Blog / Luciano Sesta | 21 Aprile 2018

Le Lettere di Luciano Sesta – Il caso Alfie, la giustizia e le ragioni del cuore

Come chiunque può notare, il caso Alfie è divenuto l’ennesimo ostaggio di uno scontro ideologico fra opposti schieramenti, che vede il destino di un piccolo paziente conteso fra il presunto “fanatismo religioso” dei genitori e il supposto “nazismo” di medici e giudici. Si tratta, come avviene spesso in casi simili, di un’inaccettabile caricatura di una ben più delicata e complessa situazione clinica e umana, che, proprio per questo, ci obbliga a una più attenta e rispettosa analisi.

Alfie Evans, un bambino di due anni affetto da una malattia neurodegenerativa associata a epilessia, è ricoverato dal dicembre 2016 all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool. La diagnosi della patologia di Alfie è ancora incerta, benché i più gravi sintomi siano evidenti: danni neurologici permanenti, crisi convulsive e incapacità di respirazione autonoma. Il quadro clinico complessivo, dal giorno del ricovero, è andato peggiorando, e non lascia ben sperare per il futuro.

Dopo un anno e mezzo di trattamenti non risolutivi, i medici dell’Alder Hey Hospital hanno dunque prospettato ai genitori del bambino la possibilità di sospendere tutte le cure, lasciando morire Alfie. Nelle condizioni in cui si trova, infatti, non c’è per il bambino «alcuna speranza di recupero» (there is no hope of recovery) (cfr. qui). Com’era già accaduto nell’analoga vicenda di Charlie Gard, i genitori si sono però rifiutati di lasciar morire il figlio, e il caso è finito in tribunale. I giudici britannici, che si sono espressi in due gradi di giudizio, hanno confermato il parere dei medici dell’ospedale, affermando che, poiché il mantenimento della ventilazione assistita non è nel miglior interesse del piccolo paziente, è giusto interromperla, lasciando morire il bambino.

Di fronte a queste sentenze, i genitori di Alfie non si sono arresi. Vedendosi rifiutata la possibilità di trasferire il piccolo in un altro ospedale per continuare ad assisterlo, hanno presentato un’istanza alla Corte di Appello, sostenendo che il figlio fosse “illegalmente trattenuto” dall’ospedale. Anche questo ulteriore appello, tuttavia, è stato respinto.

Si può affermare che in questa vicenda, similmente al caso Charlie Gard, tutti i soggetti coinvolti, e cioè i medici e i giudici da un lato, i genitori dall’altro lato, sono certamente in buona fede. Sia gli uni sia gli altri, infatti, hanno a cuore il bene del bambino, anche se hanno idee diverse su quale sia questo “bene”. Per i medici e i giudici, proseguire il trattamento medico che tiene in vita il piccolo è una forma di accanimento terapeutico, i cui costi sarebbero superiori ai benefici. In quest’ottica, sarebbe meglio lasciar morire Alfie, il cui destino è ormai segnato. I genitori, al contrario, non vogliono che al loro bambino sia interrotto il trattamento di nutrizione, idratazione e ventilazione assistita, che, pur non potendolo guarire, è però proporzionato alle attuali esigenze di ossigeno, liquidi e alimenti del suo organismo. In situazioni complesse, in cui non è facile capire chi ha davvero ragione, e dunque qual è il “vero” bene di un bambino, quale giudizio dovrebbe prevalere? Quello di un organismo statale o quello dei genitori?

Il superiore interesse del minore, certamente, può giustificare l’intervento di un pubblico potere anche contro la volontà dei genitori. Si pensi alle trasfusioni di sangue che il giudice impone a beneficio di un paziente pediatrico, nonostante il parere contrario dei genitori testimoni di Geova. Se il giudice non intervenisse, infatti, il bambino morirebbe, subendo un danno innegabile ed evidente. Nel caso di Alfie, però, non è altrettanto innegabile ed evidente che mantenere la ventilazione assistita, e persino tentare un trasferimento all’Ospedale Bambin Gesù, com’è stato ipotizzato in questi giorni, sia contro l’interesse del bambino.

