Agi – Perché la storia del prete condannato e assolto per lo stesso reato non si ripeta
Il prete di Alassio don Luciano Massaferro passerà alla storia per essere stato condannato dallo Stato italiano per pedofilia in via definitiva a sette anni e otto mesi e per essere stato giudicato completamente innocente, per lo stesso reato, dal tribunale ecclesiastico.
Se prendiamo sul serio questo fatto gravissimo e non lasciamo che rimanga solo un episodio clamoroso tra tanti, don Luciano ha l’occasione di essere ricordato però non solo per essere stato o no un “prete pedofilo”, ma per aver reso evidente l’urgente necessità di negoziare un accordo tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica a riguardo del delitto di pedofilia dei preti.
Ne bis in idem è un principio fondamentale del diritto e significa che non può esserci doppio giudizio per lo stesso reato. Ma per don Luciano le cose non sono andate così. È un criterio fondamentale di giustizia tanto che in paesi come gli Stati Uniti, il Canada, il Messico, l’Argentina e l’India è considerato un principio costituzionale. Nel diritto italiano questo principio è pienamente accolto ma, come si è reso clamorosamente evidente nella vicenda del prete ligure, non vige nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Per i giudici italiani Massaferro è colpevole. Nel febbraio 2011 il Tribunale di Savona lo condanna a sette anni e otto mesi di carcere e, nel novembre dello stesso anno, la pena viene confermata dalla Corte di Appello di Genova; nel 2012 poi la Cassazione emette il proprio giudizio respingendo il ricorso presentato dal noto avvocato Franco Coppi. Diventa così definitiva la sentenza per cui il sacerdote ha «costretto in più occasioni la minore, approfittando dell’autorità conferitagli dal suo ruolo di parroco della chiesa di San Vincenzo di Alassio, a compiere o subire atti sessuali».
Fra arresti domiciliari e cella don Luciano sconta sei anni e due mesi di reclusione. A febbraio scorso però il vescovo Borghetti rendo noto che per la Chiesa don Luciano è innocente: c’è stato un processo canonico durato più di quattro anni al termine del quale il tribunale ecclesiastico emana una sentenza per cui il sacerdote deve essere riabilitato in quanto “non consta che abbia commesso i delitti a lui ascritti”. Nel rendere nota la decisione il vescovo cita l’articolo 7 della Costituzione italiana secondo il quale lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. E proprio questo è il problema. Il problema, cioè, non è tanto che Stato e Chiesa siano indipendenti e sovrani ma che non ci sia tra essi un accordo tale da impedire che venga infranto il principio universale del “Ne bis in idem” quello per il quale in nessun luogo al mondo può accadere di essere giudicati due volte per la stessa cosa.
Se è giusto che Stato e Chiesa godano della più totale autonomia è altresì doveroso che si trovi un accordo perché non accada più di essere giudicati due volte per lo stesso delitto. È ora che, dopo il Concordato firmato da Craxi e Casaroli nel 1984, Chiesa e Stato siedano di nuovo attorno a un tavolo per regolare situazioni come quelle di don Luciano: con quale diritto la Chiesa ha fatto un secondo processo su un delitto per il quale già c’era una sentenza definitiva? Proprio perché le sentenze umane sono fallibili non si può permettere che ce ne siano due per lo stesso delitto. Può avvenire infatti – come accaduto per don Luciano – che una dia esito di colpevolezza e l’altra d’innocenza e così l’unico risultato finale è far capire che la giustizia non esiste e che la legge non ha nessun valore.
Se partiamo dalla convinzione che Chiesa e Stato abbiano la loro indipendenza si tratta semplicemente di armonizzare i rispettivi ambiti di competenza così come avviene tra diversi stati sovrani. Cesare Battisti, per esempio, è stato condannato in Italia all’ergastolo, è evaso, ora si trova in Brasile ma nessuno lì si sogna di fargli un nuovo processo per i delitti commessi: tema del contendere non è che sia innocente ma se e come operare l’estradizione. Si agisce così perché il Brasile riconosce all’Italia la capacità di condurre in porto un giusto processo e la stessa cosa riconosce l’Italia al Brasile: pare del tutto logico pertanto che un analogo ordine di argomentazioni debba governare i rapporti tra Stato italiano e Chiesa. Perché non si è affrontata la spinosa questione di come trattare la pedofilia dei preti nel Concordato del 1939 (i Patti Lateranensi) e in quella successivo del 1984? Forse perché allora allora la sensibilità per questo terribile delitto era veramente minima: basti pensare che nel Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato nel 1992 la parola pedofilia non esiste. E anche questa cosa andrebbe davvero cambiata al più presto.
Tratto da Agi