L’Angolo del Teologo – Per me su Alfie Evans è stata eutanasia, di don Piero Vavassori

Caro don Mauro, ho molto apprezzato che tu non sia entrato nel merito della vicenda di Alfie ma che abbia solo detto di abbassare i toni e di non insultare la Conferenza Episcopale Inglese. Ciò nonostante, in un articolo manifesti la tua preoccupazione che ci sia stato accanimento terapeutico: a questo proposito voglio dire che…

Cercare di fare chiarezza in poche parole alla complessa vicenda del piccolo Alfie mi sembra impresa impossibile. Problemi complessi possono trovare soluzione – sempre che vi sia – solamente conoscendo a fondo tutti i dati della questione e accettando la complessità di queste realtà. Ritengo che i vescovi della Conferenza episcopale inglese e il presidente del Consiglio per la vita abbiano ragione quando affermano che la strada sia quella di una cooperazione fra le ragioni e le competenze delle varie figure in gioco (genitori, medici e giudici).

Mi astengo dal ritornare sulla pur centrale questione se la ventilazione debba essere considerata un intervento terapeutico (e quindi che possa essere sospesa quando sproporzionata rispetto al bene del bambino, al fine di evitare un inutile accanimento terapeutico) o non sia piuttosto un intervento di supporto vitale essenziale (e quindi che non possa mai essere sospesa, così come l’idratazione e l’alimentazione). Come medico e come bioeticista sono convinto di questa seconda prospettiva e ritengo che il Magistero della Chiesa sia chiaro al riguardo, prospettando quindi ogni forma di sospensione dell’idratazione, alimentazione o ventilazione (tranne nei rarissimi casi in cui tali interventi siano manifestamente dolorosi e intollerabili per il paziente) come un’eutanasia di tipo omissivo.

Con queste mie righe, invece, voglio sottolineare un aspetto che, oltre alle profonde risonanze emozionali che ha suscitato nell’opinione pubblica, getta una luce importante su un aspetto di questa vicenda. Mi riferisco al fatto che il bambino, dopo che è stata sospesa la ventilazione meccanica, abbia respirato autonomamente per molto tempo (quattro giorni, se non sbaglio).

Questo dato fa supporre che le condizioni respiratorie (in particolare) e complessive (in generale) non fossero talmente compromesse da giustificare l’apertura di una discussione sull’opportunità o meno di continuare con le terapie (ammesso e non concesso, come dicevo sopra, che la ventilazione possa essere considerata una terapia).

Appare quindi ragionevole domandarsi (come ha fatto una persona in un commento sul tuo blog) se il comportamento dei medici sia stato veramente dettato da competenza professionale. Sorprende, infatti, che un centro di eccellenza nel trattamento pediatrico di casi molto complessi non sia stato in grado di prevedere questo aspetto che ritengo sia di capitale importanza per formulare un giudizio riguardo alla opportunità o meno di continuare con la ventilazione meccanica.

A questo punto, quindi, ritengo che sia ragionevole avanzare dubbi sull’operato e il giudizio dei medici in questa vicenda: se c’è stata rettitudine di intenzione, sorge il dubbio che abbiano agito in maniera incompetente; se invece hanno agito con competenza professionale, sorge il dubbio che abbiano agito con mentalità eutanasica.

Concordo, quindi, con la Conferenza episcopale inglese e con il Presidente del Consiglio per la Vita che sia doveroso rispettare le competenze professionali dei medici che intervengono in queste complesse situazioni, ma nel caso di Alfie i fatti sono andati in maniera tale che mi sembra sia ragionevole avanzare dei dubbi al riguardo. Per questa ragione, onestà vorrebbe che, i medici, così come hanno giustificato la scelta di sospendere la ventilazione del piccolo Alfie in virtù di dati clinici, debbano ora giustificare come mai il bambino abbia respirato autonomamente per tutto questo tempo. Non basta rivendicare che venga rispettata la competenza professionale delle figure in gioco, questo rispetto bisogna anche conquistarlo con i fatti.

Analogamente, ritengo che i vescovi della Conferenza episcopale inglese, così come hanno dichiarato che “la professionalità e la cura dei bambini gravemente malati mostrate all’Alder Hey devono essere riconosciute e affermate”, dovrebbero ora giustificare la loro affermazione, alla luce di come sono andati i fatti.

 


Don Piero Vavassori, bergamasco, ha esercitato per 15 anni la professione medica in ambito universitario a Roma, Amsterdam e Perugia. Dopo gli studi in Teologia e un dottorato in bioetica, è sacerdote dell’Opus Dei da 7 anni, vive a Milano e si occupa prevalentemente di seguire la pastorale con persone sposate