Le Lettere di Luciano Sesta – A bocce (quasi) ferme. Un po’ di chiarezza sul caso Evans
Come spesso accade in bioetica, quando una sentenza giudiziaria chiude un caso, finisce per lasciarlo aperto in una forma ancora più lacerante di quella che aveva prima dell’intervento del giudice. Perché? Perché ciò che senza l’intervento di un giudice avrebbe avuto l’aspetto di una decisione morale personale (dei medici, dei familiari, del paziente ecc.), diventa, con l’intervento dell’autorità giudiziaria, una decisione che aspira a essere “giusta”, esasperando, nella parte perdente, la percezione di aver subito, oltre al danno, anche la beffa. Le persone, in effetti, entrano in conflitto molto di più a causa delle loro diverse idee di cosa sia veramente giusto che delle loro opinioni personali. Una cosa è accettare un’opinione che non si condivide, altra cosa è accettarla quando pretende di essere l’opinione “giusta”. Il caso Alfie Evans non fa eccezione. E poiché il dibattito continua, talvolta molto confusamente, può ancora essere utile fare chiarezza.
Ci sono almeno 6 livelli di discorso, che nel caso Evans vengono spesso sovrapposti, generando sterili polemiche, fraintendimenti e giudizi affrettati sull’accaduto.
- Un primo livello riguarda non Alfie e la sua famiglia, ma tutte le persone intervenute nella vicenda, dai sanitari ai legali e ai membri delle corti di giustizia, fino a tutti coloro che, esprimendo la loro opinione sul caso, hanno alimentato il dibattito di questi giorni. A questo primo livello, si è creata un’aspra contrapposizione fra i sostenitori di medici e giudici, per i quali la loro decisione di lasciar morire il bambino è stata giusta, e i loro critici, per i quali Alfie sarebbe dovuto morire a causa della sua patologia, e non a causa di asfissia, inedia e disidratazione. Questo primo livello del dibattito, benché forse sia diventato il più vistoso, è secondario, soprattutto perché è degenerato in diffamazione reciproca: da un lato si è parlato di “fanatismo pro-life”, dall’altro di medici e giudici “assassini”. Come ha sottolineato più volte anche don Mauro Leonardi su questo blog, il primo atto di giustizia, in un simile scenario, è abbassare i toni da ambo le parti. E non solo per tornare a dialogare fra noi, ma soprattutto per guardare con maggiore lucidità e serenità al caso in sé. Altrimenti ci perdiamo nel fumo e dimentichiamo il fuoco.
- E siamo così al secondo e decisivo livello del discorso, che ha riguardato la valutazione morale del caso, in cui cioè si trattava di capire cosa fosse “giusto” fare, o, nei termini della giurisprudenza anglosassone, quale fosse il “miglior interesse” del bambino. Una volta ridimensionato l’aspetto polemico dello scontro fra le persone che discutono, a questo livello bisogna tornare a guardare la cosa discussa: era giusto mantenere ancora in vita Alfie o lasciarlo morire? Non è mio interesse, qui, rispondere a questa domanda, avendo già provato a farlo in tre precedenti articoli, nei quali ho espresso e diffusamente argomentato la mia personale convinzione. Ancora più importante della risposta che possiamo dare a questa domanda è, a mio avviso, la sua corretta impostazione, che esige la distinzione di 4 ulteriori livelli di discorso.
- C’è, innanzitutto, il livello della diagnosi medica della patologia del paziente. Com’è noto, la medicina non è una scienza esatta, né in ambito diagnostico né in ambito terapeutico. Ci sono casi, complessi, in cui la comunità medica si divide. Questo era uno di quei casi. E non per la sintomatologia, che era chiara: l’uso di risonanza magnetica funzionale, il ricorso all’osservazione clinica delle risposte comportamentali agli stimoli, i test genetici, hanno infatti delineato un quadro di grave disabilità. La diagnosi di cefalopatia a degenerazione progressiva era dunque certa, ma non altrettanto certe erano la sua origine, la valutazione dei sintomi rispetto al quadro generale e le stime dei tempi di evoluzione della patologia, tant’è che i medici hanno proposto di parlare di Alfie’s Disease, riconoscendo l’assoluta unicità del caso. Bisogna perciò distinguere i “dati scientifici” dalla loro “interpretazione medica”. Se i primi sono “oggettivi”, i secondi sono frutto dell’interpretazione soggettiva del singolo specialista. La presenza di sbadigli, per esempio, è un “dato”, ma la collocazione di questo “dato” nel quadro complessivo della patologia cerebrale di Alfie è stato un piccolo rompicapo interpretativo per i suoi medici, che non sono riusciti a spiegarselo, visto che le aree cerebrali corrispondenti al fenomeno osservato risultavano, alla risonanza magnetica, incapaci di produrlo. Chi ha disinvoltamente espresso certezze sulla patologia di Alfie, in un senso o nell’altro, ha probabilmente confuso non solo il “dato” con l’“interpretazione”, ma anche la “diagnosi” con l’“indicazione terapeutica”: dal fatto che il bambino mostri i sintomi x o y, infatti, non deriva automaticamente che occorra mantenere o interrompere il trattamento w o z. Dipende dalle circostanze e, in ogni caso, il collegamento fra il problema diagnosticato e il suo trattamento medico non può derivare, a questo livello, dalla propria visione etica del problema (Alfie deve “vivere” o “morire”), ma va giustificato in modo clinicamente appropriato.
- E siamo al quarto livello, in cui la domanda è: c’è stato accanimento terapeutico? Poiché ogni medico ha il dovere di astenersi dall’accanimento terapeutico, valutare come tale il trattamento a cui era sottoposto Alfie significa stabilire che era non solo lecito, ma doveroso sospenderlo. Viceversa, si può dire che il trattamento fosse proporzionato alle esigenze di ossigeno, alimenti e liquidi, e che dunque fosse doveroso mantenerlo. Anche qui, più importante della risposta è la corretta impostazione della domanda: chiedersi se un paziente sta subendo o non una forma di accanimento terapeutico non è una questione esclusivamente medica. La stessa parola “accanimento terapeutico”, a ben vedere, è già moralmente connotata in senso dispregiativo. Ciò implica che definire come “accanimento” un determinato trattamento significa, al tempo stesso, considerare moralmente doveroso astenersene. E viceversa: non è cioè escluso che sia la propria idea che un paziente non dovrebbe più continuare a vivere a indurre a ritenere “accanimento” un trattamento medico che, magari, di per sé non lo è. Proprio per questo, tuttavia, quando si tratta del bene di un paziente il punto di vista etico impegnato nel giudizio clinico non può essere solo quello dei medici. Costi e benefici del trattamento, infatti, sono valutati anche dal paziente stesso e, nel caso in cui questi fosse incapace, dai suoi rappresentanti legali, in questo caso i genitori. Questa circostanza espone a una tentazione tipica in questo genere di dibattiti: presentare come “medico”, e dunque “scientificamente vero”, ciò che in realtà è il proprio giudizio “etico” sulla cosa migliore da fare. Molti, discutendo del caso Alfie, hanno inavvertitamente nascosto la propria (soggettiva) visione etica sotto le mentite spoglie di un (oggettivo) giudizio medico, facendo passare per scientificamente certo ciò che era solo moralmente opinabile. Questi giochi sottobanco possono essere evitati chiarendo un punto che, a ben vedere, è di dominio comune, e cioè che ai medici spetta di informare i pazienti o i suoi familiari dei costi e dei benefici del trattamento, a questi ultimi, invece, spetta decidere se sottoporsi o non sottoporsi al trattamento. Può accadere, tuttavia, che i medici si rifiutino, in scienza e coscienza, di somministrare un trattamento o di sospenderlo, e che i pazienti o i parenti non siano d’accordo con la loro decisione.
- Giungiamo così al quinto livello del nostro discorso: in caso di contrasto fra medici e familiari, qualunque sia la natura del trattamento, chi deve decidere se sospenderlo o mantenerlo? Rispondere che debba decidere un giudice, a ben vedere, non è corretto. Sarebbe assurdo dire che, sul destino di mio figlio, debba decidere un estraneo in toga. In realtà, l’intervento del giudice, in questi casi, sposta l’attenzione dal “chi” deve decidere al “cosa” è giusto decidere. Nonostante molti in questo dibattito lo abbiano dimenticato, la volontà dei genitori non è sovrana, e può dunque essere scavalcata da una pubblica autorità. Ciò può avvenire, però, quando il danno prospettato è talmente evidente (abusi, mancate trasfusioni salvavita ecc.), da non lasciare dubbi sulla necessità di intervenire. Nel caso Alfie, invece, c’era un ragionevole dubbio che la voce dei genitori potesse essere assecondata. Se il giudice avesse deciso di lasciare ai genitori la libertà di mantenere l’accudimento del figlio, in effetti, difficilmente qualcuno avrebbe gridato allo scandalo. Ci sarebbe stato comunque un dibattito, ma forse non così acceso come quello a cui abbiamo assistito. Il problema, dunque, non è se, in generale, debba prevalere la volontà dei genitori o quella di una pubblica autorità, ma se, in presenza di situazioni in cui il “miglior interesse” del minore è oggettivamente controverso e di dubbia valutazione, non sia più giusto, per i giudici, decidere di far prevalere la volontà dei genitori piuttosto che il giudizio dei medici. Dare ragione ai medici anche quando il caso è oggettivamente controverso, in effetti, rischia di farci ritornare a una tradizione ormai superata, ossia quella del “paternalismo medico”, in cui il medico “ha sempre ragione” e il malato, o i suoi familiari “sempre torto”.
