesù era un festaiolo, perché si immaginava così il regno di Dio: come una grande festa dove tutti e tutte stanno insieme. Un pezzetto di quel regno di Dio, che Gesù sognava e che ci ha chiesto di costruire, io l’ho visto e vissuto nella grande e gioiosa festa del gay pride.

Flavia

Erano tre anni che volevo partecipare al Gay Pride ma ogni volta, all’ultimo momento, mi capitava di avere un impegno. In realtà, sentivo di non essere convinta. Quello che veramente mi dissuadeva dall’andare era l’immagine stereotipata del Gay Pride che credo abbiano tutti quelli non ci sono mai andati. Mi faceva rabbia pensare che l’impegno di tante persone per affermare con serietà e fatica i diritti del mondo LGBT venisse svilito da persone che ostentavano trasgressive e volgari mascherate. Ma quest’anno sono voluta andare lo stesso. Man mano che mi avvicinavo a piazza della Repubblica  le voci e la musica aumentavano e, contemporaneamente, sentivo crescere dentro di me l’emozione. Vedevo tantissima gente e soprattutto tantissimi giovani e non capivo perché mi venisse da piangere ma era un pianto commosso, felice quello che cercavo di trattenere.

Ho raggiunto, non senza fatica per la grande folla, il punto in cui erano radunate  persone conosciute e nei saluti e negli abbracci che ci scambiavamo sentivo negli altri la mia stessa emozione, il mio stesso entusiasmo. Poi il corteo è partito. Un enorme corteo, tanti, diversi gruppi. In quella moltitudine di striscioni, di bandiere, di voci, di visi sentivo scorrere un’ energia: quella forza vitale che si sente dentro quando hai bisogno di affermare qualcosa di fondamentale, un diritto basilare.  E allora anche quei pochissimi (perché pochissimi sono in confronto al numero enorme dei partecipanti) vestiti  in modo eccentrico e provocatorio  li ho compresi. Ho capito che il loro è un modo stravagante e esagerato di farsi vedere, di dire: ci siamo. Perché non essere riconosciuti è orribile. È come se ci dicessero: non ci sei, non hai diritto alla vita. Perché quello che univa tutti in quel corteo, quello che faceva sentire anche me così emozionata, così commossa era il desiderio condiviso di esserci. Il diritto di essere visti , di essere riconosciuti, di esistere per quello che si è. Il diritto più elementare che dovrebbe essere garantito ad ogni essere umano, finanche ad ogni forma di vita. Essere se stessi.

Maria Letizia

Mi ha colpito vedere i tantissimi giovani che si fermavano a salutare con un bacio i genitori dell’Agedo, genitori applauditissimi solo per essere presenti a sostegno della libertà di essere dei figli. E di genitori ce ne erano tanti, genitori etero di persone lgbt o genitori lgbt di bimbi bellissimi in quanto tali: segno tangibile ed evidente che non si può pensare alle persone lgbt come monadi,chiuse in un loro emisfero: ma persone esistenti e vere che vivono e si relazionano in un modo tale che la società non può far finta che non esistano. Si tratta di persone che chiedono di essere semplicemente se stesse

Se non si può essere se stessi e dire la propria verità, come si può testimoniare la verità della presenza di Dio nella  propria vita? Si incontra Dio con la totalità del nostro essere e non a metà.