Blog / Scritti segnalati dal blog | 03 Marzo 2018

Corriere della Sera – L’Osservatore romano: suore come colf nelle case di cardinali e prelati

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La denuncia è pesante, durissima ed è indirizzata a cardinali e alti prelati: che tratterebbero peggio delle serve più miserabili le suore che prestano servizio nelle loro case. E viene da una fonte sicuramente al di sopra di ogni sospetto: l’ha pubblicata nel suo supplemento mensile «Donne chiesa mondo», l’Osservatore romano, edito nella Città del Vaticano dalla Segreteria per la comunicazione della Santa Sede: non si tratta dell’organo ufficiale della Santa Sede, ma è una delle tre fonti ufficiali (con la Radio Vaticana e al Centro Televisivo Vaticano). 

«Dall’alba alla sera» 

Tutto parte dall’articolo di Marie-Lucile Kubacki che ha sentito suor Marie (il nome è di fantasia come quello delle altre religiose), africana che vive a Roma da oltre 20 anni e che accoglie suore provenienti da tutto il mondo: molte di loro servono nelle abitazioni di vescovi o cardinali, altre lavorano in cucina in strutture di Chiesa o svolgono compiti di catechesi e d’insegnamento. Ecco il suo racconto: «Alcune di loro, impiegate al servizio di uomini di Chiesa, si alzano all’alba per preparare la colazione e vanno a dormire una volta che la cena è stata servita, la casa riordinata, la biancheria lavata e stirata… In questo tipo di “servizio” le suore non hanno un orario preciso e regolamentato, come i laici, e la loro retribuzione è aleatoria, spesso molto modesta». Ma c’è di più : proprio come accade alle colf, le suore cuoche, lavandaie, cameriere non possono sede quasi mai alla tavola del cardinale: «Un ecclesiastico pensa di farsi servire un pasto dalla sua suora e poi di lasciarla mangiare sola in cucina una volta che è stato servito? È normale per un consacrato essere servito in questo modo da un’altra consacrata? E sapendo che le persone consacrate destinate ai lavori domestici sono quasi sempre donne, religiose? La nostra consacrazione non è uguale alla loro?». 

«Tante hanno paura di parlare» 

E’ ovvio in questa situazione che molte si sentano infelici e frustrate, fino al desiderio di ribellarsi che spesso però non porta a niente. «Molte hanno paura di hanno paura di parlare perché dietro a tutto ci possono essere storie molto complesse. Nel caso di suore straniere venute dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, ci sono a volte una madre malata le cui cure sono state pagate dalla congregazione della figlia religiosa, un fratello maggiore che ha potuto compiere i suoi studi in Europa grazie alla superiora… Se una di queste religiose torna nel proprio paese, la sua famiglia non capisce. Queste suore quindi si sentono in debito, legate, e allora tacciono. Tra l’altro spesso provengono da famiglie molto povere dove i genitori stessi erano domestici. Alcune dicono di essere felici, non vedono il problema, ma provano comunque una forte tensione interiore. Alcune arrivano addirittura a prendere ansiolitici per sopportare la frustrazione». Un’altra religiosa, suor Paule, con incarichi importanti nella Chiesa, ha raccontato alla giornalista di consorelle che avevano servito per trent’anni in un’istituzione di Chiesa e che, quando si erano ammalate, non avevano nemmeno ricevuto una visita dei prelati che avevano servito e che erano incorsi quindi nell’omissione di una delle Sette opere di misericordia che raccomandano ai fedeli. E ancora suore «licenziate» dall’oggi al domani, mandate via senza una parola, «come se fossimo intercambiabili». 

In cucina col dottorato

Spiega ancora suor Paule: «Ho conosciuto suore in possesso di un dottorato in teologia che dall’oggi all’indomani sono state mandate a cucinare o a lavare i piatti, missione priva di qualsiasi nesso con la loro formazione intellettuale e senza una vera spiegazione. Ne ho incontrato un’altra che aveva insegnato per molti anni a Roma e da un giorno all’altro, a 50 anni, si è sentita dire che da quel momento in poi la sua missione era di aprire e chiudere la chiesa della parrocchia, senza altra spiegazione», aggiunge suor Paule. E nell’articolo-denuncia anche la testimonianza di suor Cecile, insegnante: «Al momento lavoro in un centro senza contratto, contrariamente alle mie consorelle laiche. Dieci anni fa, nel quadro di una mia collaborazione con i media, mi è stato chiesto se volevo davvero essere pagata. Una mia consorella anima i canti nella parrocchia accanto e dà conferenze di quaresima senza ricevere un centesimo… Mentre quando un prete viene a dire la Messa da noi, ci chiede 15 euro. A volte la gente critica le religiose, il loro volto chiuso, il loro carattere… Ma dietro tutto ciò ci sono molte ferite. Quando vengo invitata a fare una conferenza, non esito più a dire che desidero essere pagata e qual è il compenso che mi aspetto. Ma, è chiaro, mi adeguo alle disponibilità di quanti me lo chiedono. Le mie sorelle e io viviamo molto poveramente e non miriamo alla ricchezza, ma solo a vivere semplicemente in condizioni decorose e giuste. È una questione di sopravvivenza per le nostre comunità». Ma come sempre accade nella Chiesa, tutto potrebbe secondo le stesse religiose essere utile: «Basterebbe che le gerarchie maschili considerassero le nostre esperienze di povertà e sottomissione, a volte subite e a volte scelte, per una vera riflessione sul potere. Allora tutto questo potrebbe diventare una ricchezza per tutta la Chiesa».

Tratto da RomaCorriere