Blog / Scritti segnalati dal blog | 24 Marzo 2018

Francesca Fornario – La pedagogia della verità assoluta

Alessandra Bialetti segnala al blog un post pubblicato da Francesca Fornario, giornalista e scrittrice

– Signor giudice, onestamente non so so se sono una brava madre perché sono diventata mamma all’improvviso e mio figlio è diventato figlio all’improvviso: prima non avevo mai dovuto occuparmi di nessuno e nessuno si era mai occupato di lui, perciò ci siamo tutti e due improvvisati. Allora faccio così, quando fa i capricci e non so come fare gli dico “Ehi, idea, telefoniamo a una mamma più esperta! A zia Giulia, a zia Federica, a zia Camilla. Chiediamo consiglio a loro perché io sono mamma da poco e non so proprio cosa devo fare adesso con te” e lui mi dice “No, mamma, dai!!!”.
Però su una cosa ho fatto di testa mia, ho adottato questa pedagogia della verità assoluta. A mio figlio dico sempre la verità. Sempre, su tutto. Lui sa che può chiedermi qualunque cosa: la più imbarazzante, la più atroce, la più indicibile e io gli dirò la verità, senza omissioni, senza infingimenti. Non so se sia una buona idea in generale ma mi è sembrata buona per lui, perché ha visto cose talmente atroci che nessuna bugia può più proteggerlo dalla verità. È troppo tardi per nascondergli le cose che potrebbero farlo soffrire, le ha già sofferte tutte. E allora mi è sembrato che potesse proteggerlo solo la fiducia in qualcuno, e di qualcuno in lui. Gli adulti che lo hanno cresciuto non lo hanno mai considerato un interlocutore all’altezza. Gli hanno sempre raccontato balle e fatto del male. Quando l’ho conosciuto non si fidava dei grandi e nemmeno sembrava un bambino. Era come smontato. Rideva quando c’era da piangere, piangeva quando c’era da ridere, non aveva espressioni ma solo smorfie scomposte che non sapeva a quali emozioni dovessero corrispondere. Bisognava rimontarlo. Non sapevo come fare e quella mi è sembrata la strada giusta: dire sempre la verità, considerarlo, ascoltarlo, starlo a guardare, prenderlo sul serio anche quando scherziamo (questa è la cosa che faccio di lavoro, quindi ero un poco più pratica). Piano piano i pezzi sono andati a posto. No, non piano piano, veloce veloce: piano piano ho visto crescere i miei nipoti, lui l’ho visto crescere in fretta, di giorno in giorno, come i cani e le piante.
– Ci sono stati momenti difficili?
– I distacchi. Una volta me lo ha anche rinfacciato. Piangeva sul taxi che mi portava all’aeroporto. Gli dicevo: “Ehi, guarda che questo dolore che proviamo adesso è il segno di quanto siamo stati fortunati a trovarci! Per questo è così doloroso separarci. Pensa a quanto ci siamo divertiti in questi giorni…” E lui mi ha risposto: “Sì mamma, ma io prima di te non piangevo mai e non ridevo mai”. Disegnava una riga piatta nell’aria con la mano destra: “Mio cuore era così, sempre uguale, adesso mio cuore così – puntava il dito in su e poi in giù e poi di nuovo in su come un sismografo durante un terremoto – prima io ridere ridere ridere poi piangere piangere piangere poi ridere ridere ridere poi…”. “Ahhh, ho capito! Lo sai come si chiama questa cosa? Vita. Benvenuto al mondo figlio mio”. Non l’ho partorito ma l’ho fatto nascere.
– e se il bambino, per i traumi che ha subito, crescendo dovesse incontrare delle difficoltà? È probabile che succeda, dovrà fare una psicoterapia. Se non dovesse riuscire a colmare il suo ritardo?
– Non fa niente. Non siamo al mondo per essere performanti, siamo al mondo per essere un poco gentili con noi stessi e con gli altri, per essere un poco felici.
Al giudice non l’ho detto, ma lo so che viviamo in un mondo costruito per andare storto, un mondo progettato per valutare le persone in misura di quanto producono, di quanto si adattano, e di quelli che non si adattano dice che hanno la sindrome di adattamento. Lo so, e so che questo mondo gli sarà ostile. So anche però che questo mondo è ostile a tutti, e penso che la vera sindrome sia proprio l’adattamento. La vera sindrome è conformarci tutti a un modello perverso che non è stato pensato per rendere le persone più gentili, più serene, più felici, più solidali, più tolleranti e curiose delle reciproche differenze ma, al contrario, per metterle in competizione tra loro. Per fomentare invidie, diffidenze, pregiudizi e rancori, fin da bambini. Per stabilire un tasso di attività consentito oltre il quale si è iperattivi, per premiare a prescindere l’attenzione e sanzionare la distrazione anche quando la cosa che ci distrae è una cosa alla quale decidiamo di prestare maggiore attenzione. So anche che questo è un sistema pieno di falle, che queste falle sono ancora più evidenti agli occhi di chi ha sofferto, e per questo è un sistema che può essere messo in discussione. Non bisogna adattarsi a ogni costo, saper distinguere un vestito alla moda da uno che non lo è o una camicia da donna da una da uomo, o imbottirsi di tabelline e congiuntivi e capitali europee e poesie di Pascoli come se non esistesse altra sapienza al di fuori, altre lingue oltre all’inglese. C’è una parola malese intraducibile nelle altre lingue, “pisan zapra”, che indica “Il tempo necessario a mangiare una banana”: conosco solo questa parola in malese e a giudicare da questa chissà quante altre ce ne sono la cui conoscenza mi renderebbe una persona più sapiente, anche se la conoscenza del malese non farebbe una gran figura su un curriculum agli occhi di un direttore del personale. Non bisogna adattarsi a ogni costo, è una cosa che chi ha sofferto intuisce prima e meglio, quando mette la testa fuori dal dolore, se gli riesce di mettere la testa fuori. Confido quindi che mio figlio appartenga alla fortunata schiera di quelli che sono lieti di non corrispondere alle aspettative, lieti di sapere fare le cose così così, più felici di farne dieci male piuttosto che una bene, lieti della loro imperfezione, a proprio agio con i propri limiti, a proprio agio con i propri eccessi, a proprio agio con le critiche di quanti lo vorranno diverso. Tutti i mei idoli erano dei disadattati! Sparate nomi a caso: Michelangelo, Leopardi, Bukowsky, Angela Davis, Joe Strummer, Philip Dick… tutti fermati per rissa, depressi, insubordinati, maniaci, violenti, alcolizzati… non sto dicendo che vorrei essere la madre di Robert Crumb, eh, ma che la capacità di adattamento così come la intendono i manuali di psicologia è una qualità parecchio sopravvalutata, che andrebbe quantomeno bilanciata alla luce di altre caratteristiche della personalità a cominciare da quella opposta: la capacità di ribellarsi, di non conformarsi agli standard, di mettere in discussione l’autorità costituita.
Dunque, non voglio insegnargli a superare tutti i suoi limiti, tutte le sue paure. Non avere paura di un mondo come il nostro è spaventoso! Chi ha un po’ di testa e cuore ha paura ogni giorno e sa che la paura si supera tenendosi stretti. Il suo urlare talvolta nel sonno è in fondo la reazione più appropriata, la reazione che qualunque persona sana di mente dovrebbe avere ogni notte al cospetto delle cose che accadono. Non posso estirpare questo suo dolore ma posso insegnargli a tirare fuori la testa come gli ho insegnato a fare quando, in un giorno, ha imparato a stare a galla. Aveva nove anni e non aveva mai visto il mare. Non credeva che fosse più grande della terra emersa, non pensava di poter galleggiare e non voleva lasciarmi le mani. Poi ha visto che io galleggiavo e ora è un pesce. So che è un bambino traumatizzato, non posso cancellare il male che gli hanno fatto ma posso insegnargli il conforto che si prova a essere un poco gentile con se stessi e con gli altri, la gioia che si prova a gioire della felicità degli altri, il coraggio che si trova quando si lotta in tanti insieme.
Quanto al sostentamento economico, ammesso che prendere buoni voti a scuola e avere molto autocontrollo assicuri uno stipendio decente – e conosco decine di ricercatori pronti a spiegarti che non è affatto detto – mi rassicura sapere che mio figlio è abituato a vivere con poco e lo sta insegnando anche a me. Se per campare dovrà fare, come tutti o quasi, un lavoro di quelli che non vedi l’ora che finisca, spero che possa farlo per mezza giornata soltanto. Non tutte le professioni ci permettono di esprimere e tantomeno realizzare la nostra personalità, è così solo per pochi privilegiati ed è sbagliato un sistema che ti convince che ti realizzerai grazie al lavoro che farai: un sistema che fa coincidere la carriera con la vita e che pretende – e ottiene – una scuola che prepari alla carriera e non alla vita. Non siamo commesse o infermieri o scrittrici, siamo persone, e spero che mio figlio sviluppi quella meravigliosa capacità che ho visto in alcuni lavoratori costretti a lavori usuranti, come Mimmo o Bruno: la consapevolezza che non siamo il lavoro che facciamo, come una volta mi ha detto un operaio del’Ilva. Siamo, al limite, il modo in cui lo facciamo. La cura che abbiamo per i  nostri colleghi, le relazioni che intratteniamo dentro e fuori dal luogo di lavoro. Siamo le cose che vediamo, le cose che ci diciamo, la musica che ascoltiamo, le persone con le quali intrecciamo rapporti, i chilometri che facciamo in bicicletta, siamo le emozioni che proviamo, siamo le cose dalle quali ci facciamo attraversare: “siamo come fessure, come buchi che inspiegabilmente si aprono, si allargano, e poi si richiudono e la nostra vita è quello che ci attraversa, è tutto quello che passa dento a quel buco”.
“Sei sicura mamma?”
“No”
La pedagogia della verità assoluta.
A tutti voi che mi state chiedendo come è andata l’udienza, è andata così. La giudice è stata premurosa, attenta, cordiale. Ha verbalizzato tutto: “Non siamo al mondo per essere performanti, siamo al mondo per essere gentili…”. Ci rivedremo a Giugno con figlio, quando arriverà in Italia per trascorrere con me i tre mesi estivi, confida che a settembre avremo il decreto di idoneità all’adozione anche senza un papà, perché come si diventa genitori con un figlio così si diventa figli con un genitore. Grazie a tutti e soprattutto a Andrea Maestri che ci segue amorevolmente in questo viaggio e a Giuseppe Civati che me lo ha fatto conoscere. Ai compagni, gli amici, i familiari, gli zii acquisiti che ci sostengono (“È un’adozione collettiva”, ha verbalizzato la giudice, o una cosa così). Grazie a zia Giulia, che il giudice ha scambiato per una praticante tanto sembra giovane e invece sono io che faccio pratica da lei.
Grazie a mio figlio che mi ha adottato e che per propiziare il fato ha avuto la seguente idea: impariamo a cucinare i biscotti della fortuna, ne facciamo cento, mettiamo in tutti un biglietto con scritto “Denis per sempre italiano con sua mamma Francesca”, li vendiamo al ristorante cinese e ci andiamo a cena, loro ci danno un biscotto noi lo apriamo e… Lo scrivo nel caso un direttore del personale stia leggendo: in un mondo decente, questa varrebbe come una triennale in gestione d’impresa.