- L’ultima perplessità ci ha fatto entrare nel sesto livello del discorso. Una volta emessa la sentenza, e una volta accettata nel rispetto della pubblica autorità e nella consapevolezza della buona fede dei suoi funzionari, è lecito criticarla come “ingiusta”? Naturalmente la risposta è affermativa. Anche qui, purtroppo, chi ha criticato la sentenza spesso non ha saputo o voluto distinguere la sua legittimità formale dal suo contenuto morale. E ha così autorizzato chi invece l’ha ritenuta giusta a considerare sovversivi, fanatici e incivili tutti coloro che l’hanno ritenuta sbagliata. Ritorniamo così al punto dal quale eravamo partiti: chi grida “giudici assassini!” non è molto diverso da chi grida “pro-life fanatici!”. In entrambi i casi, si tratta di interlocutori prigionieri di un meccanismo di azione e reazione che passa sopra il caso discusso, di cui restituisce una versione grossolana e caricaturale. Il pro-life, per esempio, rischia di proiettare sui giudici la propria rabbia per aver perso una battaglia culturale, di cui il caso Alfie è stato solo un occasionale, per quanto emotivamente coinvolgente, pretesto; chi invece ha plaudito all’esito della vicenda rischia di proiettare sul caso Alfie la propria paura della disabilità, considerando inconcepibile che dei genitori possano accettare di prendersi cura, sino alla fine, di un figlio gravemente malato. Non a caso, chi ritiene che la sentenza sia stata giusta spesso premette che, se fosse stato al posto di Alfie, non avrebbe mai voluto continuare a vivere nelle sue condizioni. Anche questo, però, è un ragionamento scorretto e poco rispettoso del pluralismo morale e della libertà individuale. Perché mai la mia personale paura della disabilità dovrebbe prevalere sulla disponibilità di un genitore a prendersi cura del proprio figlio? Viceversa: perché la mia personale credenza che la vita vada prolungata a ogni costo dovrebbe prevalere sul diritto di non soffrire più di un povero paziente incapace? Non era quest’ultimo, a mio avviso, il caso di Alfie, ma in entrambe le posizioni descritte, e lo abbiamo visto più volte in questo dibattito, si è troppo preoccupati di se stessi e dei propri interlocutori ideologici per “vedere” la cosa di cui si sta discutendo.
Concludo con un piccolo riferimento personale, che per me è anche una possibile indicazione di metodo per affrontare dibattiti come quello a cui stiamo ancora assistendo. Continuo a leggere e a ricevere commenti di persone che si esprimono sul caso Alfie, senza però aver letto né il parere dei medici né le due sentenze in cui si è motivata la decisione di lasciar morire il bambino. Il che si può benissimo fare, ci mancherebbe. Ma senza la pretesa di saperne di più di chi, invece, ha fatto la fatica di leggerli, quei documenti. In altra sede, non qui sul blog di don Mauro, qualcuno, benché mi esprimessi con compostezza e facessi notare, carte alla mano, che le cose erano ben diverse da come venivano presentate nel commento a una mia osservazione, mi è stato testualmente risposto: “ma che c… dici, non capisci niente”. Quando il dovere di informarsi soccombe all’istinto di schierarsi, questi sono i risultati.
Mi convinco, sempre di più, che su temi come questi, che accendono gli animi e inducono le persone a denigrare chi non la pensa come loro, l’unico antidoto è mantenersi garbati e riflessivi. Vicende che ci pongono di fronte alla sofferenza di una famiglia e di un bambino, oltre che alla responsabilità di decisioni drammatiche, che impegnano la nostra coscienza, la scienza medica e ciò che, al di là di tutto e di tutti, sarebbe giusto fare, richiedono uno sguardo pacato e lucido, con cui testimoniare agli altri la complessità che abbiamo di fronte. Per questo il rispetto reciproco, su cui tanto si insiste in questo blog, non è affatto un’etichetta di pura cortesia. È invece l’unico spazio in cui le cose di cui parliamo possono manifestarsi nella loro vera luce, che spesso è un chiaroscuro che chiede, a sua volta, di essere rispettato. Rispettare chi non la pensa come noi significa rispettare la cosa di cui parliamo, che non è mai tutta così come la vediamo noi, potendo esprimersi anche nel punto di vista altrui. Poi, per carità, si può sempre sbagliare. Ma almeno in buona fede, avendo rispettato tutti, e, soprattutto, avendo contribuito a fare chiarezza su problemi spesso più grandi di noi.
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica