
Le Lettere di Davide Vairani – Maria conserva nel cuore
La tentazione di dividere tutto fa parte dell’uomo. E’ un’esigenza della ragione esercitare il principio di identità e non contraddizione, per il quale “questo è questo e non altro”. La capacità analitica è parte indispensabile del processo di conoscenza del mondo. Il principio che governa la nostra ragione è la disgiunzione, che vieta che una cosa sia “questo e anche altro”. Una mela è una mela e non può essere altro. Essa è tuttavia “tentatrice”. Mostrando all’uomo il suo potere di possedere le cose dandole un nome (“una cosa è questa e non quell’altra”), ci porta a dividere tutto. Tutto allora nella quotidianità diventa ai nostri occhi Bene o Male, Giusto o Sbagliato, Bianco o Nero. Sempre per effetto della diabolica tendenza a dividere, siamo portati a scegliere uno dei due aspetti. Preferibilmente il primo (il Bene, il Giusto, il Bianco), perché questo ci permette di avere qualcuno/qualcosa da incolpare. E’ deresponsabilizzante puntare il dito, perché in fondo questo ci riappacifica con noi stessi, la “colpa non è nostra”. Eppure quando ci guardiamo allo specchio non sfuggiamo nemmeno noi alla tentazione di dividere. Non siamo mai quello che vorremmo essere o siamo quello che non vorremmo mai essere. Ci scopriamo divisi tra essere e non essere, in una continua ed estenuante lotta interiore che non porta altro che rancore, rabbia, paura. Desideriamo con tutto noi stessi “liberarci” da ciò che ci divide dentro e cerchiamo allora di sconfiggere, eliminare, uccidere quella parte di noi che ci divide. Accettarsi così come si è, accettare che la realtà sia un miscuglio di gradazioni di bianco e nero è l’adagio con il quale cerchiamo di darci una risposta per riappacificarci con noi stessi e con il mondo. Il che è indubbiamente vero. Ma basta per spiegarci davvero di che pasta siamo fatti, di che pasta è fatto il mondo? L’uomo può essere diviso o integro, diabolico o simbolico. Il Diavolo è colui che divide. Il lemma ci giunge attraverso il latino Diabolus, dal greco Diabolos, a sua volta da Dia-ballein – dividere – per ricongiungersi col significato di Colui che divide. Parte complementare a dia-ballein è synballein, il simbolo, la sintesi o meglio, l’Unione. Unione con l’Uno, con tutto ciò che è. Vi ricordate di questo verbo greco synballein?
“Maria conservava queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19): hé dé Marìa pànta synethèrei ta rhémata symballousa èn thé kardìa authés. “E Maria sua Madre conservava queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). La Vergine Maria, la “Symballousa”, la Donna Simbolica, colei che custodisce le cose/parole meditandole nel suo cuore. La salvezza è nel simbolo, in ciò che collega e mette insieme. Altrimenti si finisce vittime della logica del “diabolos”, colui che divide e perciò stesso tormenta e opprime. “Simbolo” proviene dal verbo greco symbállein, che nella nostra lingua vuol dire ‘conglobare, affastellare, riunire assieme’. C’era un’antica usanza, che ne formava il retroscena: due parti componibili d’un anello, d’un bastone o d’una tavoletta, fungevano da segno di riconoscimento per gli ospiti, per i messaggeri, per i contraenti. Il possesso del pezzo integrativo autorizzava a ricevere una data cosa o semplicemente ad ottenere ospitalità. Il ‘simbolo’ è quindi il pezzo che indica l’integrazione in un altro, creando così un’unità e un mutuo segno di riconoscimento. E’ pertanto espressione e agevolazione dell’unità. Lontano da me fare sfoggio di erudizione. I (pochi) rudimenti di greco che mi rimangono dal liceo classico e qualche riminescenza degli studi in filosofia all’università mi aiutano semplicemente a scavare a fondo e andare all’origine, alle parole che trasmettono i significati primari.
Il simbolo non esaurisce la sua funzione nel semplice rimando evocativo del linguaggio (la sintesi tra le parti). Il simbolo – pur essendo caratterizzato dalla struttura del rimando – non esaurisce il proprio significato in ciò a cui rinvia, ma possiede esso stesso un significato in sé. Il simbolo è una figura dal senso duplice che, attraverso un significato primo, rinvia a un senso secondo non contenuto nel significato primo. Il ‘simbolo’ è quindi il pezzo che indica l’integrazione in un altro, creando così un’unità e un mutuo segno di riconoscimento. E’ pertanto espressione e agevolazione dell’unità. La Chiesa rivive l’esempio di Maria, facendo memoria incessante di quanto disse e fece il suo Signore. L’apostolo Paolo lasciava questa consegna al discepolo Timoteo: “Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo . . . Custodisci il buon deposito, con l’aiuto dello Spirito che abita in noi” (2 Tm 2, 8; 1, 14). La salvezza dell’uomo è nel simbolo che fa memoria di quel fatto, di quell’Avvenimento che è l’Unità, la sintesi perduta. Solo in Cristo tutto è riassunto in Unità e solo in Cristo si ha la certezza di non cadere vittima del dia-ballein, della tentazione di dividere. Siamo impastati di divino: questa è la realtà dentro e fuori di noi. Maria proprio perché è fatta di infinito poteva conservare ciò che vedeva (Cristo Gesù) meditando tutto nel suo cuore. In una “grammatica” del linguaggio della fede, i simboli, (dogmi), i sacramenti, sono forze obbliganti di questa lingua-grammatica. In termini ancor più semplici, i dogmi sono l’equivalente dei chiodi piantati nella roccia “obbliganti” per salire. Sono il mezzo per fare memoria, sono il link che rimanda alla pienezza dell’Unità nella Persona di Cristo vivente. Pensiamo a tutte le volte che recitiamo il “Credo” durante la Santa Messa. Nella designazione della professione di fede come simbolo si ha al contempo una profonda spiegazione della sua vera natura. In effetti, è proprio questo il senso primordiale delle formulazioni dogmatiche nella Chiesa: agevolare l’unanime riconoscimento di Dio, facilitare l’adorazione comune. Nella sua qualità di simbolo, la professione di fede ora richiama l’altro, addita l’unione degli spiriti nell’unica parola… Risulta evidente che ogni uomo ha tra le mani la fede solo come symbolon, come pezzo imperfetto e monco, suscettibile di ritrovare la sua unità e integrità soltanto nella sua giustapposizione con gli altri. Solo nel symbállein infatti, nella reinserzione con gli altri, può verificarsi anche il symbállein inteso nella sua seconda accezione, vale a dire il reinserimento su Dio. La fede anela all’unità, richiama il compagno di credenza: dice insomma per sua natura relazione alla Chiesa. La Chiesa quindi non è affatto un’organizzazione secondaria di idee, un’entità per esse disagevole, che quindi nel migliore dei casi rappresenterebbe soltanto un male necessario. La Chiesa rientra invece come componente necessaria in una fede il cui vero senso è un perfetto amalgama composto di professione e adorazione comune. Questa constatazione poi indica ovviamente a sua volta un altro fatto. Anche la Chiesa vista nel suo complesso ha in mano la fede sempre come symbolon, quindi solo come spezzone tronco a metà, che soltanto additando perennemente qualcosa che sta sopra di sé, qualcosa quindi di totalmente diverso, ci presenta la Verità. Unicamente attraverso l’infinita frammentarietà del Simbolo, la fede, come perenne superamento di sé intrapreso dall’uomo riesce a giungere sino a Dio.
Maria, Madre di Cristo e della Chiesa oggi insegna anche a noi come essere saggi, come acquisire la sapienza di Dio: a quanti dicono che oggi Dio non parla, Maria ricorda che Dio parla a noi tramite gli eventi quotidiani e tramite quanto egli permette che accada a noi, ogni giorno, in bene e in male! Maria ci insegna a riflettere sugli avvenimenti della nostra vita quotidiana per scoprire in essi Dio che si rivela nella nostra storia. Come Maria, davanti a quello che ci accade, siamo chiamati non ad opporre il rifiuto dell’incredulità ma l’accoglienza della fede: anzi, Maria ci ricorda che la comprensione della Parola non è un fatto automatico, magico, ma è il frutto di un cammino lento e paziente, un cammino silenzioso, un cammino anticonformista, un cammino che non puoi fare da solo, ma dentro una compagnia che è la Chiesa. Un cammino che consenta l’opera del raccogliere, conservare, custodire le parole, i fatti, gli avvenimenti, per non dimenticare, per non disperdere le parole, ma anzi per tenerle insieme, raccoglierle e mantenerle come un tesoro caro. E da qui il difficile compito del meditare: cioè il mettere insieme i fatti, confrontarli, verificarli, coglierne le implicazioni per la vita.
Solo così, come a Maria, la “Symballousa”, si potrà rivelare a noi la sapienza di Dio, che è la sapienza del Magnificat, ma è anche la sapienza della Croce, come Maria apprenderà a sue spese: “E a te una spada trapasserà il cuore”. E’ dunque una sapienza che agli occhi degli uomini, come dirà san Paolo, è considerata stoltezza, follia! Poiché la sapienza di Dio altro non è che il Figlio stesso: Cristo è la sapienza di Dio.
E noi , come Maria, per essere saggi, dobbiamo imparare a Christum sapere. Dobbiamo imparare Cristo- sapienza, vivere nella sua sapienza, della sua sapienza, che è la sapienza del Vangelo e della Croce.
E per farlo guardiamo a Maria: Maria Sedes sapientiae, ora pro nobis.
Sono nato il 16 maggio del 1971 a Soresina, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Grazia. Laureato per accidenti in filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con don Luigi Giussani che mi ha educato a vivere. Ho collaborato con “La Croce”, quotidiano digitale diretto da Mario Adinolfi. Vi invito a seguirmi su Facebook e su web al mio Blog “Direzioneversoest”