Comunione e Liberazione – Mons. Pizzaballa sul titolo del meeting
Un Cireneo chiede al blog di pubblicare questo articolo dal sito di CL
“Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. Il testo dell’intervento dedicato al tema del Meeting di S. Ecc. Mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme
Ringrazio ancora una volta gli organizzatori del Meeting, di questo grande e importante momento per la vita della Chiesa in Italia, per avermi invitato e per avermi così ancora una volta costretto a fissare per iscritto alcune considerazioni riguardo al nostro tempo che tra amici si andava facendo, lasciando però tali considerazioni sempre un po’ sospese e/o rimandate ad ulteriori approfondimenti.
Ribadisco a voi quello che ho già detto a suo tempo a chi mi ha invitato. Non sono un esperto di questioni sociali, ecclesiali, teologiche per non parlare di quelle politiche e di altro genere. Sono solo un credente, ora con la responsabilità di una Chiesa, che con serenità si interroga e cerca di capire, di cogliere e dare un senso a quanto accade attorno a lui. Mi sento un po’ a disagio, perciò, in un contesto così prestigioso, per parlare di argomenti così grandi. Vi prego dunque di accogliere con la stessa libertà e serenità ciò che cercherò di esprimere in questo incontro.
Premetto subito che anche io, come molti, ho più domande che risposte. Ci sono domande che non riesco a sciogliere completamente, a decifrare e analizzare, definire. Non so dare forma precisa alle tante intuizioni e sollecitazioni che questo tempo sta presentando. Per spiegare cosa intendo, mi rifaccio alla scheda di presentazione del titolo del Meeting, che solleva alcune di tali domande del nostro tempo e che interrogano la mia coscienza di credente cristiano e anche la mia Chiesa: siamo nel tempo della post-verità, del pensiero liquido, del tutto-e-subito; il tempo nel quale si deve vivere il presente e basta, dove i progetti sono sempre a breve termine, dove il “per sempre” non si concepisce, dove bisogna essere una sorta di genitori di se stessi. È un tempo, insomma, in cui siamo persi nel frammento, in tutti i contesti di vita. Non c’è posto per Dio e sappiamo che, dove Dio è assente, anche l’idea di uomo e del mondo cambia radicalmente.
Ma anche nella nostra realtà di Chiesa penso vi siano fenomeni simili e su questo mi sento particolarmente interpellato, soprattutto ora che di una Chiesa sono pastore: siamo nel periodo (almeno per quanto riguarda il mondo occidentale) chiamato post-cristiano. Nemmeno anticristiano, ma post. Il pensiero cristiano che per secoli e generazioni ci ha accompagnato in un modo o nell’altro non è più all’origine del pensiero comune. Non dico nell’ambito scientifico e accademico culturale. In quel contesto il fenomeno era noto. Ce lo ricorda anche Paolo VI nella sua Evangelii nuntiandi: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca» (21). Anche nella vita sociale comune, tuttavia, assistiamo ad un cambiamento radicale. Per essere breve: non vi è più stata la trasmissione della fede nelle famiglie. Il resto è venuto da sé.
Il cristianesimo occidentale, poi, che per secoli è stato al centro della formazione nella Chiesa, almeno di quella cattolica, oggi non sembra più essere così determinante nella vita della Chiesa universale.
Insomma, siamo dentro ad un cambiamento epocale, in forza del quale società, cultura, religione, umanesimo eccetera non sono e non saranno più letti e vissuti secondo i parametri ai quali siamo abituati.
Questo scenario problematico non riguarda solo l’Occidente post-cristiano. Un po’ in tutti i contesti, come dicevo, ci troviamo di fronte a cambiamenti che hanno dinamiche simili. Anche dove vivo, in Medio Oriente, tutto cambia. Lì sono stati soprattutto (ma non solo) i conflitti a distruggere il tessuto sociale, culturale e religioso e a spazzare via quella continuità generazionale nella trasmissione della fede. L’antica coesistenza dei diversi popoli, distinti tra loro dalle diverse appartenenze religiose e identitarie, già indebolita lungo il ‘900 dalle dittature arabe, è saltata definitivamente in questi ultimi anni e tutto ora è da ricostruire, ma non si sa come e con quali criteri. Il senso di appartenenza ad una comunità religiosa e comunitaria, oggi, non basta più a sostenere le comunità cristiane che, per questa ragione, poco alla volta si allontanano.
Insomma, come si può intuire da questi asistematici, superficiali accenni, lo scenario che ci si presenta dinanzi è di una complessità tale, da scoraggiare chiunque voglia fare sintesi. Forse l’errore sarebbe proprio questo: volere a tutti i costi costringere in una definizione unitaria la complessità del nostro tempo, tentare di trovare, per così dire la formula capace di esprimere lo status quo. Alcuni ci hanno provato: pensiero debole (Vattimo), società liquida (Bauman)… Ma tali espressioni, pur molto acute, riescono ad esaurire la complessità, diciamo pure il disordine, di questi anni? Forse è bene accettare, con umiltà, di non avere ancora la chiave per unificare e sistematizzare i vari fenomeni cui si faceva accenno e risolversi ad imparare a vivere dentro questa complessità e le sue domande, con uno stile cristiano. Questa penso sarà la risposta da dare: capire quale sarà lo stile che ci deve caratterizzare. Come stare/abitare in questo nuovo modello sociale, più che chiedersi cosa porre di fronte ad esso, perché il cosa è lo stesso di sempre. È Cristo Via, Verità e Vita, incarnato e testimoniato in secoli e generazioni di credenti e che ancora oggi attende testimoni che, nel linguaggio di oggi, siano capaci di renderlo ancora Via, Verità e Vita.
La domanda allora diventa: in quanto credenti, come dobbiamo pensare il nostro rapporto con quella realtà alla quale diamo il nome di “tradizione”?
Ciò che abbiamo ricevuto dai nostri padri nella fede è nulla di meno che la verità sull’uomo e sulla sua storia; eppure tale depositum sembra talvolta non aver più nulla da dire all’uomo contemporaneo, e quest’ultimo è per nulla interessato ad ascoltare. Dobbiamo forse individuare una nuova forma di proposta, un nuovo linguaggio, oppure no, perché il linguaggio di sempre funziona ancora? Il tono retorico della mia domanda fa già intuire quale sia la mia posizione.
Mi pare che sia urgente, infatti, riproporre in un nuovo linguaggio, forse con nuove forme, ciò che abbiamo ereditato. Ma non si tratta solo di questo. Non è solo un aggiornamento linguistico che urge. Questo verrà da sé, credo, se saremo nuovamente capaci di accogliere e comprendere quanto abbiamo ricevuto in eredità. L’eredità, infatti, perché possa diventare tua e possa poi essere investita, deve prima essere compresa, ricevuta e accolta – si può anche rifiutare infatti – e si tratta di un compito che va sempre rinnovato. Non accolgo, infatti, ciò che non sento mio. In altre parole, da un lato quanto si è ricevuto va necessariamente investito, perché con il tempo l’eredità non investita si esaurisce; ma, insieme, non si riceve mai una volta per tutte, ma bisogna riappropriarsi sempre nuovamente di quanto si è ricevuto per essere veri eredi. La frase di Goethe, che fa da tema del vostro meeting, indica quindi più una disposizione permanente, una postura dello spirito, credo, che un compito da effettuare una volta per tutte. Primo punto, dunque: riappropriasi in modo autentico della tradizione è una questione essenziale. Cosa vuol dire questo nel concreto?
2. Uno sguardo biblico
Per orientarci, cominciamo innanzitutto proprio da uno sguardo alle cose di lassù, dal quale si deve sempre cominciare. Vediamo allora come le parole del titolo sono intese nella Bibbia, che ci illumina e come sempre ci dà le chiavi di comprensione di quanto diciamo.
La frase del Faust di Goethe è costellata di parole che hanno una ricchissima valenza biblica. Si parla di eredità, di padri, di guadagnare, di possedere. Se facessimo ora solo un attimo di silenzio, ciascuna di queste parole aprirebbe dentro la memoria un panorama biblico notevole.
Nella Bibbia tutto è eredità, tutto è ricevuto, tutto è gratuito. La parola guadagnare, che sembrerebbe una parola antievangelica, Gesù la usa in una parabola – quella dei talenti – che ha molto da dire a noi oggi, e si intreccia con altri vocaboli decisivi, come salvare, ottenere, vivere. E infine, c’è poi il termine possedere, che richiama la nostra vocazione ultima, possedere la Vita.
Ma c’è un’altra parola, in questa frase, che quasi scompare dietro parole così importanti, così solenni; ed è anch’esso un termine biblico. È una piccola grande parola: Tu. “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”.
Diventare persona
Allora ci viene da pensare che quest’operazione, questo cammino a cui lo scrittore ci invita, riguarda direttamente il nostro stesso diventare persone, diventare adulti. La persona come crocevia di eredità, di padri, come esperienza del riguadagnare e del possedere, non come qualcosa di superfluo, di accessorio, ma di assolutamente necessario.
Non si diventa persone se non attraverso questo lungo e laborioso processo di riconoscimento, appropriazione, elaborazione, interiorizzazione della nostra storia, di tutto ciò che è altro e che ci è dato.
Eredità
Eredità, nel linguaggio biblico, è innanzitutto la terra: è uno dei nomi più antichi che Israele dà alla piccola terra in cui vive, che ha ricevuto in eredità da Dio. In ebraico eredità si dice “nahalah”, e sta ad indicare qualcosa in più rispetto al semplice passaggio giuridico di un bene all’erede, così come lo intendiamo noi; dice piuttosto la stabilità, la continuità del possesso ricevuto, dice che quel bene non può essere alienato, rimane necessariamente in famiglia. Non può essere perso, è un dono stabile, perché il reale ed eterno proprietario di questa terra è solo il Signore: Israele ne è il temporaneo beneficiario, l’ospite desiderato e amato (Lv 15,23). Alla fine, eredità sta a dire Israele stesso, ciò che Israele è per Dio. Ma anche viceversa: Dio stesso è l’eredità di Israele, ciò che Israele è chiamato a possedere.
Allora, eredità parla già di un legame, di un appartenersi reciproco, di un essere dono l’uno per l’altro. È un concetto molto affine all’idea stessa di vita, lì dove la vitaè compresa nel suo significato più profondo, vita nei suoi legami, vita in ciò che non può morire.
Ricordare
Legato al concetto di eredità vi è quello di memoria, il ricordare. Quando Dio fa un dono sembra avere un’unica preoccupazione: che il suo popolo si ricordi di ciò che ha ricevuto; e si ricordi soprattutto che l’ha ricevuto in donoe che tale dono non è frutto del suo operato.
Basta pensare al capitolo XII dell’Esodo: Israele sta per fuggire dall’Egitto, ed è una notte drammatica. In questa notte drammatica, Dio non chiede al suo popolo di prepararsi alla guerra, di star pronto ad affrontare il nemico, che pure lo inseguirà. No. Piuttosto prepara nel suo popolo lo spazio della memoria, perché, una volta uscito dall’Egitto, possa portare per sempre con sé il ricordo di ciò che sta per ricevere. Il ricordo del legame che lo ha salvato. Come se a nulla servisse il dono, se poi Israele lo dimenticasse.
Per questo, perché Israele possa ricordare, Dio “inventa” il rito. Il rito della Pasqua ebraica, infatti, ancora oggi si richiama proprio all’esperienza dell’uscita dall’Egitto. E qui c’è forse un’altra preoccupazione di Dio, ovvero che Israele ricordi bene ciò che deve essere ricordato. Perché una memoria inquinata è forse peggio di una dimenticanza, e Dio solo, autore del dono, sa cosa bisogna ricordare. Bisogna ricordare ciò che fa vivere. La Liturgia della Pasqua custodisce la memoria non tanto e non solo dei fatti, ma del loro significato salvifico, del loro significato eterno. Custodisce la memoria del fuoco che ha animato quel frammento di storia, la memoria del legame: Israele deve ricordare che Dio lo ha salvato, che è intervenuto, che ha ascoltato, che ha combattuto al suo fianco.
Non solo Esodo 12 parla di questo. Nel Pentateuco c’è tutto un Libro che è basato sulla memoria, che è fatto per imparare a ricordare. È il Deuteronomio: prima di fare entrare Israele nella Terra Promessa, in questo libro si narra che Dio, ancora una volta, lo fa attendere e lo intrattiene nel fare memoria dei quarant’anni trascorsi nel deserto: solo se ricorderà, Israele potrà scegliere il futuro, il bene, la vita. Ma se dimenticherà, se non saprà ripetere ai propri figli il legame che lo fa vivere, Israele si allontanerà da Dio e perderà il senso stesso del suo esistere. E perderà la terra e la vita.
Gli esempi di questa dinamica nella Bibbia si potrebbero moltiplicare, fino a quando poi giunge la pienezza dei tempi: lì il Signore affida la nuova alleanza, la nuova vita, ad un memoriale. Un memoriale in cui al centro c’è un legame definitivo.
Ricordare – e ricordare bene – è il primo passo per entrare in contatto con la nostra eredità.
Guadagnare e possedere
Possiamo ora fare un passo avanti nel nostro sguardo biblico, e avvicinarci a questo processo che abbiamo detto fondamentale per diventare persona, quello che Goethe declina con i termini del riguadagnare e del possedere.
Potremmo dire che si tratta di entrare in possesso di qualcosa che è già nostro, anzi, dell’unica cosa che è veramente nostra. Questa eredità non è altro se non il progetto originario di Dio sull’uomo, quella vocazione ad esistere per cui la vita ci è data, ma a noi spetta il compito arduo di accoglierla e di farla nostra, di personalizzarla.
Due icone bibliche
Ci facciamo aiutare, brevemente, da due parabole evangeliche, di cui cogliamo solo alcuni elementi.
La prima è la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30; Lc 19,12-27): la conosciamo tutti, un uomo parte per un viaggio, e consegna i suoi beni ai suoi servi. Ad uno cinque talenti, ad un altro due, ad un altro uno, a secondo delle loro capacità. I primi due vanno, senza timore, impiegano il denaro, lo recuperano accresciuto, lo restituiscono al padrone. In qualche modo lo sanno perdere per poterne riguadagnare di più. Sanno stare nell’incertezza, non temono di perdere tutto, non hanno paura di ciò che potrà loro dire o fare il padrone. E in modo inatteso scoprono che quel loro saper rischiare, quel loro essersi giocati con serietà, vale loro un ritorno incommensurabile: “Prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Pensavano di occuparsi di piccole cose, in realtà avevano tra le mani la vita intera.
Non così l’ultimo servo, che non osa rischiare di perdere il suo talento, che lo tiene stretto, e così com’è lo restituisce. Perché fa questo? Apparentemente solo per paura: il servo afferma di sapere che il padrone è duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. Ma il padrone smonta questa tesi. Al limite, proprio per questo avrebbe dovuto osare di più… Il vero motivo lo troviamo tra le righe del suo discorso di difesa, nascosto tra le sue parole – così come nascosto è il suo talento -: “Ecco ciò che è tuo” (Mt 25,25), dice il servo, restituendo l’unico denaro. Il servo non è riuscito a capire che quel talento, che è del padrone, gli è stato dato perché diventasse anche suo, perché ne usasse come fosse suo. E non avendo capito questo, non è stato in grado di giocarsi fino in fondo, perché in fondo, non gli interessava veramente. Non sapeva che era in gioco la sua vita. E il padrone lo giudica “pigro”, ovvero come uno che non ha saputo andare al di là della propria paura…
La seconda immagine da cui ci facciamo aiutare, per certi aspetti simile alla precedente, è nelle parabole del tesoro e della perla (Mt 13,44-46). Sono due parabole brevissime, molto simili, che abbiamo ascoltato nella liturgia di qualche domenica fa.
Ebbene, in queste due parabole c’è come una stranezza, e la stranezza riguarda il prezzo: questo tesoro, questa perla, fortunosamente ritrovate, non hanno di per sé un prezzo preciso, come ogni altro tesoro, come ogni altra perla. Il loro prezzo è tutto: “…poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (Mt 13,44); e: “Trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi, e la compra” (Mt 13,46). Questo tesoro è tuo, ma per averlo devi vendere tutto.
I tuoi beni possono essere pochi o tanti, ma per comprare il tesoro devi venderli tutti, perché il suo valore equivale esattamente a tutto ciò che tu possiedi, vale la vita intera.
Provo a sintetizzare.
L’eredità, la nahala, sta ad indicare direttamente la terra, che però appartiene a Dio. Ma in fondo questa eredità è Dio stesso e la relazione con lui, l’alleanza. Dio chiede al suo popolo di ricordare che l’eredità, la terra, l’ha ricevuta in dono. È il prendere con gratitudine coscienza di questo dono che permette a Israele si essere se stesso, di diventare cioè un tu, persona capace di ereditare e così di guadagnare l’eredità e possederla. Se ricordi ciò che ti ho fatto e come ti ho costituito, ciò che ti ho dato è tuo. Ma se ti dimentichi dell’alleanza, e così facendo ti appropri di quanto io il Signore ti ho dato, ciò che credi di possedere, lo perderai.
Le due parabole ci fanno fare un ulteriore passaggio.
I primi due servi della parabola dei talenti investono i talenti ricevuti, l’eredità, e si mettono decisamente in gioco, senza paura di perdere tutto. Così facendo ricevono non solo l’elogio del padrone, ma entrano a far parte della sua gioia, cioè della sua vita.
E le parabole del tesoro e della perla accentuano questo mettersi in gioco: vendono tutto per possedere un altrotutto, il tesoro e la perla trovate, cioè l’eredità.
Il servo fallito, è quello che non si è messo in gioco, che ha avuto paura, che non ha sentito né fatta sua l’eredità, l’ha lasciata lì, di fatto rifiutandola.
Cosa suggerisce questo fugace sguardo biblico alla nostra coscienza di credenti un po’ confusi di oggi nel contesto del tema del meeting di quest’anno?
3. Quello che tu erediti dai tuoi padri…
Cominciamo dal capire cosa sia questa eredità e se siamo coscienti dell’eredità ricevuta. L’eredità, lo abbiamo visto nella parte biblica, è Dio, il nostro legame con lui, e tutto ciò che scaturisce da questa coscienza: idea di uomo e umanità, di mondo e di creato, di cultura e tutto ciò, insomma, che costruisce l’uomo.
