Blog – Nella Trinità la storia di una comunicazione rispettosa

Nel giorno in cui la Chiesa celebra un Dio che è Tre persone e una sola natura, mi chiedo perché i nostri primi fratelli non ebbero difficoltà ad utilizzare parole pagane per parlare del nostro mistero più grande, e invece noi non vogliamo utilizzare parole come gay, pedofilia o perfino omosessualità per rivolgerci a persone che si definiscono in base ad esse. Mi fa pensare a ciò il bell’articolo di Mocellin su Avvenire di venerdì 25 maggio in cui, a proposito della giornata mondiale contro l’omofobia (altra parola detestata da alcuni cattolici), riporta il richiamo dell’arcivescovo di Bologna Zuppi alla necessità di “una comunicazione rispettosa”.
Il dialogo con qualcuno, per iniziare, ha bisogno di esordire con le parole che gli interlocutori usano per indicare la propria esistenza. Lo sa bene una persona dell’Opus Dei come me che non gioisce se vede descritta la propria vita con espressioni quali “voti”, “stato di vita” o altre che non designano esattamente il modo di essere di chi appartiene alla Prelatura.
Come dice Zuppi, si può benissimo usare l’acronimo LGBT senza alcun intento ideologico ma solo con la volontà di usare le parole che le persone si sono date. Perché una conoscenza si inizia con la domanda “Come ti chiami?” che vuol dire la volontà di sintonizzarsi con il “chi sei” nel quale ti riconosci.
Senza dimenticare poi che il cristiano è chiamato ad essere anima del mondo: il che significa amarlo e sceglierlo questo “corpo” mondano che dovremmo animare. E mischiarsi con esso fino al punto di usare le sue parole per indicare la vita intima del nostro Dio Trino.

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A valle della Giornata internazionale contro l’omofobia, che si è celebrata il 17 maggio, la blogosfera ecclesiale ha intensificato i post che quotidianamente incrociano il tema “fede – omosessualità – Chiesa”: negli ultimi giorni, sui siti che frequento, ne ho contati uno ogni dieci. Si tratta di una questione sulla quale la polarizzazione è assai forte, e come capita spesso in questi casi la scelta stessa delle parole con le quali vengono definite le persone di cui ci si occupa consente ai lettori/interlocutori di intuire da quale punto di vista le si guarda.
Usato da papa Francesco nella celeberrima risposta alla domanda di una giornalista, sul volo di ritorno da Rio de Janeiro a Roma (luglio 2013), il termine “gay” sembra quello scelto nel dibattito intraecclesiale quando non si ritiene necessario prendere le distanze dal linguaggio della comunicazione popolare, che lo utilizza di preferenza. Parlare di “sodomiti”, come accade abitualmente nell’area antimoderna, mette immediatamente e aspramente in chiaro la convinzione che la Scrittura (l’espressione, in traduzione italiana, si trova nel corpus paolino) non consenta alcuna indulgenza verso la pratica omosessuale. “Omosessuali” rimane il termine preferito quando si vuole rimanere aderenti all’impostazione fatta propria sin qui dal magistero (Catechismo della Chiesa cattolica in primis), che invece identifica problematicamente ciò che chiama “cultura gay”. Usare “Lgbt”, come sottolinea monsignor Zuppi nella prefazione all’edizione italiana del libro di padre Martin “Un ponte da costruire”, pubblicata anche qui su “Avvenire” ( tinyurl.com/y8vskchf ), può essere fatto «senza alcuna intenzione ideologica, ma solamente con la volontà di indicarle con il nome che queste stesse comunità si sono date». Il punto, come sottolinea lo stesso monsignor Zuppi, è «avviare una comunicazione rispettosa». Il modo potrebbe essere scegliere l’espressione che ognuno di noi, faccia a faccia con gli amici e conoscenti omosessuali che certamente ha, pronuncerebbe sapendo di non mancare loro di rispetto.

Tratto da Avvenire