Blog / Luciano Sesta | 06 Maggio 2018

Le Lettere di Luciano Sesta – Il blog Come Gesù. La “verità” fra Dottrina e Pastorale

Uno degli effetti del pontificato di papa Francesco, com’è noto, è di aver reso più visibile, nella Chiesa, la contrapposizione, prima sommersa, fra i simpatizzanti della “verità” e quelli della “misericordia”, o, diversamente detto, fra i sostenitori del primato della dottrina sulla pastorale, e quelli del primato della pastorale sulla dottrina.

Come chiunque può notare ogni volta che si rievoca tale contrapposizione, gli “amici della dottrina” accusano i sostenitori della “pastorale” di “lassismo”, e cioè di “scendere a patti” con le debolezze umane e di trasformare il Vangelo, che è annuncio di conversione e di salvezza, in una forma di accoglienza sociale e di assistenza psicologica, che però lasciano il peccatore nel suo peccato. Gli “amici della pastorale”, al contrario, denunciano i sostenitori della “dottrina” di “fariseismo”, e cioè di imporre ai peccatori una dottrina astratta, che non tiene conto della loro debolezza e che, proprio per questo, finisce per giudicare i loro difetti piuttosto che valorizzare le loro potenzialità.

Di fronte a questo “scisma”, a mio avviso non basta dire, come spesso facciamo, che fra verità (dottrinale) e misericordia (pastorale) non può esserci contrapposizione. Bisogna anche far vedere perché.

Il contrasto fra la dottrina della Chiesa e la sua pastorale dipende probabilmente da un fraintendimento del concetto di “verità”. C’è la tendenza, infatti, a confinare la “verità” nell’ambito della “dottrina”, riservando poi la “carità” e la “misericordia” all’ambito pastorale. Da qui la continua oscillazione fra una verità senza misericordia e una misericordia senza verità. Il problema, in realtà, non è se si debba adattare, cambiare o persino abbandonare la verità espressa dalla dottrina, ma quale forma debba avere questa “verità” quando incontra la vita delle persone. Deve avere le caratteristiche di un impegno morale da attuare? Di una visione del mondo a cui aderire? Di un pacchetto di riti da praticare? Di una conversione spirituale da intraprendere? In realtà tutte queste dimensioni sono una possibile conseguenza della verità, non la verità stessa, dal momento che Gesù non chiede la conversione per dare la salvezza, ma, al contrario, dona la salvezza per suscitare la conversione. Per questo la migliore risposta alla questione dell’alternativa fra dottrina e pastorale rimane ancora l’incipit dell’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1).

Ed ecco il punto decisivo, spesso distrattamente ricordato in ambito cattolico, ma quasi mai trasformato in criterio del nostro agire e del nostro parlare. Essendo la stessa Persona di Cristo, nel cattolicesimo la “verità” è il fondamento comune delle parole e delle azioni della Chiesa, non soltanto l’insieme delle parole (aspetto dottrinale) che, in un secondo momento, dovrà essere “applicato” nella vita delle persone (aspetto pastorale). Storicamente, ma anche teologicamente, si potrebbe dire piuttosto il contrario, e cioè che è la dottrina a essere espressione della pastorale, ossia il frutto maturo in primo luogo dell’incontro fra la persona divina di Gesù e altre persone, e, in secondo luogo, fra le persone che, dopo Pentecoste e lungo il corso della storia, danno e ricevono l’annuncio del Vangelo.

Nel cristianesimo, si può dunque dire, c’è un primato della relazione con le persone di cui la dottrina e la pastorale, insieme, sono un’unica e indivisibile espressione. Se noi crediamo alle parole della Chiesa, infatti, è perché crediamo alle parole di Cristo. Crediamo alle parole di Cristo, tuttavia, perché crediamo in Lui. Se accettiamo qualcosa (la dottrina), è perché crediamo in Qualcuno (Dio stesso). Anzi, si dovrebbe dire che il fondamento ultimo della vita della Chiesa, in tutte le sue molteplici manifestazioni, non è nemmeno una sola Persona (Cristo), ma una relazione di amore fra Persone (la Trinità).