A quest’ultimo proposito, occorre chiarire alcuni importanti elementi del problema. Nella valutazione dell’opportunità di proseguire o interrompere un trattamento già in corso (ventilazione assistita), o di iniziare o non iniziare un nuovo trattamento (tracheotomia e PEG all’Ospedale Bambin Gesù), bisogna distinguere due aspetti, che nel dibattito su Alfie sono spesso confusi. Il primo riguarda l’efficacia terapeutica del trattamento, ossia la sua capacità di guarire il paziente, o semplicemente di migliorare le sue condizioni di salute; il secondo, invece, riguarda l’efficacia salvavita del trattamento, ossia la sua idoneità a mantenere stabile, senza l’aggravio di ulteriori sofferenze, la situazione clinica generale.

Ora, la decisione di sospendere le cure di Alfie non può basarsi sulla loro incapacità di guarirlo, come pure è stato erroneamente detto. Un qualsivoglia trattamento medico, infatti, non può essere considerato una forma di “accanimento” solo perché è “inutile” ai fini della guarigione. Ci sono innumerevoli trattamenti medici che alleviano le sofferenze o semplicemente mantengono in vita, senza guarire il paziente, e che nessuno definirebbe mai “accanimento terapeutico”. Anche la dialisi non guarisce l’insufficienza renale, limitandosi a “prolungare” la vita del paziente. Nessuno, tuttavia, direbbe che la dialisi è una forma di accanimento terapeutico. Perché nel caso di Alfie le cose dovrebbero andare diversamente? Perché il prolungamento della vita di Alfie sarebbe accanimento terapeutico, mentre quello della vita di un paziente in dialisi non lo è?

Il principale motivo che giustifica la sospensione di un trattamento di sostegno vitale, secondo la definizione standard di “accanimento terapeutico”, non è la sua inefficacia terapeutica, ma l’aggravio di sofferenza che provoca al paziente, senza essere compensato da beneficio alcuno, nemmeno in prospettiva. Va però detto che i genitori sarebbero i primi ad accettare di interrompere le cure se queste facessero soffrire il loro bambino. Evidentemente non si è ancora giunti a questo livello, in cui cioè il trattamento medico, invece di contrastare le sofferenze del bambino, le provoca. Le crisi convulsive di Alfie, quando arrivano, sono trattate. Non è il trattamento a provocarle. Al contrario.

E siamo qui a un punto decisivo: un trattamento che soddisfa esigenze basilari come la respirazione, l’idratazione e la nutrizione dell’organismo, non può essere considerato dannoso se raggiunge, senza provocare una sofferenza ulteriore rispetto a quella di cui il paziente già soffre, la sua finalità specifica, che non è di guarire l’organismo, ma di risparmiargli una morte per soffocamento, inedia e disidratazione. Anche quando il paziente non si può guarire (to cure) con determinate terapie (therapies), insomma, ci si può continuare a prendere cura di lui (to care) con determinati trattamenti (life-supporting treatments), come, del resto, si fa innumerevoli volte, in molteplici circostanze cliniche. Quando dunque il trattamento si limita a stabilizzare, anche provvisoriamente, una situazione di un paziente gravemente disabile come Alfie, sospenderlo dicendo che provoca più danno che beneficio significa considerare un “danno” non un qualche disagio che il trattamento imporrebbe al paziente, ma il fatto stesso che il paziente rimanga in vita. Può tuttavia la sopravvivenza di una persona essere considerata un “danno”?

In realtà, come spesso accade in casi simili, un trattamento medico che mantiene in vita un paziente senza poterlo però guarire è considerato “utile” o “inutile”, “dannoso” o “benefico”, non in riferimento alla guarigione del paziente o alle sue sofferenze, ma al tipo di vita che consente di prolungare. Se la vita in questione ha uno standard accettabile di qualità, allora il trattamento è considerato “utile”; se invece il tipo di vita che la terapia mantiene non ha le qualità richieste, allora il trattamento è classificato come “inutile”, anche se il paziente, a causa di danni neurologici permanenti, non è in grado di provare sofferenza. Il che però impone un dovere di onestà: i medici che dichiarano “inutile” la ventilazione assistita per Alfie ma non quella per altri pazienti, stanno in realtà affermando che la vita di Alfie, diversamente da quella di altri pazienti, non è degna di essere vissuta. E ci si potrebbe chiedere perché, nel conflitto fra la visione soggettiva della “dignità” che hanno medici e giudici e quella che hanno i genitori del bambino, dovrebbe prevalere la prima piuttosto che la seconda.

È evidente, come si può notare, che il giudizio medico su un determinato trattamento include sempre anche una valutazione etica. I parametri per stabilire “costi” e “benefici” di una determinata cura, in effetti, sono non soltanto medici, ma anche psicologici, esistenziali, morali ecc. Per stabilire quando ci troviamo di fronte a un caso di accanimento terapeutico c’è dunque bisogno di una valutazione del medico, indubbiamente, ma anche dei pazienti o, in caso di incapaci o di minori, dei loro rappresentanti legali. Giuridicamente, infatti, il consenso o il dissenso del legittimo rappresentante legale coincide con quello del soggetto rappresentato. Un paziente terminale adulto e competente che fosse sottoposto a un trattamento di ventilazione assistita che i medici considerano ormai futile, può, a proprie spese, lasciare l’ospedale e recarsi altrove, o per morire a casa propria, o per tentare una terapia sperimentale. Il giudizio medico che questo non sarebbe nel “best interest” del paziente non conterebbe giuridicamente nulla. È il paziente che decide, visto che le conseguenze di qualunque decisione, qui, ricadono sulla sua pelle, non su quella dei medici. Né ai medici sarebbe richiesto di “fare” qualcosa che essi non ritengono giusto, dal momento che qui si tratta solo di “lasciare andare” il paziente, che si assume intera la responsabilità della propria scelta.

Imponendo il distacco del ventilatore ai genitori di Alfie, i medici e i giudici inglesi, per quanto ben intenzionati, sembrano aver dimenticato che è ormai tramontata l’epoca del paternalismo medico, in cui cioè il medico era l’unico a poter stabilire quale fosse il vero bene del paziente, proprio come fa un padre con i figli. Qui, però, il paziente un padre e una madre già li ha, e sono loro, e non i medici, che devono decidere cosa fare una volta informati sugli aspetti clinici della situazione. I medici possono insomma stabilire che il trattamento medico somministrato ad Alfie è inefficace ai fini della guarigione, ma non possono imporre la loro decisione di sospenderlo se i genitori, che sono i rappresentanti legali del bambino, vogliono portarselo altrove e, per esempio, farlo curare a proprie spese, esonerando, così, il sistema pubblico dai costi della loro decisione. Sarebbe come se una donna che vuole interrompere la gravidanza venisse posta dai medici obiettori sotto “sequestro” sanitario in un reparto di IVG, per impedirle di andare ad abortire in un altro ospedale.

L’opinione che la vita di Alfie non è degna di essere vissuta, si badi, non è, come purtroppo spesso si dice, frutto di chissà quale “nazismo” di medici spietati e di giudici insensibili. Come si è ricordato sopra, è molto più ragionevole presumere che tutti gli attori di questa vicenda abbiano a cuore il bene del piccolo paziente, e siano dunque in assoluta buona fede. Si può dunque legittimamente affermare che la vita di Alfie non è degna di essere vissuta, senza con ciò sentirsi accusare di nazismo, disumanità ecc. Ciò che però non si può fare è spacciare per “medico” quello che è in realtà un giudizio “etico”, che dunque i medici (e i giudici) esprimono in quanto uomini, non in quanto medici (e giudici). La loro opinione che per Alfie sarebbe meglio morire, in tal senso, non può vantare alcuna superiore autorevolezza rispetto all’opinione contraria dei genitori del bambino, che non può essere sbrigativamente liquidata come sentimentalismo frutto dell’ignoranza di “non addetti ai lavori”. Anzi, è probabile che i genitori, in questa vicenda umanamente drammatica, vedano ciò che invece sfugge agli estranei in camice bianco e in toga. Se questi ultimi parlano di “accanimento terapeutico”, lo fanno perché non hanno, su Alfie, lo stesso sguardo che hanno i suoi genitori. Dove i genitori vedono “Alfie”, e cioè qualcuno che amano, medici e giudici vedono “sofferenza”, ovvero qualcosa che non dovrebbe esserci. E non certo perché, repetita iuvant, medici e giudici siano cinicamente insensibili, ma solo perché, oggettivamente, sono privi di quella compartecipazione affettiva che consente di vedere una persona lì dove altri vedono solo nuda vita biologica.

Si può ammettere, come dicevamo all’inizio, che il caso rimanga controverso e di non facile e univoca soluzione. In dubio pro vita, si potrebbe allora dire. Se non per il trasferimento all’Ospedale Bambin Gesù, almeno per la decisione di non sospendere la ventilazione assistita, fino a quando consentirà di mantenere in vita il bambino senza imporgli disagi e sofferenze. Una cosa è decidere se e quando un bambino deve morire, altra cosa è accettare la sua morte, quando arriverà, facendosi così compagni del suo destino. Pronti, sempre, a interrompere la terapia lì dove complicazioni ulteriori dovessero trasformare in una tortura quello che ora è un sostegno vitale.

Rendendo esecutiva la sentenza del distacco del ventilatore, invece, i giudici inglesi rischiano di giudicare impropriamente il futuro, dimenticando che, fino a quando il trattamento è proporzionato alle esigenze biologiche dell’organismo (come una ventilazione che ossigena polmoni incapaci di respirazione), interromperlo significa non già accettare la morte del paziente, ma provocarla intenzionalmente. In questo caso, infatti, Alfie non morirebbe a causa della sua patologia, ma a causa dell’omissione di un trattamento che gli impedisce di fare ciò che egli potrebbe fare, e cioè respirare. Le ulteriori sofferenze che la sopravvivenza di Alfie può presentare, in tal senso, non sono provocate dal mantenimento della sua vita, ma dalla sua patologia. E, come tali, vanno trattate.

Ed ecco che il tentativo di mantenere in vita una persona a tutti i costi (accanimento terapeutico), comincia a mostrare un’insospettabile familiarità con il tentativo, contrario, di anticiparne la morte (eutanasia). Viviamo in una cultura attivista, che non sopporta che vi siano ancora eventi sottratti al nostro controllo: se la morte non può essere più evitata, dobbiamo almeno anticiparla. Ci illudiamo così di poterla esorcizzare. Tentazione a cui è esposto soprattutto il medico, a cui non piace rassegnarsi di fronte a eventi che non dipendono dal suo sapere, e che vuole sempre poter dire che la vicenda si è conclusa grazie a qualcosa che ha “fatto” lui. Stesso rischio per i giudici, la cui buona fede può sempre nascondere l’oggettiva caparbietà di dover “fare” giustizia a ogni costo, anche contro le più sfumate e sfuggenti ragioni dell’amore. In questa vicenda, in tal senso, a esprimere “ostinazione” non sarebbero i genitori del bambino, ma coloro che vogliono anticipare, per sentenza pubblica, ciò che, per sua natura, si accetta con rassegnazione privata. Contro ogni apparenza contraria, di fronte alle porte sprangate di un ospedale e all’ostinato rifiuto dei tribunali, i genitori di Alfie ci stanno offrendo una testimonianza di docilità: quella docilità con cui essi hanno accolto l’arrivo di Alfie, e con cui sono pronti ad accettare anche la sua morte. Non però a lasciare che sia un medico, su decisione di un giudice, a provocarla. Per questo non si rassegnano, aspettando che sia il loro bambino ad andarsene, con la stessa libertà con cui è arrivato.

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Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica