Le Lettere di Luciano Sesta – Il caso Alfie, una sentenza logicamente debole e moralmente inaccettabile
Il piccolo Alfie sopravvive ancora, dopo 10 ore dal distacco del respiratore. Un’inquietante conferma che il suo organismo non era in fin di vita, che la sua vitalità, nonostante le previsioni mediche secondo cui sarebbe morto in pochi minuti per anossia cerebrale, è ancora presente e che non dipendeva “totalmente”, come si era detto, dalla ventilazione assistita. 10 ore che mettono in crisi tutte le cartelle cliniche che davano per “spacciato” il cervello di un bambino la cui vita non era affatto prolungata, ma mantenuta.
Che qui il paziente ci metta così tanto per andarsene, dimostra che non lo si sta “lasciando” morire, ma “facendo” morire, per omissione di soccorso. La ventilazione assistita, in altri termini, era proporzionata alle esigenze dell’organismo di Alfie, senza forzature. A risultare una forzatura, piuttosto, è la straziante inerzia di chi attende la faticosa morte di un bambino la cui vitalità è ancora evidente. Capisco che ora fare dietro front sarebbe un clamoroso autogol, per giudici e medici. Se non lo fanno, però, chi potrà liberarli dal sospetto di un’ottusa e cinica ostinazione, di fronte all’amore disarmato di quei poveri genitori?
C’è da chiedersi quanti, in questa triste vicenda, abbiano letto integralmente il parere dei medici dell’Alder Hey Children’s Hospital e le due sentenze dei giudici britannici che dispongono il distacco del ventilatore per lasciar morire Alfie Evans.
Come ho già scritto in un precedente articolo, credo nella buona fede di giudici e medici. Ma non posso fare a meno di ritenere logicamente deboli e moralmente inaccettabili le loro motivazioni. Non basta dire che si è trattato di una decisione sofferta e maturata dopo ponderata riflessione. Per giustificare una sentenza così grave – soprattutto alla luce dell’ostinata, almeno finora, sopravvivenza di Alfie in assenza di ventilazione artificiale – ci vogliono anche delle ottime ragioni. E io non ne ho trovate.
Per chiunque abbia una familiarità con la letteratura medica e con il ragionamento giudiziale, l’impressione generale è che vi sia una sproporzione fra la gravità e l’irreversibilità della decisione dei giudici e il carattere incerto e probabilistico delle diagnosi fornite per giustificarla. Nella sentenza e nei pareri medici, infatti, ricorrono continuamente espressioni come “Alfie, molto probabilmente, non ha consapevolezza di sé”, “non c’è evidenza che egli provi/non provi dolore”, “probabilmente il quadro clinico peggiorerà” ecc. Per decisioni non più rivedibili e fatali, come lasciar morire un bambino, ci vogliono però certezze, non semplici stime di probabilità. L’errore fatale in cui cadono non tanto i medici, quanto i giudici, è insomma di scambiare l’assenza di evidenza con l’evidenza dell’assenza.
La prima sentenza, in particolare – che è poi quella determinante – si basa sull’affermazione medica che la patologia di Alfie, pur di origine ignota, sia inguaribile e progressiva. Poiché tuttavia questo non è sufficiente a giustificare la sospensione di un trattamento salvavita – dal momento che per altre innumerevoli patologie inguaribili e progressive le cure proseguono – si dice anche che Alfie, probabilmente (likely), non è consapevole, per poi aggiungere, contraddittoriamente, che non si può escludere che egli possa anche provare una qualche forma di sofferenza.
La mancanza di consequenzialità logica dell’intera sentenza è mascherata dall’effetto retorico di insieme che deriva dalla sovrapposizione di giudizi di natura diversa. Si usa un giudizio etico, come quello secondo cui una vita priva di coscienza non è degna di essere vissuta, per giustificarne uno medico, secondo cui le cure sono inutili. Si passa poi a considerazioni di carattere clinico, secondo cui Alfie non mostra segnali di consapevolezza, a conclusioni di carattere psicologico, secondo cui Alfie non sarebbe cosciente. Un’abbondantissima letteratura clinica e di neuroimaging funzionale, però, dimostra che la mancanza di risposte a stimoli non equivale alla mancanza di coscienza. Il paziente potrebbe avere una qualche forma di coscienza, ma non essere in grado di manifestarla. Ci sono anche casi di bambini anencefalici – e dunque in condizioni neurologiche ben più gravi di quelle di Alfie – i quali, sottoposti a opportuni stimoli sociali dai genitori, hanno sviluppato forme rudimentali di relazione con l’ambiente. Di tutto questo, nella sentenza, si tace.
Anche qualora Alfie non fosse consapevole di sé e dell’ambiente circostante, peraltro, ciò non giustificherebbe la sospensione delle cure, perché verrebbe a mancare uno dei motivi che, per i giudici, induce invece a sospenderle, e cioè la sofferenza del bambino. In ogni caso, se Alfie stesse davvero soffrendo, allora, come tutti i pazienti, avrebbe innanzitutto diritto a non soffrire, non a morire. Sarebbe assurdo, invece, pensare che il suo “miglior interesse” a non soffrire debba passare per la morte piuttosto che per un più deciso e sistematico piano di cure palliative. Nessun paziente, per non soffrire, dovrebbe essere costretto a morire. Perché dovrebbe farlo proprio Alfie?
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Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica