L’importante non è essere sempre d’accordo su tutto: l’importante è porsi le domande con onestà e lealtà con se stessi. Con il mio amico Don Mauro Leonardi uno scambio di vedute “a distanza” a proposito della “vicenda #AlfieEvans”. Se vi va …
“Il miracolo è accaduto. E non è la guarigione di Alfie ma la decisione di Tom Evans – il papà di Alfie – di voler costruire un rapporto con l’ospedale che ringrazia per il duro lavoro svolto in queste circostanze. “Come genitori – aggiunge – lavoreremo con il team ospedaliero per garantire ad Alfie tutta la dignità e il comfort di cui ha bisogno” e invita i tanti sostenitori del bambino gravemente malato a “tornare alla loro vita di tutti i giorni” per permettere a lui e alla moglie Kate “di camminare sopra il ponte che intende costruire con l’ospedale”. Mi chiedo se in questo cambiamento radicale di rotta – non più contrapposizioni ma costruzione di ponti – sia intervenuto il Papa. Magari direttamente o, più probabilmente, attraverso qualche membro della Conferenza Episcopale Inglese o forse attraverso don Gabriele Brusco. Quella di Tom è, di fatto, una dichiarazione che mette le premesse per costruire la giusta disposizione con cui una famiglia può scegliere di abbracciare per il figlio il percorso palliativo. Infatti, fino a quando non c’è consenso della famiglia, le cure palliative diventano una strada impraticabile e così trasforma la vita di Alfie in qualcosa di davvero disumano. Mi viene da pensare che in questi ultimi giorni, da quando Alfie è uscito dalla terapia intensiva, i genitori abbiano iniziato un percorso di vera relazione col bambino dal momento che i genitori potevano adesso stare soli con lui. Il palliative comfort care ha proprio l’obiettivo dell’instaurarsi di una relazione, della costruzione di una storia tra il bimbo e la sua famiglia che, di fatto, in terapia intensiva, con le cure invasive praticate, non è consentita.
In queste ultime ore è accaduto che i genitori hanno potuto tenere Alfie tra le braccia senza limiti. È in quell’abbraccio c’è la vera relazione costitutiva dell’uomo. In quell’abbraccio nessuna battaglia trova più giustificazione. È il bambino che, nell’abbraccio, insegna tutto ciò che un genitore deve sapere e deve imparare per andare avanti: “amare, di fronte alla morte è l’amore più grande che un genitore può donare”. Come fece Maria di fronte a suo figlio. Di grande importanza poi il suggerimento, rivolto da Tom ai sostenitori, “di tornare alla vita di tutti i giorni”. È quanto dice l’angelo alle donne quando racconta che incontreranno il Risorto in Galilea (Mc 16, 1-8): espressione che non sta ad indicare direttamente la regione geografica ma la normale vita quotidiana. Quella fatta non di sit-in e di veglie clamorose, ma del faticoso impegno per vivere ogni giorno una vita buona”.
Link a The Sun (dichiarazioni di Tom Evans)
da: Tom Evans: per Alfie basta contrapposizioni costruiamo ponti
Articoli / Blog “Come Gesù”| 27 aprile 2018 |
Concordo pienamente sulla necessità imprescindibile di una stretta alleanza famiglia-medici (e in generale tra tutti i cures e i caregivers coinvolti) al fine di garantire la migliore presa in carico possibile di un paziente (a maggior ragione minorenne e – in più – gravemente compromesso dal punto di vista clinico). Così come concordo pienamente che “di troppo amore si rischia di morire”: non sempre i genitori da soli sono in grado di valutare il miglior interesse del proprio figlio, soprattutto quando egli si trova in una grave situazione e la sua vita dipende da decisioni altrui.
Detto questo, mi permetto di avanzare alcune considerazioni in merito alla situazione specifica di Alfie. Non sono un medico, sono solo un padre e un uomo della strada. Ho solamente provato in questi mesi non solo a seguire la “vicenda Alfie”, ma a cercare risposte ai tanti interrogativi che questa straziante vicenda (come per quella dei piccoli Charlie Gard ed Isaiah Haastrup) mi ha provocato dentro. Queste risposte non le ho trovate. Mi accontento – però – di provare a dare un nome appropriato alle cose, ai fatti e alle vicende. Solo in questo modo – credo – è possibile comprendere meglio che cosa realmente accade, cioè esprimere un giudizio per avere uno sguardo vero e leale. Non ho pretese di avere verità in tasca, tutt’altro: il tema del “fine vita”, della dignità della persone, del dolore me li pongo per me ogni giorno, ma me li pongo anche – e soprattutto- rispetto all’altro tema che mi sta a cuore, cioè che società stiamo lasciando ai nostri figli e ai figli dei nostri figli.
La dico subito: credo che “il miracolo accaduto” sia un altro, e cioè il fatto che (finalmente), grazie a queste dolorose situazioni, si sia iniziata una riflessione “popolare”, oltre la ristretta cerchia di accademici e specialisti del settore. Indubbiamente con eccessi ed uscite fuori luogo. Certamente. Tuttavia, personalmente, non me la sento di avvallare una “tesi” diffusa da più parti (sto parlando in generale, non di questo articolo) per la quale sia i genitori del piccolo che le migliaia di “sostenitori” siano dei “fanatici” che con le proprie posizioni “ostili” hanno paradossalmente rischiato di compromettere le possibilità di vita di Alfie.
