Blog / Davide Vairani | 05 Giugno 2018

Le Lettere di Davide Vairani – Il lato oscuro

Il lato oscuro: i miei dèmoni. Ci sono giorni che ti ritrovi a sguazzare nell’ansia, nella tristezza e nella sfiducia. Tu che di solito sprizzi felicità da tutti i pori, sorridi e hai una parola positiva in ogni situazione. Pensi che magari è solo una giornata un po’ storta che dipende dal tempo. In effetti, guardi fuori e il cielo è nero e gonfio di pioggia che presto arriverà ad inondare ogni cosa. Ma poi ti riguardi dentro e ti viene in mente che eri così anche l’altro giorno e forse qualche altro ancora più indietro. Fuori c’era un cielo azzurro che non lasciava dubbi. Allora forse può essere qualche pianeta di traverso, qualche transito nefasto, e cerchi negli oroscopi conferme che non trovi. “Sarà un periodo così”, ti fai tra te e te. E intanto corri al lavoro, sbrighi le pratiche, esci e torni a casa. Quella tristezza non va via. Provi a pensare a qualcosa di positivo, a quel “luogo sicuro e confortante” che abita in fondo ai ricordi, a quella coperta di Linus che dovrebbe aiutarti. Niente. Non funziona. Si insinua la consapevolezza inquietante che quel malumore è tutto tuo, non viene da chissà quali influssi esterni. Ce l’hai dentro, che cova e che monta, e ha radici profonde. Fuori puoi anche sforzarti di sorridere, continuare ad essere gentile con gli sconosciuti, fare telefonate e scrivere mail come sempre. Puoi anche sforzarti di dire “ciao amore, come è andata oggi?” improvvisando un sorriso stirato e magari farla franca e sperare che lei non si accorga di nulla. Ma in fondo sai che qualcosa non va’. Ammetto che ogni volta che mi succede vado ancora in panico. Eppure dovrei esserci abituato: frequento da troppo tempo i miei dèmoni per non avere ancora imparato nulla? Mi chiedo dove è finito il me creativo e fiducioso, quello che scrive articoli sul blog per ispirare altre persone, che si lancia in post pieni zuppi di fede, che cita ogni tre per due Cristo Gesù.

Che quella persona non sia mai esistita? Che fosse – forse – una maschera, un sogno? Il futuro mi sembra sempre più grigio: ho la sensazione di stare su una nave che sta per affondare, sempre sull’orlo del precipizio. Non mi sento autentico, non mi sento me stesso. Ma chi sono veramente? Il lato oscuro: i miei dèmoni, come li chiamo io.

Magari fossero un’invenzione del cinema, una stupidaggine della fantascienza. Invece ti alzi al mattino, ti muovi appena, e te li ritrovi davanti. In quello che dici, in quello che senti, in quello che pensi, in quello che fai. E diventano sempre più grande e ingombrante, non ti molla e ti viene appresso. Diventa dolore strisciante che non passa, come quando ti fa male lo stomaco. “Depressione”, la chiamano i medici, un po’ perché dare una etichetta aiuta tutti a disegnare un perimetro controllabile a qualche cosa che in sé è imprendibile, un po’ perché questo aiuta a prendere la pillolina giusta per farti stare più tranquillo. “Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro – scriveva Nietzche in “Al di là del bene e del male” -. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”.

Quando stai così e ci stai a lungo, a poco servono tutti quei piccolissimi atti di generosità, di bontà, di abnegazione che in fin dei conti fai per non sentire il vuoto – se non il dolore – che ti porti dentro. E il dolore non può chiedere l’eternità: il dolore chiede che il tempo passi il più veloce possibile. Non serve neanche alzare gli occhi al cielo sillabando un’Ave Maria mentre cerchi di non fare uscire le lacrime dagli occhi (che bestemmia sto scrivendo ..). Che cosa serve perché quell’Incontro con Cristo che hai sperimentato e vissuto – e caspita, non era un sogno quello! – non sia un ricordo o un’illusione? Perché possiamo raccontarcela come vogliamo, ma l’eternità non è chiesta dal dolore, ma dalla felicità. La felicità chiede l’eternità. Davanti alla donna che ami dici “per sempre”: il suo sguardo, il suo volto, il suo corpo “per sempre”. Vorresti che non passasse più, vorresti essere sempre insieme, la felicità chiede l’eternità. Quindi l’eternità è una roba che comincia non nell’aldilà, ma nella nostra esperienza umana di adesso. La felicità è il compimento e il compimento è qualcuno che realizza quello che tu aspetti, quello che tu desideri. Non lo pensavi neanche, ma improvvisamente lo incontri e ti compie, porta a te quello che cercavi. Non si può vivere per qualcosa che deve succedere: è già successo – passato prossimo –, è cominciato e continua. Il problema è allora la purità dello sguardo, che è la capacità (la grazia!) di cogliere l’occasione, la circostanza che ti colpisce, lo strattone che ti viene dato, che ti fa capire quello per cui sei fatto, che ti fa sentire tutto – tutto il presente, tutto ciò che si vive, tutto ciò che esiste – per te, l’opportunità della tua vita. L’eternità è nella felicità, e la felicità è l’avvenimento che noi vogliamo vivere. Avvenimento perché è qualcosa che non dipende solo da noi, deve succedere, o meglio, è successo e che perché accada di nuovo e riaccada ancora e ancora deve succedere come domanda, quasi come pretesa Perché io non voglio vivere così. È l’esperienza del compimento che ci introduce al desiderio del “per sempre”. È come se noi non avessimo il coraggio di entrare totalmente in ciò che è più grande di noi, in ciò che ci costituisce pur essendo più grande di noi, è come se non avessimo neanche il coraggio di entrare veramente in noi stessi, in quello per cui siamo fatti. Ci frena il limite e, con il limite il dolore, ci frena il calcolo con cui noi aggrediamo questo limite, con cui pensiamo di affrontarlo. Che alternativa hai? Provare a viverlo e a seguirlo, sempre e comunque. Perché quando il dolore è vissuto così ed è accettato così, l’esito più impressionante è la fecondità di vita. Da ciò che muore viene su la vita, la vita in termini di coscienza, in termini di amicizia e in termini di cambiamento. L’eternità non è allontanata dal dolore. Per l’inesorabile positivo presente nella realtà non è allontanata, non è allontanata dal dolore, dal limite, dalla contraddizione. Tutto questo che scrivo capisco che è mistero. Mistero: apparente confusione, perché mistero è qualcosa che si vede, ma non si possiede. Il mistero non è l’ignoto, magari ci appare come una confusione, ma dentro di essa si manifesta una presenza amica, compassionevole dei nostri errori. Siamo dentro questo mistero, a contatto con questo mistero. La coscienza di non possedere, la coscienza di non fare da noi tutto, è proprio il realistico punto di partenza da cui si può accedere all’eternità. Niente è più arduo che accettare e accogliere sé, così come uno è nel modo in cui lo è. Forse, ma so bene quanto questo sia assurdo, solo se Qualcosa di divino diventasse umano, prendesse su di sé tutto l’abisso che siamo, potrebbe avvenire la cosa più impensabile e inaudita: potrebbe sorgere in noi la forza e la libertà di perdonarci.

 

Sono nato il 16 magg­io del 1971 a Soresi­na, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Graz­ia. Laureato per accide­nti in filosofia all­’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con d­on Luigi Giussani che mi ha educato a vi­vere. Vi invito a seguirmi sulla mia pagina Facebook e su web al mio Blog “Scommunity