Se “mi” racconto mi conosci – Anna Maria

Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]

Apriamo questa stanza calda ed accogliente dove ognuno possa esprimere, raccontare e condividere liberamente il proprio vissuto. Al di là di teorie, concetti e contrapposizioni che alzano muri. Noi vogliamo costruire ponti. Ognuno è benvenuto a raccontarsi e arricchire il nostro percorso insieme perché solo la “contaminazione” con la vita dell’altro ci può salvare dal giudizio.

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La vita di una persona che sbaglia pare un elastico che ritorna punto e a capo da dove sembrava cambiare rotta

Sono detenuta nella Casa di Reclusione di Venezia, non sono giovanissima, ho quarantacinque anni, sono madre di due splendidi bambini, e vorrei raccontare come il sistema giudiziario ti può chiudere possibilità che ti sei costruita con molta fatica, dopo un errore commesso nel lontano 1991.

Nel periodo in cui ero in detenzione domiciliare presso l’Istituto “Opera Don Calabria” ho cercato di aiutarmi, con l’appoggio di altre persone, a mettere un po’ di ordine nella mia vita sballata, fatta di falsità, sfruttamento, immaturità, squallidità. L’input a ricostruire una vita sbagliata è partito da me, ma qualcosa che mi ha ancora di più convinta che ero sulla strada giusta è stato l’incontro che ho avuto con il mio attuale compagno. Un uomo che ha rafforzato con il suo amore la fiducia in me stessa.

Un incontro casuale: all’istituto c’erano sia donne che uomini, le donne coabitavano con le suore e gli uomini con i preti. Un giorno andai alla sezione maschile perché avevo il desiderio di confessarmi. Dovetti attendere in quanto don Giusto, con cui volevo parlare, era occupato con un amico. All’improvviso lui entrò accompagnato da questo amico. Un flash, due parole di saluto, una stretta di mano. Il caso volle che lui e io da quel momento ci prendessimo per camminare insieme lungo il percorso della vita. A settembre 1999, terminata la mia detenzione, presi il “treno del sole” per trasferirmi al nord. Dove il mio compagno, da cui ho attinto molta forza, lavorava e viveva da tempo.

Mentre ero ancora in detenzione, ricordo che lui passò i suoi venti giorni di ferie presso l’istituto per poter stare vicino a me ed ai miei figli. La famiglia divenne numerosa, perché lui ha tre figli. Sia in detenzione che nel primo periodo del mio trasferimento al nord, i miei figli vivevano in affidamento presso una parente lontana, non avendo io famigliari stretti.

L’affidamento lo feci in quanto avevo non paura, ma il terrore che mi fossero tolti e dati in adozione a qualcuno. Volevo pagare il mio debito con la società e costruirmi una nuova vita. Ero determinata e credo che non chiedevo molto. Una vita normale, ricomponendo non uno ma due nuclei famigliari, perché il mio convivente ha riconosciuto come suoi i miei due figli, che ora portano il suo cognome. Questo dimostra anche la serietà dei suoi sentimenti, è un uomo con principi sani, onesto.

Il motivo per cui sono salita al nord da sola era anche perché volevo riuscire a capire chiaramente se questo rapporto affettivo era una cosa seria, con basi solide.

Mi trovai lavoro in un maglificio. Insieme arredammo la nostra modesta casa. Facemmo progetti per il futuro. Mi sembrava un sogno. Il mio passato si stava allontanando velocemente. Tutto sembrava si fosse fermato sul marciapiede della stazione di Napoli, da cui ero partita. Cominciammo a parlare con assistenti sociali, giudici del Tribunale dei minori, per organizzare l’arrivo di Chiara e Alex, i miei bambini.

Dentro mi sentivo rinata, conta molto essere mamma, compagna, amica. Ero artefice di ciò che veramente volevo. Un sogno. Ebbene sì, un sogno e… come tutti i sogni che al risveglio svaniscono, il mio il 17 aprile del 2001 si infranse. I carabinieri vennero in fabbrica, erano le 10.30, avevano un mandato di cattura. Ero sconvolta, non riuscivo a crederci, continuavo a chiedere: “Siete sicuri?”. E sì, ero proprio io la persona che cercavano, volevano.

Sono di nuovo in carcere. Il reato è del 1991, ogni giorno mi chiedo perché. Certo, il mio rapporto affettivo di coppia permane, ma devo ricominciare da capo… i servizi sociali, il Tribunale paiono rendermi ancora più difficile la corsa verso la vita normale.

Mi sento sempre rispondere di avere pazienza, che tutto si aggiusta. Chi realmente mi vuole aiutare si trova sempre porte sbarrate, ostacoli insormontabili. Ho sbagliato, ho anche pagato. Ho fatto quattro anni di carcere in passato e con questo sono già a cinque. Mi pare una cambiale. I creditori vengono a riscuotere proprio quando con molta fatica stavo integrandomi.

Non è il peso della reclusione che più mi fa soffrire, è la lontananza dalla mia famiglia, più vado avanti più mi rendo conto di quanto sarà difficile ricostruire un rapporto con loro. Ci sono delle alternative, perché non attuarle? Perché chi ha un determinato ruolo deve accanirsi in questa maniera su di me e non solo (non sono l’unica persona presa dentro una spirale come questa)? Perché non guardare oltre? Perché non valutare che è più proficuo, realistico, umano dare una opportunità di riscattarsi in altro modo? Una detenzione domiciliare con l’obbligo di lavoro, controllata dalle forze preposte, non potrebbe essere sufficiente per far sì che io sconti il mio debito, il mio errore di 11 anni fa? Come persona credo di avere il diritto di vivere una vita decente con la mia famiglia.

La vita di una persona che sbaglia pare un elastico. Oggi sbagli, paghi, ti rimetti in carreggiata, ma non hai pagato abbastanza, la tua vita ritorna punto a capo da dove sembrava cambiare rotta. È costruttivo? Certo io continuo a combattere, non mollo, il desiderio di avere una vera famiglia mi rende forte, ma non vorrei che il dolore, la frustrazione provocata dal non vedere risultati concreti sovrasti il mio giusto credo nella possibilità di eliminare, o perlomeno sfocare, il timbro indelebile che bolla la persona nel momento in cui ha deviato dalla carreggiata.

Da Ristretti

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.