Evidenzio allora alcuni elementi:
- A. Se riavvolgiamo il nastro di quanto è successo fino ad oggi, qui non risulta che si sia davanti a un dolore intrattabile, né a uno stato di fine-vita. Siamo invece di fronte a un bambino in grave stato di danno cerebrale, dove per un principio di proporzionalità è inutile introdurre nuovi ulteriori trattamenti terapeutici, ma dove non si può non capire che sospendere la ventilazione significa indurre la morte. Fin dall’inizio di questa triste e dolorosa vicenda, l’ospedale di Liverpool non solo si è ostinatamente pronunciato in tale direzione, ma, davanti alle numerose richieste dei genitori, ha negato la possibilità di consulto da parte di colleghi provenienti da altri ospedali specializzati (come il Bambin Gesù di Roma e il Besta di Millano, tra i tanti). L’ostilità crescente dei genitori di fronte all’equipe medica dell’ospedale nasce sostanzialmente da qui, cioè da un muro che l’ospedale ha posto fin dall’inizio di fronte alla (mi pare) legittima richiesta dei genitori di avere ulteriori elementi di valutazione clinica rispetto alla situazione allora del proprio figlio, in relazione alle quali potere eventualmente decidere un percorso di accompagnamento e non – di fatto – procedere a sospendere la ventilazione.
- B. La situazione legale ed etica in Italia – per esempio – non permette un tipo di decisioni del genere, almeno sino ad oggi, perché i casi inglesi sembrano andare oltre il semplice evitare l’accanimento terapeutico (vedasi Charlie Gard ed Isaiah Haastrup, per citare solo quelli dei quali si è venuto a conoscenza), cosa che viene garantita in Italia. E allora – forse – per comprendere meglio le dinamiche che si sono dipanate attorno al “caso Alfie”, occorre tenere conto di quanto accade in Inghilterra. Proprio oggi, sul primo giornale tedesco, il “Die Welt”, c’è una interessante intervista al professor Nikolaus Haas, che ha esaminato personalmente Alfie e ne conosce la storia clinica (ha anche preparato un rapporto per il processo). Haas è il responsabile dell’unità di cardiologia infantile e medicina intensiva pediatrica dell’ospedale universitario di Monaco di Baviera. L’ottimo Sabino Paciolla ne fornisce ampia documentazione (con traduzione in italiano) sul suo Blog “Oltre il giardino”(“Prof. Haas: i medici inglesi non volevano che un altro medico visitasse Alfie”, 27 aprile 2018). Dice Haas: “se avete un bambino che è stabile dal punto di vista medico (come nella situazione di Alfie), dovete ancora prendervi cura di questi pazienti. Diciamo che questi pazienti non dovrebbero stare nell’unità di terapia intensiva, ma dovrebbero essere curati in modo ottimale. Ad esempio, in una struttura o a casa, a seconda di come i genitori desiderano o sono in grado”. Il giornalista che lo intervista chiede: Quanto è difficile? Haas: “Per i pazienti che non respirano abbastanza, deve essere possibile l’uso di un respiratore. Inoltre, la dieta deve essere garantita, soprattutto se i pazienti non sono in grado di deglutire. E’ inoltre necessario garantire che i medicinali possano essere forniti, di solito attraverso un tubo nasogastrico. Tutto questo è standard. Ogni grande ospedale pediatrico ha una dozzina di tali bambini che sono gravemente handicappati e poi curati in casa o a casa. Totale routine. In Germania, Alfie sarebbe stato a casa per un anno con tanta cura!”.
Il giornalista: Ma? Haas: “Il sistema sanitario inglese non lo vuole. Perché no? Posso solo speculare, ma per come la vedo io, il Servizio Sanitario Nazionale è la vacca sacra in Inghilterra. I medici dicono che quello che facciamo è giusto, punto. E, naturalmente, un tale trattamento di un paziente in terapia intensiva al di fuori della clinica è circa tre volte più costoso che in clinica. Quando creano un precedente, scatenano una valanga che costa una quantità considerevole di denaro”.
Ora, se quanto ho sopra evidenziato corrisponde al vero, cioè a come si sono davvero svolti i fatti, è evidente che c’è del “marcio in Danimarca”. E’ evidente che nel Regno Unito a causa di scelte politiche si stia – di fatto – lasciando morire bambini perchè gravemente disabili. Sono perfidi e cattivi i medici? Non credo. Sono cattivi e perfidi i giudici? Non credo. Credo stia avanzando sempre di più una “cultura dello scarto” nel mondo occidentale e che il clamore attorno alla “vicenda Alfie” contribuisca al fatto che questa “cultura” emerga in tutta la sua lucida perversione.
E non solo in Inghilterra: lo stesso è accaduto e accade in Francia (ricordo la vicenda della piccola Inès e quella di un adulto, Vincent Lambert).
E – aggiungo – non si pensi con leggerezza che l’Italia ne resti immune (o ne possa restare, ammesso che non lo sia già..). Inviterei – ad esempio – ad andare a leggersi per bene il testo completo della Legge 22 dicembre 2017, n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la legge sul biotestamento in vigore dal 01 gennaio 2018.
Di fronte a tutto questo, come cristiani, come persone di buona volontà, dobbiamo “solo” auto-confinarci nel badare a vivere una vita buona individualmente (mantenendo il silenzio totale su ciò che accade nel mondo attorno a noi) oppure provare – anche – ad “alzarci in piedi ogni qualvolta la vita viene minacciata”?
Davide Vairani
Tratto da Community La Croce
Sono nato il 16 maggio del 1971 a Soresina, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Grazia. Laureato per accidenti in filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con don Luigi Giussani che mi ha educato a vivere. Vi invito a seguirmi sulla mia pagina Facebook e su web al mio Blog “Scommunity“