Personalmente, trovo qui la motivazione teologica più profonda dell’impegno dell’amico don Mauro Leonardi, oltre al significato più autenticamente umano e cristiano del suo blog, significativamente intitolato “Come Gesù”. L’Unità e la Trinità di Dio, infatti, dimostrano che, nel cristianesimo, la cosa più importante non è né la dottrina né la pastorale, ma la verità dell’amore, intesa come relazione fra le persone (“Dio è amore”). Nella linea di questo blog, spesso accusato di annacquare la verità in un generico relativismo, la vera domanda da porsi è: se la verità di cui dottrina cristiana e pastorale sono due inseparabili aspetti è che Dio è amore, cosa significa, per noi, annunciare questa verità? Significa far sì che le persone, ogni volta che entrano in contatto con la “verità”, si sentano amate da qualcuno (Dio) piuttosto che giudicate da qualcosa (una legge). Nell’episodio del giovane ricco raccontato dall’evangelista Marco, su cui Giovanni Paolo II ha non a caso incentrato la sua enciclica sulla morale, Veritatis Splendor, leggiamo che Gesù, prima di indicare al giovane la strada più impegnativa di chi vuole realmente seguirlo, “fissatolo lo amò” (Mc 10, 21).

“Come Gesù”, si chiama non a caso questo blog. Nello sguardo amabile di Gesù, a ben vedere, la misericordia enfatizzata dal “partito” della pastorale non è che un aspetto della verità che sta a cuore al “partito” della dottrina. In quello sguardo, infatti, troviamo una cosa tanto semplice quanto difficile, come spesso accade nelle cose di Dio, e cioè il tratto amabile della verità. Che non è, come pensano alcuni, fare sconti sul suo carattere esigente e impegnativo, ma restituirle il volto umano (e divino) che la rende attraente.

Molto suggestivamente, gli antichi commentatori latini facevano notare che l’anagramma della domanda “quid est veritas?”, che Pilato rivolge a Gesù, è “Est vir qui adest”, e cioè: “è l’uomo che ti sta davanti”. In quello che può sembrare solo un giochetto lessicale, si nasconde una profonda verità teologica: proprio quando, di fronte all’altro, ci poniamo il problema “pastorale” di quale sia il modo migliore di trasmettergli la verità, ci lasciamo sfuggire che essa è già silenziosamente presente nella sua persona. Essere cristiani significa ammettere che c’è più verità nella nostra relazione con il prossimo di quanta ce ne sia nella dottrina che vogliamo trasmettergli.

Quanto si è appena detto è confermato dalla lettura incrociata di Mt 7, 21-23 e Mt 25, 31-46: a coloro che hanno parlato nelle “pubbliche piazze” nel nome di Dio, è detto che Dio stesso non li conosce (“via da me, non so chi siete”); a coloro che, viceversa, del tutto ignari, pensavano di aver fatto soltanto del bene al prossimo, è detto che hanno fatto del bene a Dio (“Quando mai ti abbiamo fatto questo? […] in verità vi dico, lo avete fatto a me”). Come dire: la conversione del prossimo e la gloria di Dio sono più l’effetto collaterale di un amore che non se ne cura che l’obiettivo esplicito di un programma pastorale. Spesso siamo più preoccupati di convertire il prossimo che di amarlo. Senza capire che è soltanto amandolo che, se a Dio piace, l’altro potrà eventualmente convertirsi.

Il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas ha scritto che nella prima parola in cui Dio è presente, Dio non è nominato. Questa parola è “eccomi”. È la parola del samaritano, di chi ama facendosi prossimo dell’altro. Nell’amore per il prossimo c’è già la verità, anche se non ne parliamo. Per questo Paul Claudel ha detto: “parla di Cristo soltanto quando te lo chiedono, ma vivi in modo che ti si chieda di Cristo”.

Tutto ciò, naturalmente, non significa rinunciare all’annunzio verbale della verità, né alla riflessione teologica, né a criticare e a denunciare – dov’è necessario – né alle proprie battaglie civili per il bene comune. Tutto ciò significa, piuttosto, conservare sempre, in qualunque attività di evangelizzazione e di umanizzazione si stia svolgendo, il tratto personale, e dunque amabile, della verità. Come Gesù, appunto…

 

Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica