Blog / Davide Vairani | 10 Novembre 2017

Le Lettere di Davide Vairani – Santificare il lavoro? Ma dai!

Santificare il lavoro. Santificarsi nel lavoro. Santificare gli altri con il lavoro. (San Josemaría Escrivá, Colloqui, n. 55; Cfr. È Gesù che passa, nn. 45, 122.)

Sono giorni che sto come inchiodato a questa frase del Fondatore dell’Opus Dei. Mi torna e ritorna nella testa con una frequenza insistente e persino molesta. Posso confessare che mi urta, come il trapano incessante del dentista su un molare scoperto?

Ogni giorno ti alzi e quasi non saluti. Esci di casa con addosso un misto di triste incertezza e angoscia. Quella scatola che si chiama “luogo di lavoro” ti attende inesorabile con il carico quotidiano di frustrazioni da scaricarti addosso. L’unica variabile che ti resta è attendere che la fine della giornata dopo sia meno gravida di inc….ture della precedente. Ti tocca invocare ogni inesorabile giorno il nume protettore dei fantozziani perché ti mandi in grazia di potere uscire da quel maledetto portone e tornare a casa il meno ammaccato possibile. Quando va bene, riesci a lasciarti scivolare lungo lo scorrere della settimana per arrivare al fatidico 27 del mese e vedere sul tuo conto corrente l’accredito dello stipendio. Il salario, la “giusta mercede”. Che poi sull’aggettivo “giusta” potremmo disquisire a lungo. E ti tocca anche chiamarti fortunato (paradossale) perché il lavoro ce l’hai e ce l’hai a tempo indeterminato e quando incontri l’amico Mario in cassa integrazione a 52 anni e l’amico Giorgio disoccupato a 34 anni con due lauree sulle spalle ti vergogni pure a chiedere loro “come va?”.

Santificare il lavoro? Ma dai! Santificarsi nel lavoro? Pure! Non è sufficiente (anzi è già troppo!) che a fine giornata mi sopravviva sul viso un sorriso a mezza bocca, dopo settimane, mesi e anni passati sempre così? Lasciamo perdere poi il santificare gli altri con il lavoro! Il lavoro è un campo di guerra nel quale sopravvive chi più sa difendersi e tutelarsi, pensare a sé e inventarsi ogni minuto la scappatoia giusta per evitare le balzane e surreali pretese del superiore vice comandante ingegnere capo cavaliere dottore vattelapesca!

Insomma – per farla breve – una frase che mi suona come una bestemmia. Mi urta, perché mi costringe a fare i conti con me stesso.

E’ possibile vivere così? E’ possibile pensare che tre quarti della mia vita passi in questo modo? Il cuore mi urla “no!”, il mio io non ne esce. Cambiare lavoro? Possibile quanto incerto. E poi il problema non è il lavoro, il tipo di occupazione, il luogo di lavoro, i colleghi, quei colleghi, quel posto di lavoro. Il problema  – questo mi è chiaro – è più profondo e riguarda me. Anche se non so “perché”, non so “cosa”, non so. Perché non ci riesco? “Perfino dalle pietre più aride e imprevedibili sono sgorgati torrenti medicinali. Il lavoro umano ben terminato è diventato collirio per scoprire Dio in tutte le circostanze della vita, in tutte le cose. Ed è accaduto proprio nel nostro tempo, mentre il materialismo cerca di trasformare il lavoro in un fango che acceca gli uomini e impedisce loro di vedere Dio” – San Josemaría Escrivá, Lettera pastorale , 30-IX-1975, n. 20. Il trapano del dentista adesso urla da impazzire, fa un male cane: il lavoro umano ben terminato è diventato collirio per scoprire Dio in tutte le circostanze della vita. Sono in cammino, ma da troppo tempo mi sento come il “fico sterile” della parabola di Gesù.“Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai” (Lc 13, 6-9). A chi stare di fronte in un rapporto di lavoro o in una relazione affettiva senza essere sterili? Qualcuno direbbe: stiamo di fronte al Mistero. Ma la stessa parola “Mistero” è astratta, non significa nulla se non quello che noi abbiamo già deciso essere il Mistero. E’ vero: occorre stare di fronte al Mistero, ma occorre capire che carne abbia questo Mistero. E allora, direbbero altri, “stiamo di fronte all’altro, al tu dell’altro”. Anche questo è vero: abbiamo bisogno di stare gli uni di fronte agli altri. Ma l’altro, a volte, è pretesa, è capriccio, è ostinazione. Non lo vogliamo ammettere, ma in ogni “tu” noi sappiamo che c’è qualcosa che non va, che non torna. E quindi stare di fronte all’altro vorrebbe, in definitiva, significare “stare di fronte a quello che io credo già di sapere o di conoscere dell’altro”. Ma imparare a stare di fronte ad un “tu” significa anzitutto imparare a stare di fronte a sé, al desiderio che abbiamo dentro e che ci definisce in quanto uomini. Tutti desideriamo essere felici, lavorare per trasformare la realtà e ottenere, mediante il denaro, una caparra di quella promessa che la vita ci ha fatto. Occorre – però – che accada qualcosa per cui diventi più importante la propria umanità, il proprio cuore, rispetto a tutto il resto. Occorre che accada davvero qualcosa che curi, zappi e concimi la terra, che mi dia un’altra chance prima di essere sradicato perché non porto frutti e sfrutto il terreno. Qualcosa che mi insegni a trasformare la prosa quotidiana — le situazioni più comuni — in versi di un poema eroico: in desideri e realtà di santità. Ma – davvero – è possibile tutto questo?

Sono nato il 16 magg­io del 1971 a Soresi­na, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Graz­ia. Laureato per accide­nti in filosofia all­’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con d­on Luigi Giussani che mi ha educato a vi­vere. Ho collaborato con “La Croce”, quotidiano di­gitale diretto da Ma­rio Adinolfi. Vi invito a seguirmi su Facebook e su web al mio Blog “Direzioneversoest”