Le Lettere di Davide Vairani – E allora, sia così benedetta la “sindrome Tako-Tsubo”!
“Mi si spezza il cuore”. Eventi inaspettati e traumatici – esogeni o indogeni – ci provocano spesso sentimenti ed emozioni “troppo forti” e tutto in noi ne rimane come traumatizzato. Letteralmente “si spezza il cuore”. Non solo la sfera emotiva viene attaccata, ma anche il cuore, proprio lui, quell’organo vitale che pompa regolarmente sangue ad ogni parte del nostro corpo.
La medicina parla di cardiomiopatia da stress, una patologia che presenta sintomi simili a quelli dell’attacco di cuore ed è informalmente conosciuta come la “sindrome del cuore infranto”, o più appropriatamente “Tako-tsubo like syndrome”. Nel 1990, tre cardiologi giapponesi di Hiroshima riportarono per la prima volta l’esistenza di una sindrome cardiaca acuta che assomigliava all’infarto ma senza che i pazienti presentassero ovvie lesioni alle arterie coronarie. Il loro cuore nella regione dell’apice, in basso, mostrava una strana forma a palloncino, che assomigliava alle bisacce che si usano come trappole in Giappone per catturare i polpi, con una base allargata e un collo stretto. “Tako-Tsubo”: il polpo entra nel tako-tsubo, lo percorre, va nell’apice sfiancato, non riesce più ad uscire dal recipiente, ne rimane intrappolato come in una specie di nassa in cui è permesso ai pesci entrare ma non uscire. In questi casi, il ventricolo sinistro del nostro cuore si deforma e “rimpicciolisce”.
E’ una emozione che si traduce – dunque – in una malattia? Non sono un medico, ma ho la sensazione che quella che viene chiamata “sindrome Tako-Tsubo” nasconda in realtà qualcosa di più profondo.
Emozioni intense possono dare problemi al cuore. Qualche migliaio di anni fa, Archiloco diceva che per mantenere un giusto ritmo cardiaco non bisogna provare sofferenze profonde dell’anima né gioie smisurate. Qui l’occasione è quasi sempre di tipo spiacevole. In genere è qualcosa di triste che innesca la tempesta. C’è un malore grave, improvviso che statisticamente colpisce soprattutto le donne, spesso madri o anche nonne che accusano un dolore intenso al petto. Il loro elettrocardiogramma è alterato, spesso simile a quello che si osserva durante un infarto, tanto da indurre il cardiologo a formulare erroneamente questa diagnosi e talvolta a somministrare terapia che poi si rivelerà incongrua. Nell’80% dei pazienti i sintomi rientrano spontaneamente dopo un paio di settimane senza lasciare traccia, mentre negli altri casi il danno persiste. Il punto è che il danno causato dalla sindrome è nel cuore, ma non nelle coronarie. Nel paziente normalmente non rimangono danni perché la riduzione nell’apporto di sangue è sì abbastanza grave da non fornire energia sufficiente al cuore per contrarsi – e di qui la forma ‘a palloncino’ – ma non così grave da determinare la morte delle cellule cardiache come invece avviene in un infarto.
Quella sin qui descritta è una spiegazione sul piano medico di cosa accade nel corpo dell’uomo di fronte ad eventi traumatici.
E per il “cuore inquieto” a quale sindrome possiamo ricorrere per una spiegazione medico-scientifico? Credo alla stessa identica sindrome del cuore infranto oppure in realtà a nessuna. Ho la sensazione infatti che occorra guardare ciò che ci accade dentro da un’altra angolatura, o meglio, da più angolature.
Non siamo fatti solamente di emozioni e da organi. Siamo essenzialmente e costitutivamente “cuore”. Alt. Mi rendo conto che rischio solo di essere confusivo.
“Mi si spezza il cuore” è una frase che diciamo anche quando tutto attorno a noi sembra cospirarci contro, quando non riusciamo a vedere una luce in fondo al tunnel, quando ci alziamo al mattino e ci prende una strana malinconia, quando di fronte al male nel mondo restiamo come interdetti, quando alziamo gli occhi al cielo e diciamo “Dove sei?”, quando avremmo bisogno di un abbraccio e nessuno se ne accorge, quando la quotidianità ci appare solo un peso insostenibile, quando … Quando abbiamo la coscienza di un vuoto, di una mancanza di qualcosa capace di colmare davvero quel desiderio infinito di felicità. Insomma, quando si fa presente in noi l’incapacità di decodificare la realtà. Sono convinto che se un medico ci prescrivesse in questi momenti una serie di esami cardiologici vedrebbe il nostro cuore come rattrappito,”Tako-Tsubo”.
Non c’è però una pillolina che magicamente risolva tutto. Perchè la “formula” dell’itinerario al significato ultimo della realtà è una e soltanto una: vivere il reale.
Bella frase che all’orecchio suona bene e fa effetto, del tipo “diventa ciò che sei”, di quelle che ogni tre per due ci propinavano da piccoli al catechismo. Devo dire onestamente che non l’ho mai capita. Ho iniziato a comprenderne qualche barlume di senso e verità quando ho avuto l’avventura di imbattermi in un libro (e molto altro di più – ma questa è un’altra storia che avrebbe bisogno di troppo tempo): “Il senso religioso” di don Luigi Giussani.
A conclusione del capitolo “Come si destano le domande ultime” scrive: “L’esperienza di quella implicazione nascosta, di quella presenza arcana, misteriosa dentro l’occhio che si spalanca sulle cose, dentro l’attrattiva che le cose risvegliano, dentro la bellezza, dentro lo stupore pieno di gratitudine, di conforto, di speranza, perché queste cose si muovono in modo tale da servirmi, da essermi utili; e queste cose hanno dentro anche me, me, in cui quel recondito, quel nascosto diventa vicino, perché è qui che mi sta facendo, e mi parla del bene e del male – questa esperienza come potrà essere vivida, questa complessa e pur semplice esperienza, questa esperienza ricchissima di cui è costituito il cuore dell’uomo, che è il cuore dell’uomo e perciò il cuore della natura, il cuore del cosmo? Come potrà essa diventare potente? Nell’impatto con il reale”.
E aggiunge: “L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale. La formula dell’itinerario al significato della realtà è quella di vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla. Non sarebbe infatti umano, cioè ragionevole, considerare l’esperienza limitatamente alla sua superficie, alla cresta della sua onda, senza scendere nel profondo del suo moto”.
“L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale”: cosa c’entra la religiosità adesso? C’entra, c’entra eccome!
“Il positivismo che domina la mentalità dell’uomo moderno esclude la sollecitazione alla ricerca del significato che ci viene dal rapporto originario con le cose. Questo ci invita alla ricerca di una consistenza, cioè appunto di un significato; ci fa presentire questa presenza di consistenza che le cose non sono, tanto è vero che io (ed è qui che si definisce la questione), io stesso non lo sono; io, il livello in cui le stelle e la terra prendono coscienza della propria inconsistenza. Il positivismo esclude l’invito a scoprire il significato che ci vien rivolto proprio dall’impatto originario e immediato con le cose. Vorrebbe imporre all’uomo di fermarsi a ciò che appare. E questo è soffocante”.
E aggiunge: “Quanto più uno vive il livello di coscienza, che abbiamo descritto, nel suo rapporto con le cose, tanto più vive intensamente il suo impatto con la realtà e tanto più incomincia a conoscere qualcosa del mistero. Ripetiamo: quello che blocca la dimensione religiosa autentica, il fatto religioso autentico è una mancanza di serietà con il reale, di cui il preconcetto è l’esempio più acuto. È segno degli spiriti grandi e degli uomini vivi l’ansia della ricerca attraverso l’impegno con la realtà della loro esistenza. Ecco allora la conclusione: il mondo, questa realtà in cui ci impattiamo, è come se nell’impatto sprigionasse una parola, un invito, facesse sentire un significato. Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro, oltre sé, più su. In greco ‘su’ si dice ‘anà’. Questo è il valore della analogia: la struttura di impatto dell’uomo con la realtà desta nell’uomo una voce che lo attira a un significato che è più in là, più in su, ‘anà’. Analogia. Questa parola sintetizza la struttura dinamica dell’impatto che l’uomo ha con la realtà”.
Così – esattamente così – funziona il “cuore”, come sede dell’impeto originale della persona. È il cuore dell’uomo che cerca e domanda una “corrispondenza” con le attese originali di totalità. Ed è il cuore che rende inquieto l’io, quando questa corrispondenza non si palesa. Il cuore è tutto il nostro “io” impegnato tutto insieme a vivere il reale: mente, ragione, anima, gambe, braccia, sentimento, emozioni.
In ogni avvenimento, in ogni cosa, c’è un invito a ricercare oltre ciò che appare immediatamente. La realtà è un segno che rimanda ad altro. Scrive ancora Giussani: “La realtà rimanda a un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento dell’uomo è destinato. È il mistero. Il mistero è a scoperta più grande a cui può arrivare la ragione”.
Se siamo leali con il cuore e la ragione affermiamo la presenza del mistero e riconosciamo così la strada per essere autenticamente uomini. Chi può aiutarci ad attraversare il mare della vita? Chi può prenderci per mano? La ragione non può escludere a priori tale possibilità. Se Dio è l’infinito, dobbiamo ammettere anche la possibilità che Egli si manifesti assumendo il corpo di un uomo.
La medicina del “cuore inquieto” e del “cuore spezzato” è la santità, cioè l’affermazione in ogni gesto quotidiano dell’impossibilità che l’uomo ha, nella realtà, di compiere anche un solo gesto perfetto, come diceva Ibsen, l’incapacità che l’uomo ha a guardare un solo istante, nella sua vita, come perfetto. La santità non è raggiungimento di una perfezione, ma coscienza vissuta di questa impossibilità di perfezione.
“Se c’è una cosa che non comprendiamo, moralmente parlando, è la parola ‘santità’. Ma un bacio dato al proprio figlio senza santità è turpe, è mentitore, o disperato!”. Per questo la santità si sintetizzava per don Giussani in una sola parola, una domanda, pronunciata dagli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine: “Vieni!”.
Insomma. La vera medicina del cuore è una compagnia di volti che camminano insieme perchè coscienti dell’incompiutezza di ogni proprio gesto. E che si rivolgono ad un “tu” perché “venga” e dia quella pienezza di cui non siamo capaci. Cosa c’è di più libero che mettere un “tu” al cuore della propria vita e del proprio agire, non solo nei momenti di palese bisogno, ma nella costruzione di ogni giornata?
E allora, sia così benedetta la “sindrome Tako-Tsubo”!
Sono nato il 16 maggio del 1971 a Soresina, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Grazia. Laureato per accidenti in filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con don Luigi Giussani che mi ha educato a vivere. Vi invito a seguirmi sulla mia pagina Facebook e su web al mio Blog “Scommunity“