Dobbiamo allora chiederci richiamandoci a quanto detto se noi ricordiamo e cosa ricordiamo, se acco-gliamo quell’eredità, e come l’accogliamo, o la rifiutiamo.
Oggi abbiamo un rapporto complessato con la storia, la tradizione, con la memoria. O tendiamo a rifiutare ciò che abbiamo ricevuto dai nostri padri, considerato come un fardello pesante e obsoleto in nome della modernità, oppure rifiutiamo molte delle istanze della modernità richiamandoci un po’ troppo nostalgicamente alla tradizione, ai suoi valori, alla memoria ricevuta.
Abbiamo bisogno di recuperare un rapporto sereno con la memoria, con il ricordare. Come la Scrittura ci ha ricordato, senza memoria non si ha identità e quindi nemmeno consistenza. Accogliere l’eredità dei padri significa rinnovare la capacità di memoria, in un tempo come il nostro smemorato, perso nel frammento. Non si tratta di nostalgia, ma di recupero del senso di un cammino che può portare lontano solo perché viene da lontano. Significa far memoria di una promessa che ci precede, ricevuta e trasmessa dai padri, nella consapevolezza che una società dimentica dei padri è una società di orfani, non di figli. È un delirio della contemporaneità quello di essere “genitori di noi stessi”. È inte-ressante il brano di Giovanni, al capitolo sette, quando in occasione di una festa delle Capanne, chiedono a Gesù di salire a Gerusalemme e di manifestarsi apertamente al mondo. E Gesù risponde con parole taglienti, e dice: “Il mio tempo non è ancora venuto, il vostro invece è sempre pronto” (Gv 7,6). Per cui Gesù sale alla festa, ma di nascosto (Gv 7,10). Un tempo sempre pronto è un tempo senza discernimento, senza kairòs, dove va bene tutto e il contrario di tutto.
Questo “far memoria” però non dev’essere inteso come mera ripetizione dell’identico. Al tempo stesso, a una fedeltà senza creatività non dobbiamo rispondere con una creatività senza fedeltà, quelle delle mode come sostitutivo della vera novità.
Quello che conta nell’eredità, invece, è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. Fare memoria, dunque, non per nostalgia ma per risvegliare il desiderio. È il modo con il quale i nostri padri hanno saputo vivere su questa terra provando a dare un senso alla loro esistenza; è il modo con il quale i nostri padri hanno dato testimonianza del loro desiderio, ovvero che si può vivere con slancio, con soddisfazione, dando senso alla nostra presenza nel mondo. E dobbiamo trovare i modi per recuperare e comunicare tale bellezza anche all’uomo contemporaneo, perché questi inconsapevolmente, sta attendendo tale racconto, tale “buona notizia”, che lo rivela a se stesso.
In tale prospettiva, allora, bisogna distinguere molto bene tra ciò che è nostro perché creato da noi e dal quale legittimamente facciamo fatica a staccarci ma che è destinato ad avere un termine e ciò che invece alimenta e sostiene il nostro legame con Dio, che resta sempre e sa creare futuro.
Bisognerebbe chiederci se il nostro fare memoria è più un ricordare nostalgico o un attingere serenamente e liberamente allo stesso desiderio che ha animato i nostri padri e che può alimentare ancora il nostro desiderio oggi, facendo di noi i protagonisti della costruzione del Regno e non semplici custodi di una memoria.
Il credente, in conclusione, è colui che ricorda la salvezza che lo ha abitato e che anima il suo desiderio di costruzione del Regno. Non si sente perduto perché il mondo al quale ha appartenuto si sta esaurendo, perché lui già appartiene al Regno e, dunque, qualunque sia la sua situazione, costruisce con la sua testimonianza fattiva il Nuovo Mondo al quale già appartiene, si mette in gioco, investe i talenti, l’eredità che ha ricevuto in dono.
Un amico, tempo fa, discutendo proprio di questi argomenti mi ha ricordato la testimonianza di S. Benedetto da Norcia. Era giunto giovane a Roma nel VIº secolo e si aspettava di trovare la gloria imperiale e vide invece l’inizio di un mondo di corruzione, dissolutezza e decadenza. Di fronte a tale situazione si è ritirato in vita eremitica dalla quale poi, però, è scaturito il movimento benedettino. Sono stati loro, i benedettini, i figli di Benedetto, a salvare la fede, a trasmettere la cultura antica e a creare la civiltà europea che ci ha portato fin qui. Non sono fuggiti dal loro mondo, condannandolo, ma lo hanno plasmato con la loro testimonianza, salvandolo e salvando un patrimonio enorme, un’eredità, che rischiava di restare definitivamente senza memoria e che invece è stata recuperata, perché chiunque guardava all’esperienza di Benedetto e dei suoi monaci vedeva riflessa in loro il desiderio infinito di amore e bellezza che ogni uomo si porta nel cuore ma che solo l’incontro coi testimoni sa disseppellire.
4. Riguadagnatelo, per possederlo
Riguadagnare e possedere. Significa personalizzare, fare propria l’eredità nel senso in cui ho indicato. Significa diventare adulti, diventare un tu capace di ricevere e allo stesso tempo elaborare e investire.
Questa grande operazione di diventare adulti, di personalizzare l’eredità ricevuta, accade a partire dalle piccole cose, piccole come un talento, così come ciò che ti è affidato ogni giorno, passa per gli eventi che accadono nella vita. Spesso si perde del gran tempo in attesa di grandi occasioni, di grandi avvenimenti, ma non sono quelli che cambiano l’esistenza.
La differenza non è data dall’entità dell’evento, ma dalla qualità del proprio giocarsi, dal farlo con la consapevolezza che ti stai giocando la vita. Dal sapere che la vita è nostra, e che in questo oggi ci gi-chiamo il nostro destino, senza paura.
La parabola dei talenti sottolinea una paura che tutti noi abbiamo, che è quella di perdere. Perché di cosa abbiamo paura, se non di perdere? Perdere gli affetti, perdere la dignità, perdere il lavoro, perdere la vita. Ma anche perdere i nostri riferimenti identitari, culturali, religiosi e quant’altro. Paura che tutto venga spazzato via e ci lasci sperduti, alla mercé di un presente che ci sembra sempre più estraneo.
Invece c’è un perdere che è la nostra salvezza, c’è un perdere tutto che è indispensabile al guadagnare tutto. Ogni cosa, in realtà, per essere ritrovata, prima va persa. Va persa come realtà che appartiene a noi, che viene da noi e torna a noi, e va ritrovata come dono del Padre che affida a ciascuno i suoi talenti, va ritrovata come grazia. Questo perdere tutto è il prezzo del tesoro. È l’esperienza di Be-nedetto, che ha lasciato tutto, ma alla fine ha ritrovato tutto, in maniera nuova.
Il tesoro non è un’eredità fatta di valori sublimi, di una buona etica, di una prospettiva di perfezione: questo sarebbe comunque solo all’interno di una natura umana capace di compiersi senza Dio. La nostra eredità invece è la Pasqua, la vita nuova, la vita di Dio in noi. Di questo abbiamo sete e di questo il mondo ha sete. Quando questo accade, allora accade la gioia, come quella di chi ha trovato il tesoro e va e vende tutto. La gioia è il segno che il tesoro è quello giusto, che la dinamica è quella pasquale, che si sta passando da questo mondo al Padre.
Tutto questo ce lo facciamo raccontare dall’apostolo Paolo, che ha saputo riconoscere il valore del tesoro che gli è capitato davanti, sulla strada di Damasco: “Quello che era per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui, ho lasciato perdere tutte queste cose che considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in Lui” (Fil 3,7-9).
Il credente, se ha fatto esperienza della Pasqua, se ha sperimentato in sé di avere ricevuto la Vita, non si spaventa davanti alle perdite di questo mondo. Il credente, in un mondo dove tutto cambia velocemente e tutto sembra perdersi irrimediabilmente, è chiamato più che nel passato a starci serenamente in questo mondo. Non ci spaventano le ideologie e le mode.
Certo, una domanda sorge spontanea: come stare allora su questa frontiera, come viverla? Come ciò che è vecchio può diventare nuovo, ciò che è perduto può essere ritrovato? Come stanno insieme il mondo e il Regno?
C’è un rischio, infatti: quello di prendere tutto e che non ci sia più differenza tra ciò che è mondano e ciò che è cristiano. Secondo Paolo c’è qualcosa da perdere e qualcosa da guadagnare, c’è il sublime e c’è la spazzatura. E c’è una frontiera fra le due cose. C’è il rischio forse di pensare che la novità della Chiesa di oggi sia quella di aver abolito la frontiera Chiesa-mondo, di aver aperto le porte a tutti.
Non penso sia qui la questione: siamo sempre portatori di una novità, di una unicità, non dobbiamo dimenticarlo. Il discernimento è necessario, perché il tesoro è nascosto in un campo, perché la perla è nascosta tra tante altre perle. Bisogna ricordare bene, dicevamo poc’anzi. Non si tratta, cioè – a questo punto dovrebbe essere chiaro – di accogliere acriticamente ciò che abbiamo ricevuto dai nostri Padri o di reinventarsi completamente nuovi, per essere attenti alla novità di questo mondo. Si tratta invece di cogliere il senso, il motivo, il desiderio che ha animato i nostri padri a costruire e realizzare ciò che ora noi oggi vediamo e di renderlo ancora comprensibile all’uomo del nostro tempo.
Come agiscono nella mia concreta esperienza queste riflessioni?
In questi ultimi anni, assistendo al disastro che ha sconvolto il Medio Oriente, e ancor più in questo ultimo anno con la responsabilità diretta di una Chiesa, mi sono chiesto più volte cosa resta di tutto ciò che è stato, del nostro passato, dell’antica tradizione della Chiesa, di cui il Medio Oriente in generale è ricchissimo e fiero allo stesso tempo. Come dicevo all’inizio, anche in Medio Oriente siamo alla fine di un’era. Non entro nei dettagli, comunque già noti e che non interessano in questa sede. Non è questo il nostro argomento. Per essere breve, il mondo che i nostri padri hanno conosciuto ora non c’è più o sta ormai finendo. Le guerre hanno decimato la popolazione cristiana, che è in gran parte emigrata o sfollata. Chiese distrutte, famiglie spezzate (chi ucciso, chi in Europa, chi in Australia, ecc.), le percentuali sono ormai da numeri decimali e così via.
Anche ora che la guerra sembra volgere al termine, è una sfida improba convincere la popolazione che è ancora rifugiata in qualche parte del Medio Oriente (Giordania, Libano, Turchia, ecc.) a rientrare nelle loro zone originali. Hanno paura del futuro, delle prospettive incerte, di una vita da ricostruire, la quale comunque non sarà mai più come prima e sarà ancora di più piena di incertezze. Iniziative lodevoli e benedette che si stanno avendo sia in Siria che in Iraq, non cambiano tuttavia il quadro generale. Sono un segno importante, certo, ma che non risolvono il problema.
Tempo fa ad Amman ho incontrato in una scuola un centinaio di bambini iracheni, tutti cristiani. Rifugiati dalle zone allora ancora occupate dal Daesh. Erano li, con altri insegnanti iracheni, per studiare, su iniziativa di una delle nostre parrocchie che aveva messo a disposizione la scuola parrocchiale nel pomeriggio. Chiedendo per curiosità agli insegnanti quale programma usassero per la scuola, se fosse giordano, il Paese nel quale si trovavano, o usassero ancora il programma iracheno, la risposta fu semplicemente: “Inglese, poiché questa è la prospettiva di noi tutti”.
Ascoltando la gente e anche il clero, qua e là, notavo un certo sconforto e disorientamento. Anche in Terra Santa, pur non vivendo la situazione di guerra accennata, i numeri sono comunque preoccupanti e non saliranno di certo.
Non incontro famiglia che, superate le prime timidezze, non accenni alla paura per i gravi cambiamenti in corso, alla mentalità in radicale cambiamento, alla conseguente possibilità di andarsene. Sembra insomma che anche in Medio Oriente, pur con dinamiche diverse, tutto concorra a spezzare definitivamente il legame con i nostri padri, a sradicarci da un mondo che non solo ci appartiene ma che come cristiani abbiamo contribuito a costruire e che ora ci sembra invece sempre più estraneo, non nostro.
Come stare dentro questa situazione senza diventare il servo del talento non accolto e nascosto?
Di fronte a tali situazioni, ora che sono vescovo e pastore di questa comunità, mi chiedo cosa fare, cosa dire. Quale indicazione concreta dare per uscire da questa prospettiva e mentalità così preoccupante. Un pastore non deve elaborare teorie accademiche, ma deve dare un’indicazione di vita. A quelle famiglie disorientate deve portare una speranza, non teorie.
Un giovane cristiano palestinese, pochissime settimane fa, appena rientrato dagli studi all’estero, mi ha condiviso la sua opinione al riguardo, che riassumo brevemente: non legare il nostro destino e la nostra presenza qui a prospettive politiche, storiche, ai contesti sociali o quant’altro. Tutto questo è importante, e deve essere certamente parte del nostro discorso, perché come cristiani apparteniamo a questo mondo. Ma ciò non ci salverà e non salverà il cristianesimo qui. Ci salverà, invece, l’attaccamento alla propria fede, il radicamento in Cristo, la motivazione profonda del nostro essere cristiani. Legare la nostra speranza e il nostro futuro a soluzioni politiche o sociali, creerà solo frustrazione. Mi ha colpito molto la sua testimonianza, e credo che sia proprio così.
Bisogna ripartire da ciò che fa di noi una novità e una diversità. Ricreare il senso di comunità, comunità di credenti che si ritrova a partire dalla propria fede e sa mettersi in discussione. È questo il desiderio di cui parlavo all’inizio. È un desiderio che non si nutre di rimpianto, bensì di speranza. Il desiderio che ha costruito nel passato le cattedrali e che ora forse è chiamato a costruire altro, che dovremo comprendere e con il tempo definire.
Questo “altro” dovrà comunque essere caratterizzato dallo stile cristiano, che non intende esprimere una pretesa sul mondo, ma una proposta, un annuncio, che troverà poi espressione concreta nei vari ambiti della vita civile e sociale, nella cultura, economia, politica, ecc. È il modo cristiano di annunciare che “Dio si è fatto uomo perché l’uomo resti umano… e insegnare a riconoscere la sua gloria ovun-que affiori nel quotidiano” (Fabrice Hadjadj, Risurrezione), illuminando con la sua esperienza i vari ambiti della vita, contagiandoli con la sua speranza e dare loro un senso.
C’è un altro passaggio del Vangelo che, forse, a questo punto dovremmo allora richiamare. “Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto” (Gv 20,18). Il cristiano è colui che annuncia, come la Maddalena: “Ho visto il Signore”.
Un altro modo cristiano di parlare di eredità e di guadagno e nuovo possesso è quello che fa riferimento alla testimonianza e all’evangelizzazione. Nei nuovi tempi in cui siamo chiamati a vivere, occorre ritrovare la gioia di evangelizzare, la consapevolezza di avere qualcosa di bello da dire e da dare al mondo. Essere erede è anche una questione di consapevolezza. C’è tanto di bello, di buono e di vero nel Vangelo che abbiamo ricevuto e nella Tradizione che ce lo ha tramandato. Senza questa radicata consapevolezza (che solo una lettura miope può scambiare per fondamentalismo o integralismo…), il fecondo dinamismo dell’ereditare si trasforma in una strategia di marketing inutile e banale o, peggio, in acquisizione e difesa di posizioni. L’annuncio, da farsi certo con lo stile del Regno, che è uno stile cortese, non rinunciatario, ospitale ma non indifferente, è la forma concreta e privilegiata con cui la Chiesa consegna alle future generazioni il suo tesoro più caro, la perla per la conquista della quale essa esiste nel mondo e tra gli uomini. Inviterei a leggere, in questo contesto i numeri 21-22 di Evangelii Nuntiandi, che sembrano scritti ieri, per quanto sono ancora attuali.
È fuorviante dunque limitarsi a lamentare quanto è stato perduto e non prendere coscienza di ciò che siamo chiamati a costruire. Parafrasando la parabola dei talenti, se non investo, perdendo per mettermi in gioco, non avrò guadagnato nulla, e non possederò nulla, nemmeno quello che pensavo di avere. Alla fine perderò e basta. È li che si gioca il nostro futuro. Essere ancora capaci di una proposta, di un annuncio comprensibile, attraente, provocativo. Di una eredità che abbiamo ricevuta dai nostri padri e che però è anche una novità interessante e che ha qualcosa da dire nel mondo della cultura, della scienza, della tecnica, della formazione. Non un cristianesimo puramente morale e impersonale. Non serve parlare di valori cristiani senza dire che Cristo è ciò che di meglio si può incontrare nella vita.
Non si tratta allora di ricostruire mura che separano, ricreare una distanza tra noi e il mondo, ma saper cogliere la realtà del mondo come un’istanza che ci interpella, oggi noi come nel passato i nostri padri, che interpella la nostra fede. Non c’è nulla, dell’esperienza umana, che non possa essere illuminata e valorizzata dall’esperienza del Vangelo. E questo è esattamente il nostro compito, e lo possiamo fare solo noi. Allora accadrà una cosa nuova, che ciò che abbiamo riguadagnato, attraverso questo processo di incarnazione del Vangelo nella storia, non sarà più solo nostro, solo mio, solo tuo, ma sarà per tutti, sarà patrimonio e dono per tutti.
Conclusione
La Bibbia inizia in un giardino e finisce in una città. Inizia in un luogo fatto solo da Dio e finisce in un altro dove l’opera di Dio si intreccia necessariamente con l’opera dell’uomo. Dio, nella Bibbia da solo non ha mai costruito nessuna città: ha sempre avuto bisogno dell’opera dell’uomo.
Anche la Gerusalemme dell’Apocalisse, la città che scende dal cielo, è la nuova creazione, ma una creazione che Dio non vuol fare senza l’aiuto dell’uomo.
Per questo a ciascuno consegna i suoi talenti, a chi cinque, a chi due, a chi uno.
A noi il compito di farli diventare mattoni della nuova Gerusalemme.