Blog / Scritti segnalati dal blog | 23 Gennaio 2018

Jorge Mario Bergoglio – Il rischio delle polarizzazioni

In questo articolo Padre Messa collega alcuni testi di Papa Francesco/Bergoglio sul rischio della polarizzazione e dell’inimicizia

Nell’omelia in occasione del concistoro per la creazione di nuovi cardinali sabato 19 novembre 2016, vigilia della chiusura del Giubileo della misericordia, papa Francesco ha messo in evidenza la realtà della polarizzazione e esclusione, motivo per cui «rapidamente chi sta accanto a noi non solo possiede lo status di sconosciuto o di immigrante o di rifugiato, ma diventa una minaccia, acquista lo status di nemico».
Entrando nel dettaglio ha specificato: «Nemico perché viene da una terra lontana o perché ha altre usanze. Nemico per il colore della sua pelle, per la sua lingua o la sua condizione sociale, nemico perché pensa in maniera diversa e anche perché ha un’altra fede. Nemico per… E, senza che ce ne rendiamo conto, questa logica si installa nel nostro modo di vivere, di agire e di procedere». Proseguendo ha detto a tale tentazione non è estranea neppure la comunità ecclesiale e così capita che «il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ricchezza e l’universalità della Chiesa».
Tale linguaggio richiama immediatamente un testo che – spesso in modo implicito e in filigrana – caratterizza il pensiero e magistero di papa Bergoglio, ossia il piccolo ma intenso libro L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente di Romano Guardini. Ad esempio la realtà degli opposti – da non confondere con le contraddizioni – è presente fin dal titolo in Silencio y palabra, una serie di appunti «destinati a essere conforto a una comunità religiosa che attraversava momenti difficili» scritti allorquando l’allora padre Jorge Mario Bergoglio fu rimosso dal collegio Máximo – dopo 25 anni di insegnamento – e inviato nella residenza dei gesuiti di Córdoba. In esso, descrivendo le divisioni, scrive: «Quando questo accade all’interno di un’istituzione, in un “corpo”, parlando in termini sociopolitici, possiamo dire di trovarci in presenza di una lotta tra “fazioni”. Nel caso della vita consacrata, delle tre frontiere che deve tenere d’occhio un consacrato – quella esterna (aggressività apostolica), quella interna (vita spirituale) e quella intermedia (sua appartenenza al corpo) –, è quest’ultima, in queste situazioni, a polarizzare l’attenzione e gli sforzi a spese delle altre due. Noi argentini siamo inclini a questa tentazione. Nella ex Iugoslavia si dice che “con due sloveni si fa un coro, con due croati un parlamento e con due serbi un esercito”. In Argentina possiamo dire che con due argentini organizziamo subito una fazione. Noi argentini siamo molto politicizzati, ma ci manca la cultura politica, ed è questa la ragione per cui siamo così inclini alle “fazioni”. Si può vedere infatti come anche i grandi movimenti popolari argentini cedano alla tentazione di ridursi alla politica del “comitato” o della “cellula base”. Si perde la grandezza del servizio nella meschinità del proprio interesse. E queste “fazioni” entrano anche nella vita religiosa ed ecclesiastica: la fazione che ha origine nel peccato di Babele, nell’assassinio di Caino, nell’autosufficienza del progetto personale. Allora, invece di camminare si finisce per essere «raminghi» come Caino (Gn 4,12); ciò che si sarebbe potuto costruire viene incenerito da un fulmine (Gn 11,7-9); la pretesa di dominio infine affoga nel diluvio della propria sazietà (Gn 7,21). Le “fazioni” ecclesiali sono antiche quanto il Nuovo Testamento. La madre dei figli di Zebedeo fu protagonista di una di esse, e san Paolo per difendere l’unità delle Chiese dovette combattere con le unghie e con i denti contro chi preferiva le divisioni (1Cor 1,11-15; 3,3-15). L’attivista delle “fazioni” è, secondo san Giovanni, uno che pretende di andare al di là della comunità, uno che «”a oltre” la comunità, con il suo progetto personale: è il proagón (2Gv 1,9). E la nascita di una nuova fazione alimenta quelli che verranno, i nuovi, a fare altrettanto, nutrendoli con il pane della discordia che corrompe, fin da giovani, il loro cuore».
Il contesto in cui furono stesi tali appunti è illustrato da quella che può essere definita quasi la prima biografia storica di papa Francesco, ossia dal libro di Austen Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Mondadori, Milano 2014.
Di seguito la traduzione di parte del testo Silencio y palabra pubblicato integralmente, comprese le note, in Non fatevi rubare la speranza La preghiera, il peccato, la filosofia e la politica pensati alla luce della speranza.

Silenzio e parola
Appunti scritti nel dicembre 1990 e destinati a essere di conforto a una comunità religiosa che attraversava momenti difficili. Il «presupposto» di questo testo è quello menzionato in Congregazione generale, XXXII, XI,25: «I momenti di turbamento e di prova che minacciano a volte la nostra comunità fraterna possono trasformarsi in momenti di grazia, capaci di consolidare la nostra consegna a Cristo e di renderla credibile».

Introduzione
1. A volte, quando ci capita di vivere una situazione difficile, il silenzio non è un atto di virtù. Si impone semplicemente da sé, non ci lascia scelta. In tali situazioni, qualunque ribellione o sfogo viene imbavagliato da un’impotenza viscerale che può anche essere una grazia ricevuta senza meriti da parte nostra: la grazia del silenzio. Allora ogni persona deve osservarlo. Tutt’al più, si riuscirà a cogliere qualche dettaglio, qualche annotazione, ma risulta impossibile esplicitare una visione d’insieme. Sant’Ignazio consiglia di parlare di peccati pubblici solo quando bisogna evitare che un errore pubblico contamini le anime, oppure quando il peccato nascosto si svela a qualcuno, affinché aiuti colui che è in peccato a risollevarsi, purché vi siano fondati indizi e buone probabilità che possa aiutarlo (Es. sp. 41), ma non dice «quando» se ne deve parlare (se subito o dopo molto tempo). Dio vuole prendersi il suo tempo, e le nostre pretese devono adeguarsi a Lui.

2. E quando arriva il momento di parlare, se siamo ispirati dallo spirito benevolo, allora siamo «mossi» da dentro: è quasi come un atto di fede, «per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune» (Rm 1,12). Non bisogna ingannarsi e cercare la pseudoconsolazione di chi tira fuori aneddoti e mezze vittorie basate su menzogne. Si tratta solo di pettegolezzi, durano un nonnulla e si sta male subito dopo, quando tutto finisce per venire alla luce. E non bisogna neppure assaporare l’amaro gusto della desolazione con le esegesi: quell’alito protestante di «natura corrotta» che ci inchioda nella nostra angoscia come unica possibilità per ricevere il perdono.

Situazioni difficili e peccato
3. I Vangeli presentano nostra Signora in silenzio, che medita tutte le cose nel proprio cuore. La sua più grande forza è il silenzio. Contempliamo l’immagine di Maria, colei che scioglie i nodi. Le sue mani stanno districando un groviglio tale che chiunque volesse scioglierlo riuscirebbe solo a ingarbugliarlo di più. Che cosa scioglie? Perché lo scioglie? È Ireneo di Lione a spiegarcelo: «Il nodo della disobbedienza di Eva è stato sciolto con l’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità la Vergine Maria sciolse con la fede». Un groviglio che si è venuto a creare nel filo della vita degli uomini e dei popoli per colpa della disobbedienza e dell’incredulità. È questo che scioglie Maria, e lo fa con le mani dell’obbedienza e della fede. Siamo noi a creare il groviglio, non viene dall’esterno. In un modo o nell’altro, tutti contribuiamo a ingarbugliarlo. Ma non sono tanto i nodi a preoccuparmi, quanto la nostra pretesa di scioglierli da soli usando la nostra stessa forza o abilità. A volte, quando il groviglio salta fuori, è già troppo ingarbugliato. Coloro che pretendono di sciogliere i nodi da soli non ci riescono, e contribuiscono solo ad aggrovigliarli di più. Oltre ai nodi, comincia a regnare una certa confusione nata dalle nostre pretese di autosufficienza; si ripete la torre di Babele (cfr. Gn 11,1-9) e nel cuore di ogni lingua diversa si annida già la guerra, e dietro ogni guerra l’assassinio cainesco del proprio fratello (cfr. Gn 4,5-10). E se proiettiamo la situazione attuale nel futuro e la lasciamo svilupparsi da sola, ci resta ancora un passo: l’autosufficienza dei giganti che si ergono a «superuomini», sostituendo i disegni di Dio con i propri (Gn 6,4-7.24). È il typos di tutte le pretese dell’uomo di assumere il ruolo di dominatore e sovrano, e di tutte le sue aspirazioni a diventare un superuomo. E poi, alla fine, il diluvio. Tutto ciò è figlio della vergine Eva, della sua disobbedienza e incredulità; e Maria, con la sua fede e la sua obbedienza, scioglie tutto questo. Siamo tutti responsabili di questo «groviglio», «tutti hanno peccato» in Adamo (Rm 5,12). È il momento in cui ci si affida al progetto personale, anziché a quello di Dio. Si tratta della curiosità insolente, dell’audacia indiscreta, proprie di ogni peccato.

«Fazioni»
4. Quando questo accade all’interno di un’istituzione, in un «corpo», parlando in termini sociopolitici, possiamo dire di trovarci in presenza di una lotta tra «fazioni». Nel caso della vita consacrata, delle tre frontiere che deve tenere d’occhio un consacrato – quella esterna (aggressività apostolica), quella interna (vita spirituale) e quella intermedia (sua appartenenza al corpo) –, è quest’ultima, in queste situazioni, a polarizzare l’attenzione e gli sforzi a spese delle altre due. Noi argentini siamo inclini a questa tentazione. Nella ex Iugoslavia si dice che «con due sloveni si fa un coro, con due croati un parlamento e con due serbi un esercito». In Argentina possiamo dire che con due argentini organizziamo subito una fazione. Noi argentini siamo molto politicizzati, ma ci manca la cultura politica, ed è questa la ragione per cui siamo così inclini alle «fazioni». Si può vedere infatti come anche i grandi movimenti popolari argentini cedano alla tentazione di ridursi alla politica del «comitato» o della «cellula base». Si perde la grandezza del servizio nella meschinità del proprio interesse. E queste «fazioni» entrano anche nella vita religiosa ed ecclesiastica: la fazione che ha origine nel peccato di Babele, nell’assassinio di Caino, nell’autosufficienza del progetto personale. Allora, invece di camminare si finisce per essere «raminghi» come Caino (Gn 4,12); ciò che si sarebbe potuto costruire viene incenerito da un fulmine (Gn 11,7-9); la pretesa di dominio infine affoga nel diluvio della propria sazietà (Gn 7,21). Le «fazioni» ecclesiali sono antiche quanto il Nuovo Testamento. La madre dei figli di Zebedeo fu protagonista di una di esse, e san Paolo per difendere l’unità delle Chiese dovette combattere con le unghie e con i denti contro chi preferiva le divisioni (1Cor 1,11-15; 3,3-15). L’attivista delle «fazioni» è, secondo san Giovanni, uno che pretende di andare al di là della comunità, uno che «va oltre» la comunità, con il suo progetto personale: è il proagón (2Gv 1,9). E la nascita di una nuova fazione alimenta quelli che verranno, i nuovi, a fare altrettanto, nutrendoli con il pane della discordia che corrompe, fin da giovani, il loro cuore.

«Ambizione»
5. Quando sant’Ignazio si pone il problema di come conservare il corpo apostolico della Compagnia, segnala due aspetti che lo minacciano e provocano divisione: l’ambizione e la mancanza di povertà. Per sant’Ignazio, l’ambizione è una fonte di mali nel corpo della Compagnia: «Per rendere duraturo il buono stato della Compagnia, sarà anche sommamente importante che se ne bandisca con gran diligenza l’ambizione, madre di tutti i mali in ogni comunità o congregazione, serrando la porta alla ricerca diretta o indiretta di qualsiasi dignità o prelatura dentro la Compagnia. Perciò, tutti i professi dovranno promettere a Dio nostro Signore di non sollecitarla mai e di denunciare quelli che vedessero farlo» (Cost. 817). A prima vista, l’ambizione è messa in relazione alla stima di sé: ottenere una prelatura per ricevere onori, essere considerati importanti, essere rispettati e onorati, avere possibilità e appoggi: insomma, un’infrastruttura della propria personalità religiosa.

6. Questa è una forma di ambizione e nasce molto spesso dalla poca stima (consapevole o inconsapevole) che si ha di se stessi. Anche l’allarme esistenziale di sapersi psicologicamente limitati o infermi può attivare il meccanismo dell’ambizione, quasi a riprova che si è in grado di fare cose grandi come quelle fatte da chi si considera sano. C’è poi il caso di coloro che, volendo entrare nella vita religiosa, cercano un «internamento di lusso» socialmente accettato: sentendosi malati, cercano una protezione forte nella Chiesa e optano per la vita clericale o religiosa «come promozione». Per questo, nel riconoscimento di una vocazione, si raccomanda l’aiuto tecnico come uno dei tanti elementi necessari.

7. Ma esiste un’altra forma più sottile di ambizione: si cerca la propria promozione, ma in maniera subdola. È il caso di chi predispone tutto in modo che si veda (e lui stesso così crede) che sta cercando la gloria di Dio, la promozione della Chiesa, ma lo fa sulla base di un precedente compromesso che nulla ha a che fare con tutto ciò, lo fa avendo scelto in precedenza il suo cammino: «Io ti servo, ma a modo mio». Allora l’autodonazione generosa che prevede l’«essere strumento», servo inutile, l’essere disposti a bere il calice del Signore si trasforma in af are: do ut des. È il secondo binario (Es. sp. 154). Domina poi un’ansia di interpretare da protagonisti l’opera di evangelizzazione, dimenticando che uno solo è il protagonista, Gesù Cristo. Impiegare le mie forze, le mie capacità al servizio del regno, seguire il suo appello (Es. sp. 95), ma a condizione che mi sia concesso scegliere i metodi, le vie, i propositi. Una redenzione «su misura per me». Anche qui c’è ambizione, perché si vuole imporre la propria impronta, dimostrare che la decisione di Dio passa attraverso il proprio progetto e il proprio potere. Questo «ambizioso» non sa fare il «Colloquio» (Es. sp. 98), non chiede di essere scelto, ma è lui a scegliere.

8. Gesù ha resistito a questa tentazione che gli presentava la possibilità di «fare la sua opera», a modo suo, come preferiva, slegandosi da ogni obbedienza al Padre in quanto al modo. E la proposta gli è stata presentata sottilmente: «Se tu sei Figlio di Dio» (Mt 4,3-6) mostrami che puoi farlo. La stessa tentazione apparirà più avanti nella vita di Gesù e di volta in volta gli chiederà un segno (Lc 11,29), e ormai verso la fine lo sfiderà a scendere dalla croce (Mt 27,39-40) o a rompere i sigilli del sepolcro (Mt 27,63-66). La risposta di Gesù a questa tentazione è illuminante. Non entra in dialogo teologico con il tentatore: nel deserto risponderà con la fedeltà alla memoria radicata nella storia del suo popolo (Mt 4,4-10); altre volte chiamerà «malvagia e adultera» la generazione che pretende dei segni (Mt 12,39), o parlerà in modo misterioso del «segno di Giona» (Lc 11,29-30). Alla fine, sulla croce tacerà (Mt 27,14). Poi, quando arriverà il momento, «l’ora», farà saltare i sigilli di ogni controllo umano con la forza della resurrezione. Gesù risponde con fede e obbedienza. Quando capiremo che stiamo «riducendo» la chiamata del Signore perché offriamo le nostre persone alla fatica (Es. sp. 97), imponendo condizioni, allora è il momento di cercare quale radice di ambizione esiste nel mio cuore, e di «andarvi contro» con «una offerta di maggior valore e di maggiore importanza» (ibid. e 98). Misteriosamente suggestiva è la rilettura, in apparenza anacronistica, che l’autore della Lettera agli Ebrei fa della scelta di Mosè: «Preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa» (Eb 11,25-26). La disposizione obbedienziale di Mosè accantona il suo progetto personale e segue quello di Dio.

La mancanza di povertà
9. C’è un’altra scelta che favorisce la discordia: la mancanza di povertà. Per sant’Ignazio la povertà è «madre» (curioso: non chiama madre la Compagnia) e «salda difesa» della vita religiosa: «Poiché la povertà è, per gli Ordini religiosi, come un baluardo, che li conserva nel loro stato, li disciplina e li difende da tanti nemici, il demonio si sforza con tutti i mezzi di abbatterlo. Perciò, sarà importante, per conservare e sviluppare tutto questo corpo, che si bandisca molto lontano ogni specie di avarizia» (Cost. 816). «La povertà, come salda difesa dell’Ordine, deve essere amata e conservata nella sua purezza, quanto è possibile con la grazia di Dio. E poiché il nemico della natura umana suol fare di tutto per indebolire questa difesa e riparo, che Dio nostro Signore ha ispirato agli Ordini religiosi contro di lui e contro gli altri nemici della loro perfezione, cambiando ciò che i primi fondatori avevano ordinato per bene, con dichiarazioni o innovazioni non conformi al loro spirito primitivo; … tutti quelli che faranno la professione in questa Compagnia devono promettere di non far nulla per cambiare, nelle Costituzioni, ciò che tocca la povertà, se non per renderla in qualche modo più stretta, secondo che le circostanze richiederanno nel Signore» (Cost. 553).

10. Abitualmente i «partiti» tendono a guadagnarsi adepti. Questo non vuol dire che lo facciano necessariamente in malafede: si può essere convinti di agire bene (e cedere alla tentazione sotto forma di bene). Eppure, in questa attitudine a far proseliti, c’è sempre qualcosa a cui si cede, proprio perché c’è qualcosa di molto vicino alla trattativa, che limita la libertà interiore. I segni più tipici del proselitismo (per esempio in una comunità religiosa) sono quelli che mirano a un progressivo ammorbidimento sulle questioni relative alla povertà, e anche quelli che vorrebbero trasformare la «festa del Signore», che ha sempre una dimensione escatologica, in una festicciola: è il ricorso al panem et circenses, che trova posto anche nella vita religiosa, nel male, ovviamente.
Diffidenza e attaccamento alla penombra

11. Esistono due atteggiamenti, che sono tentazioni, e che solitamente accompagnano l’ambizione e la mancanza di povertà nelle discordie e nella partigianeria: la dif idenza e un certo attaccamento alla penombra. Entrambi si sostengono a vicenda. La dif idenza è una vecchia conoscenza. Provoca nel cuore un certo prurito verso qualsiasi gesto dei miei fratelli che io non riesco a comprendere fino in fondo. Questo prurito aumenta d’intensità e si finisce per vivere come una minaccia tutto ciò che non si comprende o non si controlla. L’ansia di controllo diventa ossessiva perché nasce da dentro, dalla cattiva gestione dei propri limiti. Erode conobbe la diffidenza, e questa lo portò all’assassinio. Se gli interessava la verità sul Messia, era solo per controllarlo: il terrore ossessivo che qualcosa potesse sfuggire al suo controllo lo divorava: «Necas parvulos corpore, quia te necat timor in corde» (uccidi i bambini nel corpo, perché la paura nel cuore uccide te). Maria, fuggendo in Egitto con suo Figlio tra le braccia, è l’altra faccia di questa storia. Colui che è tentato dalla diffidenza è così geloso del suo ambito di controllo che non permette a nessuno di vivergli accanto. Vive assediato dai fantasmi creati dalla sua stessa ossessione, ne diventa schiavo. Non bisogna mai avvicinarsi a un uomo che dà segno di essere tentato dalla diffidenza, non bisogna fare alcun gesto minaccioso perché, nella sua furia, uccide ogni possibile germe di minaccia futura per mettersi al sicuro: nel caso di Erode, gli innocenti. Dobbiamo sempre tenere un «Egitto» a portata di mano – anche nel nostro cuore – per umiliarci e autoesiliarci di fronte all’eccesso di un diffidente. Chi è tentato dalla diffidenza non è come lo sfiduciato: quest’ultimo è piuttosto un uomo polverizzato, che ha perso la sua unità interiore («rovinato dall’insicurezza interiore» direbbe Guardini), che si sforza di «provare» sul suo metro di giudizio le situazioni e le persone, ma non si fida di nessuno, perché in definitiva non ha fiducia neppure in se stesso. Invece il diffidente possiede una fiducia in se stesso che sconfina nella megalomania, cresciuta per i molti o pochi successi che la sua condotta gli ha procurato.

12. Ma c’è una caratteristica che lo differenzia nettamente dallo sfiduciato: la sua adesione alla tenebra. Lo sfiduciato cerca una luce (almeno per potersi muovere); sa di essere debole, pieno di crepe, e cerca di sopravvivere prendendo la luce da chi di volta in volta gliela offre: in questo senso è venale. Il diffidente, invece, pecca contro la luce: si è innamorato del proprio atteggiamento che non vuole che le cose si chiariscano, perché la sua vita consiste nel confondere il trucco scenico con la realtà. C’è sempre, nel diffidente, una zona che oppone resistenza alla luce di Dio. Se questa luce potesse entrare, lui non potrebbe più sospettare. Maneggia le verità a metà, plasmando menzogne «vere». L’ambiguità è il suo campo d’azione e la impone agli altri come chiarezza: utilizza a questo scopo mille strumenti, per esempio un linguaggio in sintonia con le zone più deboli di ogni interlocutore. Sa tessere intrighi con le gelosie, le invidie, i risentimenti altrui per far accettare su queste basi la sua «verità». Diffidenza e attaccamento a una zona di tenebra nutrono l’uomo che ha optato per la parzialità delle «fazioni» sulla totalità del corpo dell’istituzione. Nella tipologia letteraria il diffidente è Otello: un personaggio «debole d’udito» che ha bisogno – e per di più è sempre inconsapevolmente alla ricerca – di uno Iago. Questo è il suo destino: finire dominato dalle ambizioni e dalle passioni di un altro, che gli ha portato via il tempo e fa di lui ciò che vuole.

«Trattativa»
13. Ho menzionato il ricorso alla «trattativa» come un modo per non accettare le modalità dei disegni di Dio. Una breve precisazione: generalmente la trattativa è un metodo utilizzato in politica, che è l’arte del possibile. Si decide dove si vuole arrivare e, trattando, si cerca di avanzare il più possibile in quella direzione. Si tratta, dunque, di un mezzo umano. Nella mente di sant’Ignazio è prevista la trattativa? Come mezzo umano direi di sì, ma in una maniera fondamentalmente diversa dalla mera trattativa politica. Tutt’al più sarà un’«attività» da tenere in conto in un contesto di storia di salvezza.

14. Come «mezzo umano» dovrebbe occupare il posto previsto da sant’Ignazio: «I mezzi che congiungono lo strumento con Dio e lo dispongono a lasciarsi guidare dalla sua mano divina sono più efficaci di quelli che lo dispongono verso gli uomini. Tali sono i mezzi di bontà e virtù, e specialmente la carità e l’intenzione pura del servizio divino e la familiarità con Dio nostro Signore negli esercizi spirituali di devozione, e lo zelo sincero delle anime, alieno dal cercare altro vantaggio se non la gloria di chi le ha create e redente. Pertanto, si ritiene che tutti insieme si debba aver cura che tutti quelli della Compagnia si diano alle solide e perfette virtù e alle cose spirituali, delle quali deve farsi più conto che delle lettere e degli altri doni naturali ed umani. Infatti, sono le doti interne che devono rendere efficaci quelle esterne in vista del fine che si persegue» (Cost. 813). «Una volta stabilito questo fondamento, i mezzi naturali, che dispongono verso il prossimo lo strumento di Dio nostro Signore, costituiranno universalmente un aiuto per la conservazione e lo sviluppo di tutto questo corpo, purché l’individuo li apprenda e li adoperi unicamente per il servizio di Dio, non per riporre in essi la propria fiducia, ma per collaborare con la grazia divina, secondo l’ordine della somma Provvidenza di Dio nostro Signore, che vuol essere glorificato per mezzo di ciò che egli dona come Creatore, e cioè la natura, e di ciò che dona come Autore della grazia, e cioè il soprannaturale» (Cost. 814). Ho detto che la «trattativa» è un’attività, un mezzo umano, ma possiede inoltre una connotazione particolare. Con la trattativa si entra nell’ottica del do ut des, che non è sempre possibile nell’ambito delle cose di Dio. Di più: considerandola freddamente, sembra proprio che la trattativa non possa rientrare nelle regole di sant’Ignazio. Ci sono cose sulle quali non si può trattare e ci sono cose sulle quali non si può cedere, o non si può cedere ora. E ci sono cose sulle quali si possono assumere atteggiamenti diversi secondo «i luoghi, i tempi e le persone». Allora, se il «fino a dove posso spingermi in questo caso» non può nascere da un calcolo meramente politico, da dove ricavo io la norma?

15. Sant’Ignazio sottomette i mezzi umani alla regola del «tanto quanto», che non è una regola astratta, ma implica una «vocazione» adesso, in questo momento, a scegliere. Il fatto che io debba adesso spingermi fin qua o fin là in una certa questione non è, in definitiva, un problema mio (come sarebbe nel caso della trattativa basata sull’assennatezza esclusivamente umana), ma un problema di «chiamata», di vocazione di Dio, di ciò che Dio nostro Signorevuole ora per me. Oltrepassa l’assennatezza umana ed entra nel campo della saggezza. La semplice trattativa umana è sempre, nella Compagnia, primo o secondo binario. Il calcolo del «fino a dove» devo spingermi me lo deve manifestare il Signore: non è in mio potere deciderlo da solo. Pertanto, quando si ha l’abitudine di procedere con assennatezza umana e per trattative, bisogna cercare quale «ducato» (Es. sp. 150) si sta conservando o perseguendo; e può anche essere che quel ducato dia inizio o contribuisca a una divisione in «fazioni». Quando si entra nella Compagnia, si rinuncia all’interesse personale, ma bisogna anche dimostrarlo nel corso di tutta la vita. Alle volte si rinuncia «in entrata», senza sapere bene di che cosa si tratta, ma quando l’interesse personale si fa carne propria, ecco l’occasione di rinunciare oppure optare per il compromesso. Se si rinuncia, si passa necessariamente attraverso il crogiolo della croce e l’abbandono alla divina volontà (sarà il segno che si cerca il bene di tutti sopra quello di una parte). Se si opta per il compromesso, si collabora, in buona o cattiva fede, alla politica delle «fazioni», delle partigianerie: si guadagneranno ducati di ambizione, di onori e di potere, ducati di ricchezza, ducati di adesione alla malattia della diffidenza e al terrore della luce. 13 Il solo ricorso alla trattativa va anche contro la pazienza, perché si muove in una logica di immediatezza che aiuta la crescita dell’autostima e perciò allontana dal modo di procedere con umiltà. Un Padre del II secolo contrappone addirittura la trattativa alla pietà.

Trionfalismo
16. Sant’Ignazio ci ha lasciato la saggezza del discernimento per riscattare la volontà di Dio in mezzo all’ambiguità della vita. A volte l’ambiguità si fa spessa, le decisioni da prendere ci mettono in croce. Basta leggere il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei per capire quanto fu faticoso il cammino nella fede per «tale moltitudine di testimoni» (12,1). E sembra che – seppure in mezzo a quelle tribolazioni – essi non persero mai la speranza e la gioia: di loro si dice che salutavano da lontano i beni promessi (Eb 11,13). Possiamo anche riflettere sullo sforzo fatto da Giuditta in occasione di una situazione molto difficile per il suo popolo (Gdt 8,9-27). Altrimenti, possiamo leggere nella Seconda lettera ai Corinzi (7,5) le tribolazioni di Paolo: «Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, il nostro corpo non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori all’interno». Su questo punto, può essere utile leggere l’esegesi di san Gregorio Magno. 15 Possiamo anche ricorrere agli Atti degli Apostoli per capire come i santi leggessero la volontà di Dio in mezzo alle ambiguità della vita, soprattutto in condizioni avverse (At 3,1-10; 4,1-31; 5,17-33. 40-42; 6,8-60; 8,26-40; 10,1-48; 12,1-19; 15,1-29; 16,16-40; 17,1-15, ecc.). O anche ricorrere all’interpretazione che lo stesso sant’Ignazio faceva delle difficoltà nella sua vita o in quella della Compagnia; o cercare, nelle lettere della tribolazione di padre Lorenzo Ricci o di padre Roothan, quale metodo utilizzassero per leggere la storia che stavano vivendo. In nessuno di questi casi appare l’uomo superficialmente gioioso, quel boyscoutismo spirituale che inebria, nell’entusiasmo irresponsabile, con un’interpretazione facilmente «preparata» della vita.

17. A tutti questi uomini costò fatica scoprire la volontà di Dio nelle diverse circostanze storiche, e specialmente nelle difficoltà. Una fatica che li allontanò non solo dalla superficialità cui facevo riferimento prima, ma anche dal pessimismo, dall’angoscia e dall’incoscienza. Anche nostra Signora accettò questa fatica, quando cominciò a vivere i misteriosi eventi a cui dovette rispondere con la fede. In questo caso, Giovanni Paolo II ha parlato di «unaparticolare fatica del cuore» (Redemptoris Mater 17). Il cuore si affatica in questo avanzare nel pellegrinaggio della fede. Si tratta della «notte della fede» (ibid.). Maria «è dunque beata, perché “ha creduto”, e crede ogni giorno tra tutte le prove e contrarietà del periodo dell’infanzia di Gesù e poi durante gli anni della vita nascosta a Nazareth» (ibid.). Saper leggere la storia a partire dalla fede, e viverla coerentemente, tutto questo affatica il cuore, ma non dimentichiamo che corde intelligetur.

18. La fatica del cuore è minacciata dalla mancanza di speranza, dal gesto onnipotente di anticipare il trionfo utilizzando altre vie più rapide, attraverso la scorciatoia della trattativa, di anticipare il trionfo senza passare per la croce. Quando si vuole leggere e vivere la storia in questo modo, allora si cade nel trionfalismo. Siamo contenti, stiamo bene. Siamo saliti sul carro della vittoria. Il Deuteronomio ci mette in guardia dal trionfalismo e lo considera una mancanza di memoria e di gratitudine (Dt 6,10-12; 8,11-17).

19. Il trionfalismo si nutre di successi parziali e di parole capaci di spiegarli: come nella storia di Dio, con azioni e con parole, ma con la differenza che esse non sono passate attraverso il crogiolo della croce né attraverso la visione della fede. Il trionfalismo, nei suoi risultati e nelle sue parole, ha bisogno di confrontarsi con cose peggiori, guarda indietro (ma non per ricordare), chiama uomini «che cedono» (Eb 10, 39). Il fariseo in piedi davanti a Dio è l’immagine del trionfalista: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini … e neppure come questo pubblicano» (Lc 18,9-14). Il trionfalista non conosce quella particolare fatica del cuore: la notte della fede di nostra Signora. In questo confronto entrano gli altri, e allora si nutre di «storie» altrui, di chiacchiere; vive delle fatiche altrui, assapora i difetti e i fallimenti altrui, è come la iena che mangia le carogne. E i farisei erano delle iene.

20. I trionfalisti sono anche fondamentalmente statistici: adorano il progresso (almeno in apparenza), la tecnicizzazione dello spirito, la «cocacolizzazione» della vita religiosa. Ma nel profondo sono uomini che sfuggono la croce, che difendono i limiti della loro piccolezza. Sono contraddittori, perché hanno bisogno di proclamare il loro trionfo considerando fatti secondari o confrontandosi con persone mediocri, senza rendersi conto che, seguendo questa strada, disdegnano la chiamata superiore della fede e difendono la loro stessa meschinità. Sono campioni della sconfitta. Un trionfalista si riconosce dal «tono» dei suoi commenti, come il fariseo della parabola. Analogamente, corre i pericoli di chi, come scrive sant’Ignazio, «giura su una creatura» (Es. sp. 39): al tavolo del trionfalismo «non si è così attenti e cauti nel dire la verità o nel confermarla per necessità» (ibid.), e se mancano onore e rispetto per il Creatore si può cadere nell’idolatria.

21. Il trionfalismo è stato distrutto nel cuore affaticato di nostra Signora ai piedi della croce. Lì ricordava le parole che aveva ascoltato: «Sarà grande … il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33). Ed ecco che, vicino alla croce, Maria è testimone, umanamente parlando, di una completa smentita di queste parole. Suo Figlio agonizza su quel pezzo di legno come un condannato. Quanto grande, quanto eroica è stata in quei momenti l’obbedienza della fede dimostrata da Maria di fronte agli «insondabili disegni di Dio»! Come si abbandona a Dio senza riserve, omaggiando con intendimento e volontà Colui le cui vie sono inaccessibili (cfr. Rm 11,33)! E allo stesso tempo «quanto potente è l’azione della grazia nella sua anima, come penetrante è l’influsso dello Spirito Santo, della sua luce e della sua virtù! Mediante questa fede Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua spoliazione» (Redemptoris Mater 18).

22. Esiste poi una forma sottile di trionfalismo: la mondanità spirituale. Secondo de Lubac, essa costituisce il «pericolo più grande, la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste stesse vittorie». E la definisce così: «Un atteggiamento che si presenta praticamente come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale, nonché spirituale, non è la gloria del Signore bensì l’uomo e la sua perfezione. Un atteggiamento radicalmente antropocentrico: ecco la mondanità dello spirito. Esso diverrebbe imperdonabile nel caso – supponiamolo possibile – di un uomo che sia dotato di tutte le perfezioni spirituali, ma che non le riferisca a Dio. Se questa mondanità spirituale dovesse invadere la Chiesa e lavorare a corromperla intaccando il suo principio stesso, sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale. Peggio ancora di quella lebbra infame che, in certi momenti della storia, sfigurò così crudelmente la Sposa diletta, quando la religione pareva introdurre lo scandalo nel santuario stesso e, rappresentata da un papa indegno, nascondeva sotto pietre preziose, sotto belletti ed orpelli il volto di Gesù. … Un umanesimo sottile, avversario del Dio Vivente, e sotto sotto non meno nemico dell’uomo, può insinuarsi in noi attraverso mille vie tortuose». Il trionfalista può vivere con il cuore sprofondato nella sua mondanità spirituale, tradirà lo Spirito di Cristo, ma il trionfo non è lì: quella è solo una caricatura del trionfo. Il trionfo risiede nel cuore affaticato dopo una camminata in tutta fretta (Lc 1,39), che – per quella fatica del cuore – intona il più bell’inno di lode a Dio. «Nessun nostro tradimento può consegnare al nemico la Città che il Signore stesso custodisce. Il Magnificat non è stato detto una sola volta nel giardino di Ebron: è stato messo per tutti i secoli sulle labbra della Chiesa, dove conserva tutta la sua forza. Di età in età la Chiesa, come la Vergine Maria, magnifica il Signore, portando nelle nostre tenebre la luce della Divinità.»

Tentazione «sub angelo lucis»
23. Quando si manifesta una tentazione sub angelo lucis, non bisogna dimenticare che chi agisce sotto il suo influsso lo fa sotto forma di bene, cercando ciò che egli crede essere un bene. Ha piena chiarezza su questo bene, ma è una chiarezza molto sui generis: è forte, si impone per la sua stessa luce, tanto che difficilmente essa può aumentare. Tale stato dell’anima fa sì che ogni luce nuova dello spirito buono si perda in quella «luminosità» di colui che è tentato sotto forma di bene. Ecco perché difficilmente la via di «chiarire» le cose può essere d’aiuto. Più che sulla «luce», bisogna puntare sul «tempo». Mi spiego: la luce del Demonio è forte, però dura poco (come il flash di una macchina fotografica), mentre la luce di Dio è mite, umile, non si impone ma si offre, e dura molto. Bisogna saper aspettare, pregando e chiedendo l’intervento dello Spirito Santo, affinché passi il tempo di quella luce così forte.

24. Eppure esiste anche un altro aspetto. Il Demonio, quando tenta sotto forma di bene, fa in modo che ciò che propone con la sua luce forte sia accettato da chi viene tentato. Se ottiene questo, la cosa si fa più difficile, perché, quando svanisce la luce accecante della tentazione, l’uomo si ritrova «intrappolato» in quella «verità» che «ha visto chiaramente» quando veniva tentato; ossia quella «verità» proposta dal Demonio e accettata dall’uomo si trasforma in secondo binario. E quando ci si trova su un secondo binario, è difficile uscirne. Non ci è riuscito neppure Gesù con il giovane ricco. Che cosa fare dunque nei due casi, durante l’accecamento della tentazione sotto forma di bene, e dopo, quando vediamo che chi è tentato ha aderito alla proposta della tentazione e, rispetto a quello, si trova su un secondo binario? Come essere d’aiuto in tali circostanze?

La manifestazione dello spirito malvagio
25. In entrambi i casi bisogna fare in modo che si manifesti lo spirito malvagio. E questo lo può fare solo il potere di Gesù, di colui che riuscì a confondere il principe delle tenebre e venne in questo mondo «per un giudizio … perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39). 18 «Fare posto» affinché Gesù possa, in questa occasione concreta, realizzare il suo giudizio. «Fare posto» alla luce di Dio. Esiste un solo modo per «fare posto» a Dio, e questo modo ce l’ha insegnato Lui stesso: l’umiliazione, la kénosis (Fil 2,5-11). Tacere, pregare, umiliarsi. Esistono molti modi per elogiarsi, ma solo uno per umiliarsi. Qui non c’è spazio per la «trattativa», con la croce non si può trattare: o la si abbraccia o la si respinge. L’atteggiamento di umiltà e di umiliazione, il «terzo modo di umiltà» (Es. sp. 167; Cost. 101), non è piacevole. Lo sappiamo tutti, e per questo sant’Ignazio mette come condizione, perlomeno, il «desiderio di tali desideri» (Cost. 102). Tuttavia, oltre a conformarsi a Cristo nella croce (Fil 3,10), e a completare «nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24), questa kénosis possiede anche un’altra dimensione.

L’accanimento
26. «Dell’albero caduto tutti fanno legna.» Il detto si riferisce precisamente a un atteggiamento criminale degli uomini. Esiste una crudeltà primordiale, insita nelle nostre viscere, che è ribellione contro Dio, e che scatta quando appare una debolezza di qualcuno che ci minaccia. Geremia la denuncia chiaramente: «E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me, e dicevano: “Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi; nessuno ricordi più il suo nome”» (Ger 11,19). I «canti del servo sofferente» (Is 53,1 sgg.) descrivono tale crudeltà che si è compiuta nella Passione di Cristo. Su questo punto voglio fare un paio di osservazioni. Primo: la gente si accanisce contro chi considera più debole; contro Gesù non si azzardavano a far nulla per paura del popolo (Mt 26,5): lo vedevano forte perché tutti lo seguivano e molti credevano in Lui (Gv 7,40-52; 10,42; 8,30). Solo quando è «indebolito» dal tradimento di uno dei suoi (Mt 26,14-16) riescono a farsi avanti. Secondo: alla radice di ogni crudeltà c’è una necessità di scaricare le proprie colpe e i propri limiti. Gesù era un rimprovero vivente. Per questo si ripete il meccanismo del capro espiatorio (cfr. Lv 16,20-22): tutti i mali sono concentrati nella persona verso cui ci accaniamo. Esistono anche uomini che si accorgono di questo meccanismo, ma lasciano fare. Ponzio Pilato si rende conto che «glielo avevano consegnato per invidia» (Mt 27,18) e, nonostante ciò, va a ingrossare le file dei testimoni silenziosi, complici con il loro silenzio.

27. Quando a qualcuno viene concessa la grazia richiesta negli Esercizi, «sopportando umiliazioni e insulti, per meglio imitarlo in questi» (Es. sp. 147), e questi si lascia mettere sulla croce con Gesù, oltre alla «protesta» più che naturale, può succedere che cada – ruminando il solito «non è giusto!» – in una sorta di vittimismo spirituale, e allora avrà la sensazione di imitare il Signore, e avrà compassione di sé: ma qui non c’è amore e si tratta sicuramente di un sottile passo verso la superbia, e uno dei peggiori, per giunta. Avere la costanza di non scendere dalla croce è una grazia concessa gratuitamente che si nutre dell’umile preghiera (perché uno sa di essere fragile), del reale (e perciò umile) riconoscimento che ci si trova lì perché lo si merita (Lc 23,40-41) e della contemplazione che Lui ci si trovò pur essendo innocente (Lc 23,41-42), e «tutto questo per me» (Es. sp. 116). Solo così non c’è rischio di cadere nel morboso autocompiacimento dell’essere crocifisso in qualche tribolazione.

28. Ritorniamo sull’accanimento. Via via che Cristo in croce si va indebolendo (i discepoli fuggono, Pietro lo rinnega, la gente lo lascia solo, si constata che non ha alcun potere di scendere dalla croce), il Demonio si fa più baldanzoso e diventa potente: «È l’ora vostra e il potere delle tenebre» (Lc 22,53). Il Demonio si mostra sfacciatamente, si sente vincitore. La «carne» di Gesù è un amo con l’esca, una trappola – dice un Santo Padre – e il Demonio, accanendosi, viene travolto dalla sua stessa vittoria e finisce per abboccare: è allora che ingoia l’amo e il veleno che lo uccide. L’immagine riflette la realtà della strategia di Gesù. Lui mantenne sempre il segreto messianico. Il Demonio era intrigato da quella personalità, temeva fosse Dio. Cerca di scoprirlo nel deserto e lì resta disorientato dalla risposta di Gesù, e allora «si allontanò da lui fino al momento fissato» (Lc 4,13). Istiga i «demoni scacciati» dei malati a fare l’«atto di fede» secondo cui Gesù è il Figlio dell’Altissimo (Mt 8,31; Mc 1,34; 3,11-12), ma Gesù li fa tacere. Servendosi dei farisei e dei sadducei, cerca di porgli domande trabocchetto per vedere se, rispondendo con particolare saggezza, si rivela come Messia. Un chiaro esempio è l’episodio della sinagoga di Nazareth, quando scoppia il grande scandalo e vogliono gettare Gesù giù dal precipizio (Lc 4,16-30). Gesù lo obbliga a «mostrarsi», lo «lascia venire». In momenti di oscurità e grande tribolazione, quando i «grovigli» e i «nodi» non si possono sciogliere, e neppure le cose chiarirsi, allora bisogna tacere: la mansuetudine del silenzio ci mostrerà ancora più deboli, e allora sarà lo stesso Demonio che, facendosi baldanzoso, si manifesterà in piena luce, mostrerà le sue reali intenzioni, non più camuffato da angelo della luce, ma in modo palese. Bisogna resistergli in silenzio, «restare saldi» (Ef 6,13), ma con lo stesso atteggiamento di Gesù.

Guerra di Dio
29. Tutto ciò porta a un’altra riflessione. In quei momenti si manifesta anche la dimensione della guerra, in cui appare chiaro chi sono i veri protagonisti. Una volta un religioso, riferendosi a una situazione concreta particolarmente difficile, ha detto: «Mi sono reso conto che questa era una guerra tra Dio e il Diavolo. E se noi uomini imbracciamo le armi siamo destinati alla distruzione». Nei momenti di tribolazione il nostro cuore si agita, «come si agitano gli alberi della foresta per il vento» (Is 7,2), e abbiamo voglia di tuffarci nella mischia, di far fronte al nemico senza curarci di misurare le forze (Lc 14,28-32). 22 E il Signore risponde: «Fa’ attenzione e sta’ tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumanti … Ma se non crederete, non resterete saldi» (Is 7,4-9), perché «la guerra non riguarda voi, ma Dio» (2Cr 20,15). In certe occasioni, il Signore vuole dimostrare che è Lui il protagonista della guerra: è un diritto che rivendica per sé, è la sua guerra. Questo dovette sentire Mosè sulla riva del mare, quando si ritrovò inseguito dall’esercito del faraone e incompreso dal suo popolo, che gli rimproverava la temerarietà della fuga (Es 14,10 sgg.). La sua risposta afferma che la guerra è di Dio: «Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore, il quale oggi agirà per voi; perché gli egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli» (Es 14,13-14). Questa volta Mosè ha sentito bene; fu castigato invece in seguito, quando volle intromettersi, con i suoi mezzi umani, in un conflitto che riguardava Dio (Nm 20,11-12). Lo stesso accadde a Davide, quando voleva misurare la stabilità sua e del suo popolo ricorrendo al censimento, anziché a chi garantiva l’esistenza di Israele (cfr. 2Sam 24). E alla moglie di Lot, che volle mettere il naso in una questione che Dio aveva voluto tenere per sé (Gn 19,17-26). Anche Gesù deve tagliare corto quando gli apostoli gli propongono di resistere porgendogli le due spade: risponde semplicemente «Basta!» (Lc 22,38).
30. Finisce sempre male quando ci si intromette in una guerra di Dio. Nel silenzio di una situazione di croce, ci viene chiesto solamente di proteggere il grano, non di strappare tutte le piantine di zizzania (Mt 13,28-30). Sul soffitto della Cappella Domestica della residenza della Compagnia a Cordoba è dipinta un’immagine. I fratelli novizi sono raffigurati sotto il mantello di Maria, ben protetti; e sotto c’è scritto: MONSTRA TE ESSE MATREM(mostra di essere madre). Nei momenti di turbolenza spirituale, quando Dio vuole fare guerra, il nostro posto è sotto il mantello della santa madre di Dio. Questo lo comprese bene già l’antica spiritualità russa, quando consigliava, in tali circostanze, di ripararsi sotto il Pokrov Presviatoi Bogoroditsy (il mantello della santissima madre di Dio). Invocheremo la madre; rivolgeremo a Gesù le parole di quella donna del Vangelo: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!» (Lc 11,27), e Maria accorrerà, perché «si direbbe che le parole di quella donna sconosciuta l’abbiano fatta in qualche modo uscire dal suo nascondimento» (Redemptoris Mater 20).

Divisione-inimicizia-elezione
31. Riprendiamo la tentazione delle «fazioni». San Paolo avverte il discepolo: «Evita invece le questioni sciocche, le genealogie, le risse e le polemiche intorno alla Legge, perché sono inutili e vane. Dopo un primo o un secondo ammonimento sta’ lontano da chi è fazioso» (Tt 3,9-11). Non bisogna entrare nelle «fazioni»: vi campeggia infatti l’inimicizia, che guida ogni singola decisione. Qualunque scusa è buona per creare inimicizie e rancori (si pensi alla protesta degli operai inviati alla vigna: Mt 20,12). La capacità di farci nemici è un «diritto personale» che esercitiamo al di sopra del diritto di Dio, il diritto all’elezione. E in ogni fazione prevale sempre l’inimicizia sull’elezione. Non si tratta di porre la questione in termini di «buoni e cattivi»: ci si dimentica facilmente che sulla croce, accanto all’unico Giusto, c’era anche un ingiusto che fu salvato nell’undicesima ora (Lc 23,42- 43). L’atto di salvezza consiste nel proclamare l’elezione che Dio ha fatto di noi in Cristo, e nel proclamarla al di sopra di qualsiasi tipo d’inimicizia. Ovviamente questa è una decisione del cuore, che implica la croce e la capacità di non negoziare ciò che non è negoziabile. Proclamare l’elezione di Dio al di sopra dell’inimicizia non è facile come «giocare al dottore» o «agli innamorati».
32. Ci viene in soccorso la santa madre di Dio, che «viene collocata al centro stesso di quella inimicizia, di quella lotta che accompagna la storia dell’umanità sulla terra e la storia stessa della salvezza … Maria rimane così davanti a Dio, e anche davanti a tutta l’umanità, come il segno immutabile e inviolabile dell’elezione da parte di Dio … Questa elezione è più potente di ogni esperienza del male e del peccato, di tutta quella “inimicizia”, da cui è segnata la storia dell’uomo. In questa storia Maria rimane un segno di sicura speranza» (Redemptoris Mater 11). In circostanze di inimicizia, di tribolazione, di guerra, di croce, dobbiamo riaffermare la presenza materna della Chiesa nella figura di Maria dopo l’ascensione del Signore. Accanto a lei si accalcano gli apostoli, pigiati come sardine, nella speranza che Dio si manifesti.
33. E mentre aspettiamo che il Signore arrivi a placare la tempesta (Mc 4,39-40), dobbiamo porre a noi stessi e agli altri domande che implichino una richiesta di speranza, anziché di certezze. Dobbiamo dare a noi stessi, e agli altri con la nostra condotta, «ragione della speranza» (1Pt 3,15). Questo ci aiuterà a vivere nella santa tensione tra memoria crucis e spes resurrectionis. Allora potremo cantare con il salmista: «Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia» (Sal 66,20).

Tratto da Il Cattolico di Padre Pietro Messa