Se “mi” racconto mi conosci – Io SONO un focolarino: la mia strada è quella
Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]
La prima volta che ho sentito parlare di “Ideale dell’unità” avevo 8 anni, ero a casa di Luigi, un compagno di scuola, a Mezzomerico, un minuscolo paese di circa 800 abitanti della provincia di Novara. Lui mi aveva semplicemente invitato a giocare con altri suoi amici senza minimamente immaginare che quel pomeriggio primaverile avrebbe cambiato radicalmente la mia vita. Non che gli anni precedenti fossero trascorsi così, senza colpi di scena. I miei genitori si erano sposati nel 1978, lei pugliese lui piemontese doc e per circa nove anni, per vari motivi, non erano riusciti ad avere un figlio per cui avevano deciso di adottare me, venendomi a recuperare nientemeno che nello Sri Lanka, nel 1987. Provate a pensarci: un bambino di colore, figlio di Livia, “quella del sud” e Pierantonio, “quello che ha sposato una di fuori”. Ce n’è abbastanza per concentrare la morbosa curiosità dei pettegoli del paese per anni. E così fu, ovunque andassi mi sentivo osservato, scrutato, alle volte anche giudicato. Ero timido, insicuro, silenzioso. Mi rinchiudevo nella mia cameretta a giocare con le mie automobiline, a leggere i miei libri, ad immaginare il mondo da un altro punto di vista. Gli amici di cui mi fidavo e che non mi facevano sentire perennemente sotto esame erano pochissimi per questo rimasi particolarmente colpito quando incontrai dei perfetti sconosciuti che andarono oltre a quel muro difensivo da cui scrutavo gli altri. Che definissero quel pomeriggio “Incontro Gen” poco m’importava, mi avevano fatto stare bene e questo mi bastava. Quegli incontri divennero la mia oasi di pace e ben presto mi ritrovai a far parte di una porzione della Chiesa o, come lo definiva San Giovanni Paolo II “un popolo”, quello del Movimento dei Focolari. Fino ai 16 anni la mia partecipazione fu abbastanza saltuaria ma con il passaggio a Gen2, la generazione nuova del Movimento che ha per fine la realizzazione del testamento di Gesù “Che tutti siano uno” (Gv 17,21), la voglia d’impegnarsi per rendere quest’utopia reale crebbe in maniera esponenziale. Il provare a mettere in pratica le parole del Vangelo, senza paura di ricominciare dopo le cadute di ogni giorno, la grande apertura laica ed ecumenica, il dialogare con tutti perché tutti siamo chiamati all’unità ma soprattutto l’ andare a Dio non solo da singolo ma in gruppo, in una dimensione comunitaria, divenne pian piano parte del mio stile di vita. L’esempio concreto delle tantissime persone che ho conosciuto in questi anni ha fatto sì che non solo diventassi la persona che sono oggi ma che restassi fedele al Vangelo senza perdermi in altre strade: sono sicuro al 100% che senza i focolarini oggi di Chiesa non ne vorrei assolutamente più sentir parlare! E tra poco capirete perché. E’ il 2010 e quella piccola fiamma accesasi anni or sono a quel punto era ormai diventata un bel fuocherello: mi sentivo pronto per qualcosa di più. Fu così che arrivai ai Castelli Romani per trascorrere, insieme ad altri giovani più o meno della mia età provenienti da un po’ tutto il mondo, un anno a servizio del Movimento. Nel frattempo il timido bambino aveva ceduto il passo ad un irrequieto e scalpitante ventenne, con una chiara e progressista visione delle cose ed una voglia matta di accelerare i tempi biblici del cambiamento generazionale. Quante volte ho messo a dura prova la pazienza dei focolarini con le mie boutade! Col senno di poi penso che quel cercare spesso e volentieri lo scontro non foss’altro che un modo per poter sfogare la frustrazione dovuta al non sentirmi libero di parlare di un argomento che avevo volutamente accantonato in un angolo per anni: la mia omosessualità. Già, sono gay. Ora non ho problemi a dirlo ad alta voce ma quanto c’è voluto per ammetterlo anche solo con me stesso. Eppure, se mi guardo indietro, penso di aver capito che mi piacevano i maschi intorno ai sette/otto anni! L’anno trascorso al servizio del Movimento fu un anno fenomenale dal punto di vista sia umano che spirituale e se ci ripenso oggi non riesco a non sorridere ma al ritorno in Piemonte fu chiaro che non potevo più permettermi d’ignorare l’elefante nel salotto, bisognava affrontare l’argomento. Non sapendo bene con chi aprirmi feci l’unica cosa che mi venne in mente: andai in Chiesa, davanti al Santissimo e gli dissi, senza tanti giri di parole di farsi capire, ché se mi voleva eterosessuale mi sarei impegnato ma che io non mi sentivo “sbagliato” come taluni affermavano ed anzi se era vero che “siamo fatti ad immagine e somiglianza” a questo punto anche Dio …! Poco tempo dopo questa sfuriata iniziai a lavorare per la Diocesi di Torino e lì ebbi modo di conoscere Don Livio, un sacerdote salesiano, con cui dal primo giorno instaurai un bellissimo rapporto di fiducia e stima reciproca. Ma sopratutto con cui finalmente, riuscii a parlare apertamente di tutto ciò che mi portavo dentro ormai da troppo tempo: ansie, paure, voglie, desideri, sogni, angosce, domande … Mi lasciò parlare a ruota libera senza mai interrompermi e poi pronunciò poche parole: “Dio ti ama” disse “Così come sei. Non gli importa cosa sei, etero, gay, alto, basso, bianco, nero … Se tu continui a mettere in pratica il Vangelo mi dici che problema c’è? Continua a fare quello, poi vedrai che se fai qualcosa che non gli torna te lo fa capire!” Semplice, chiaro, disarmante, diretto. Nelle sue parole, nel suo tono, nel suo sguardo ritrovai quell’amore che temevo di perdere, ebbi la percezione, quasi la certezza che in quell’istante non fosse solo Don Livio a parlarmi. Da quel momento quelle poche parole aprirono la via, anzi convalidarono la strada che fino a quel momento avevo intuito ed iniziato a percorrere (e che seguo tutt’ora). Fu come rinascere, ogni cosa mi sembrava nuova o meglio mi sentivo legittimato a viverla. Non c’era più quell’ombra, quel macigno in fondo al cuore, quella vocina nella mia testa che diceva: “Puoi impegnarti quanto vuoi, adorazioni, lectio, incontri coi Gen, attività varie, congressi … ma sei sbagliato e quando se ne accorgerà… vedrai!”. Quando se ne accorgerà… che scemo che ero, come se Dio non sapesse già tutto da principio, come se dovessi dirgli io tutto! Era quella presunzione la cosa errata, mica il mio orientamento sessuale! All’interno del Movimento le cose procedevano tra alti e bassi, tante attività, tante gioie e qualche immancabile dolore. Sorprendentemente mi resi conto che riuscivo a conquistare ed avvicinare vari giovani non tanto (o forse non solo) con le parole ma soprattutto coi fatti, dimostrando, insieme ad altri Gen, che non solo un’incontro in cui si medita su di una frase del Vangelo, il partecipare alla Messa o ad una veglia ma anche una partita di pallavolo, una gita al mare, una serata in discoteca, un birra al pub hanno la stessa importanza e valenza ai suoi occhi, perché “dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Il gruppo cresceva sempre di più, coeso e gioioso: quante risate assieme ma anche quanti momenti profondi. Io, figlio unico, sentivo improvvisamente di avere un sacco di fratelli e sorelle, ed era una sensazione bellissima. Ma in famiglia occorre essere sinceri. Fu così che iniziò un coming out lentissimo, ponderato, destinato a durare anni. Perseverai, facendo un po’ mia la Parola di Vita che Chiara Lubich (la fondatrice del Movimento dei Focolari) affidò a Carlo Grisolia, un gen ligure, attualmente Servo di Dio: “Nella carità senza ipocrisia”,* una 1 frase che mi aveva sempre colpito molto e che da subito avevo sentito mia. Questa comunione d’anima totale proseguì lenta ma inesorabile per circa cinque anni: cercavo di capire se la persona fosse pronta per accogliere la notizia, cercavo un momento adatto e poi … sganciavo la bomba. Ogni volta era come lanciarsi nel vuoto, tuffarsi da un trampolino altissimo senza sapere se mi sarei ritrovato a nuotare nel mare o mi sarei schiantato sul fondale. Per mia fortuna incontrai una grandissima apertura mentale e d’animo ed anzi, questo mio uscire allo scoperto fu il punto di partenza per andare ancora più in profondità e stringere rapporti ancora più sinceri e fraterni. Solo in poche occasioni mi trovai a sbattere contro un muro: ogni volta fu come ricevere una coltellata. Puntualmente rimettevo in discussione tutto, tornavo davanti al crocefisso, chiedevo indicazioni. Immancabilmente la risposta era sempre la stessa, suggerita nei modi più disparati: aveva ragione Don Livio, se vuole dirti una cosa Dio te la fa capire. Intanto il quadro astratto che Dio sta disegnando con me mi aveva portato a vivere nei pressi di Loppiano, la cittadella internazionale del Movimento, a pochi chilometri da Firenze. Subito ebbi la percezione che certi argomenti non fossero molto ben visti da quelle parti per cui decisi di non dire nulla, convincendomi che fosse meglio per tutti. E forse per gli altri era davvero meglio così ma per me me fu un tracollo: ero sempre stato discreto ma non mi ero mai trovato a vivere nascondendo la mia natura. Mi sentivo sotto pressione e rivivevo le stesse sensazioni di quando ero piccolo: osservato, scrutato, giudicato. Con l’aggravante che tutto ciò avveniva in una cittadella in cui, almeno in teoria, tutto è fatto per amore. Non sto dicendo che Loppiano è il male, sia chiaro. Ho vissuto molti giorni felici da quelle parti e conosciuto gente di tutto il mondo con cui ho tutt’ora un rapporto splendido ma, ripensandoci oggi credo che per me non fosse il luogo giusto per vivere. Sentivo che tutto quello che avevo costruito, quel vivere senza problemi tra il Queever (famosa serata gay di Torino) ed il focolare si stesse perdendo. Iniziai ad avere una sorta di doppia vita: un discreto gen casa e chiesa nelle colline del Valdarno ed un gay in cerca di nuove esperienze a Firenze. Per fortuna Dio, a cui la fantasia non manca, mise quasi subito sulla mia strada un ragazzo con cui mi frequentai per circa due anni, ateo, in teoria. Eppure fu grazie a lui ed ai suoi consigli se trovai la forza per non mollare e, dopo circa un anno e mezzo presi appuntamento con Redi, un sacerdote focolarino per fare due chiacchiere. Fu un dialogo breve, quasi subito gli dissi di essere omosessuale e lui mi consigliò di parlare con Ignaqui, un focolarino psicologo. Accettai e qualche giorno dopo mi ritrovai nel suo studio a raccontargli della mia infanzia e della mia famiglia. Mi propose di entrare a far parte di un gruppo di aiuto per il re-indirizzamento all’eterosessualità di cui facevano già parte altri esponenti di varie branche del Movimento. La cosa mi spiazzò un po’ e decisi di prendermi qualche tempo per rifletterci anche se in realtà, mentre lui pronunciava quelle parole “re-indirizzamento all’eterosessualità” io avevo già deciso. No, grazie. Omosessualità e cristianesimo non sono due binari paralleli. O meglio lo sono se noi vogliamo che lo siano. Mi risuonava in testa lo slogan del Genfest di Budapest, (un incontro mondiale di tutti i giovani del movimento che si svolge ogni cinque anni in cui avevo avuto la fortuna di partecipare attivamente nell’organizzazione): “Let’s Bridge”, costruiamo ponti. Possibile che non si potesse costruire un ponte anche in questo caso? Possibile che l’Ideale dell’unità fosse per tutti ma non per i gay? Possibile che negli anni della guerra fredda il Movimento dei Focolari dialogasse con chi era oltrecortina ed oggi non provasse nemmeno a fare lo stesso con chi, metaforicamente, si trovava oltre un altro muro? Corsi da Lui, in cappella e con la stessa foga di qualche anno prima gli dissi senza mezzi termini che bisognava far qualcosa, quindi di farmi capire come cambiare le cose. O come non cambiarle, se non era la Sua volontà. Per tutta risposta dopo 15 minuti squillò il cellulare: era un messaggio di Don Livio, con una frase di Gandhi, diceva di essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, senza nasconderci. La mia vita iniziò a complicarsi ed ad essere più chiara contemporaneamente. Abbandonai il Valdarno e mi trasferii a Roma, trovai il coraggio di fare coming out coi miei genitori che avevo tenuto per ultimi per la paura di ciò che un loro eventuale rifiuto avrebbe potuto comportare (e che invece presero la notizia senza battere ciglio, come se fosse la cosa più naturale del mondo) e poi, in occasione del Pride feci un post pubblico su Facebook, ché ormai non c’era più motivo di mentire. Fu come riemergere dopo una lunga immersione, finalmente potevo respirare senza maschera e mi chiesi perché avessi aspettato tutto quel tempo a compire quel passo. Per quanto concerne il Movimento le reazioni furono diverse: se tra i gen non ci furono grandi scossoni ed anzi ricevetti molti messaggi incoraggianti i Volontari (parte della branca adulta a cui mi sentivo ormai di appartenere e che vorrei tutt’ora frequentare) non furono molto propensi ad accogliermi e, di fatto, tagliarono ogni ponte. Questa inaspettata porta sbarrata inizialmente mi ha fatto allontanare da tutto (si, perché per me il raggio per andare a Dio si chiama Focolare e se mi viene impedito di percorrerlo …) ma Lui, che non accetta un “No” come risposta, non si è fatto cogliere impreparato e, se dapprima ha fatto in modo che nel mio cammino incontrassi altri gen e/o focolarini gay e lesbiche nei luoghi più disparati con cui mettere “Gesù in mezzo” come se si fosse ad un incontro in focolare dall’altro mi ha dato un palliativo: Nuova Proposta / Cammini di Speranza, un gruppo di cattolici omosessuali con cui rimettermi in cammino. Un palliativo sì, perché io sono un focolarino, la mia strada è quella. Altrove mi trovo bene ma sempre un po’ fuori posto. Mentre m’interrogavo su come riallacciare i rapporti m’è tornato alla mente il discorso che fece Papa Francesco nel 2014, rivolgendosi all’Assemblea del Movimento. Consegnò tre parole ai Focolari: contemplare, uscire e fare scuola. Contemplare senza lasciare fuori nessuno, perché altrimenti si tratta di un inganno. Uscire, diventando esperti di quell’arte chiamata dialogo, senza mezze misure e senza indugiare, ma piuttosto, con l’aiuto di Dio, puntare in alto, allargare lo sguardo. Fare scuola, formare donne e uomini nuovi in grado di riconoscere e di interpretare i bisogni, le preoccupazioni e le speranze che albergano nel cuore di ogni uomo. Allora, mi chiedo, cosa stiamo aspettando per metterle in pratica?
Edoardo Zenone