Le Lettere di Un Cireneo – L’acqua del Flegetonte o dell’Eunoè?
Caro don Mauro,
ti scrivo in riferimento ad uno dei tuoi ultimi articoli ma anche in relazione al dialogo che abbiamo avuto qualche settimana fa. In quest’ultima conversazione, parlando delle due logiche (ma sono veramente due?) di “perdere i salvati ed il desiderio di salvare i perduti”, scrivesti che io sarei più interessato al fatto che il “Vangelo non venga adattato” – in un certo senso attento alla “purezza” del Vangelo – mentre tu “all’addentrarsi”, ad immergerti nell’umanità per raggiungere le pecorelle smarrite. Desidero precisare questa tua affermazione. Io non sono interessato alla “purezza” delle Scritture in quanto tali. Esse non sono un mobile da spolverare né un pavimento da lucidare. Le Sacre Scritture sono “pure” in quanto vere e sono vere in quanto inspirate dallo Spirito Santo che ha reso vive le parole, testimoniate dagli apostoli, di Colui che è “via, verità, vita”. La purezza della verità non è fine a se stessa ma serve per la salvezza dell’uomo. Sono ben consapevole che Gesù, se avesse avuto orrore della polvere, della sete, delle fragilità umane non si sarebbe incarnato; d’altra parte, da uomo, non ha mai mostrato orrore verso la nostra condizione. Si è sporcato anche lui i piedi percorrendo la Giudea, la Samaria, la Galilea, la Decapoli in lungo ed in largo. Ha sofferto la sete, il caldo, ha accusato la stanchezza. Si è caricato sulle spalle il peso dei nostri peccati, sulla carne il dolore delle nostre ferite e malattie. Tutto questo lo ha fatto per l’uomo. Per la nostra salvezza. Come potrei interessarmi alla purezza delle Scritture dimenticandomi proprio dell’uomo?
La Sacra Scrittura è uno strumento, non il fine. È lo strumento necessario alla persona per elevarsi dalla condizione di miseria e di abbruttimento in cui è caduta e si trova.
L’apparente contrapposizione – NON adattare le Scritture O immergersi nell’umanità – mi porta ad accennare il dibattito sull’oggettività del peccato e sulla condizione soggettiva dell’uomo. A prima vista io – e come me altre persone – pongo maggiore enfasi sull’elemento oggetto che definisce il peccato (in campo morale si è discusso spesso sul blog di adulterio, atti omosessuali, aborto, eutanasia) mentre tu – al pari di altre persone – consideri più importante la condizione soggettiva che potrebbe rendere l’atto, oggettivamente malvagio, non peccaminoso per la persona (in questa direzione anche AL). Ma ogni persona vive una condizione “soggettiva”: ognuno di noi ha catene, legacci, fragilità e miserie; ha una storia, un vissuto, esperienze personali che lo rendono unico ed irripetibile nel bene e nel male e che sono causa di gravami. Nessuna catena può essere considerata più leggera o più pesante di un’altra da un osservatore esterno poiché il giogo che ciascuno porta rende difficoltoso e faticoso il cammino: la persona che sente di stare malissimo con la febbre a 38 non trova conforto dal sapere che c’è chi ha la febbre a 40: lui sta malissimo così. Star molto male con una temperatura corporea di 38 gradi è meno importante e degno di attenzioni di chi soffre con 40 gradi?
Ma allora, cosa rimane del peccato?
Infatti, se diamo spazio alla condizione soggettiva nessuno, al limite, potrebbe considerarsi peccatore poiché è sempre possibile addurre giustificazioni, scusanti, attenuati. Una coscienza particolarmente accondiscendente opera meravigliosamente bene in questo contesto. Quello che voi sacerdoti ascoltate nel confessionale o in altro luogo è sempre la condizione della persona mediata dalla propria memoria, coscienza, vissuto. La psicanalisi ha ben descritto i tanti meccanismi di rimozione della realtà a disposizione di ciò che Freud definisce “Super Io”: quante cose rimuoviamo, involontariamente ma anche volontariamente, alterando la rappresentazione della realtà delle cose? Ma Cristo non ha operato in modo difforme a seconda della terra di origine, della storia, della condizione sociale, del vissuto delle persone: si è tuffato nell’umanità del prossimo riportandolo sulla riva della verità, perdonando loro il peccato – erano e siamo tutti peccatori – non giudicandolo ma giudicando il peccato ed invitando loro e noi a non ricaderci. L’unico limite che ha incontrato è stato effettivamente di natura soggettiva originato, come accaduto nella sua terra, dalla mancanza di fede delle persone: «E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità». A dispetto della condizione soggettiva, il peccatore è rimasto tale ma è stata limitata la possibilità di operare la guarigione da parte di Gesù. Ovvero, la condizione soggettiva non ha annullato le macchie (ferite per dirla con Papa Francesco) nell’ anima ma ha reso impossibile (!) l’intervento del Signore.
È ciò che mi aspetto dai sacerdoti: che non guardino asetticamente le persone, magari con un senso di disgusto e di distanza che non ha mai caratterizzato Gesù, ma che si tuffino nella nostra condizione per riportarci a riva. Non c’è allora una contrapposizione tra non adattamento delle Scritture e immersione nell’umanità ma complementarietà: NON adattare le Scritture E immergersi nel mondo. Operare per far crescere la fede degli increduli e permettere al Divin Medico di guarirci.
Le norme morali non sono l’oggetto da contemplare ma la bussola che indica da che parte sta la riva (il bene) e da che parte sta il mare (il peccato). Il mondo non è fatto di sola acqua o di sola terra: c’è una riva e c’è un mare. D’altra parte, quando si naviga in mare aperto non è facile orientarsi nella giusta direzione. Diventa importate disporre di una bussola ben funzionante e di qualcuno bravo nel leggerla e nel fornire le giuste indicazioni al navigante. Mi aspetto, dunque, un sacerdote che per dialogare con il peccatore non esiti a tuffarsi nell’acqua infuocata del Flegetonte ma per portarlo a Gesù tramite la Sua Parola e non per confermarlo nell’illusione di essere circondato dalle acque del Letè o dell’Eunoè. O, peggio, di chiamare terra l’acqua. Se non gli parlasse della sporcizia di quell’acqua in cui è immerso, dei rischi che sta correndo e di Colui che ci tira fuori chiamandoci a Sè sarebbe, come scrivevo nel blog, colpevole di scandalo, cioè di indirizzare le pecore smarrite (e non solo) al male.
Mi spiace che qualcuno pensi che il cristiano che tenta di camminare alla luce del Vangelo – che è buona novella in quanto mostra il peccato e Colui che ha lo vinto definitivamente e questa sì che è la buona notizia – che cade certamente nelle acque del putride della propria miseria ma ha ben chiara la direzione e la meta e sa che da quella caduta si può rialzare per la misericordia di Dio, sia persona che scaglia pietre e macigni contro altri fratelli e sorelle in Cristo. E che si considerino armi improprie di offesa le Sacre Scritture, che da sempre illuminano l’uomo e che possono essere certamente dure e segno di contraddizione ma solo perché lo è Cristo stesso: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima».
Pensiamo che la profezia di Simeone non riguardi questi tempi?
Non mi sento giannizzero di Dio. Nella mia imperfezione, umanità e miseria, ritengo di rispondere al duplice criterio di giustizia e di misericordia nell’obiettare quando si cercano appigli e giustificazioni per far apparire oro ciò che è piombo, acqua cristallina quella putrida, quando alcune situazioni possano indurre in errore la persona più semplice.
Sono tenuto a farlo? Sono combattuto. Non spetta a me direttamente (Sono io stesso nel giusto o nell’errore? E se le mie parole aggravassero la mia condizione di peccatore? Ma chi me lo fa fare? Che senso ha parlare della sporcizia degli altri se io ne ho così tanta addosso, se ho così tanta strada da percorrere?) ma poi mi ricordo che apparteniamo ad un unico Corpo, che non posso voltarmi da un’altra parte quando incontro tanto un povero economico che un povero in spirito in quanto, da battezzato, sono chiamato a partecipare alla missione di Cristo mettendo a disposizione, nella mia umanità, i doni divini della profezia, del sacerdozio e della regalità. E mi aspetto che altri profeti, re e sacerdoti (specialmente quelli chiamati alla funzione ministeriale) mi correggano nei miei errori, mi aiutino nella mia povertà con la stessa veracità che ha mostrato il Signore. Così operano le diverse membra che appartengono all’unico Corpo.
È, ad esempio, quello che ha fatto con me un mio amico laico quando, ascoltando il mio turbamento in seguito alla morte improvvisa di mio papà, mi ha indicato la strada. Ha parlato con me e mi ha rimandato ad un sacerdote. Da lì ne ho conosciuti diversi e la maggior parte di loro, in quel contesto, non mi ha fatto grandi discorsi ma tutti mi hanno suggerito strade lungo le quali il Signore si è affiancato a me e si è fatto conoscere e ri-conoscere, un po’ come accaduto ai discepoli di Emmaus.
Questo è l’altro punto che vorrei toccare con te.
Nell’esperienza di Dio nella mia vita ho visto che Lui parla e si serve degli uomini ma, in modo particolare e speciale, dei sacerdoti. Mi piace molto l’immagine che ne dà la Santa Vergine Maria a Medjugorje. Ella invita a pregare per i sacerdoti che sono stati scelti personalmente da Suo Figlio. Che gioia che mi viene trasmessa da queste parole! Che privilegio che avete e che hai! Quanto delicata ed importante è la vostra chiamata. Anche io, come tanti, sono stato chiamato da Dio: chiamato a vivere una condizione testimoniata da un anello d’oro all’anulare sinistro (è interessante e ci sarebbe molto da dire sul fatto che quell’anello si chiami fede nuziale. Per lungo tempo e fino ad un passato non troppo lontano, non solo si sposavano unicamente un uomo ed una donna ma il matrimonio si celebrava in Chiesa) ma è certamente una chiamata diversa dalla tua. L’abito che indossate non annulla la tua/vostra umanità come il mio anello non annulla la mia ma integra la natura umana con la chiamata divina, un qualcosa che a me vagamente ed imperfettamente rimanda a Gesù Cristo: una persona, due nature.
Porto grande rispetto specialmente per l’abito sacro e specialmente per le persone che hanno risposto alla chiamata di Dio, e mi spiace quando la mia fragilità mi fa andare oltre il dovuto, come avvenuto qualche volta con te, con don Brenna e con altri sacerdoti. Per questo la prudenza mi suggerisce diverse volte di non intervenire nei post, unitamente ad altri moventi tra i quali la considerazione che il compito di guidare il gregge di Dio e di indicare il bene ed il male, oltre all’insostituibile funzione sacra nell’assemblea eucaristica e di amministrare in modo unico alcuni sacramenti, spetta ai membri dell’ordine sacro.
Tuttavia, don Mauro, mi sembra che stia avvenendo qualcosa di diverso rispetto al passato e questo qualcosa, oltre a non poter fingere che non esista, mi interroga in profondità.
La cristiana maggiore attenzione alle pecore che sono fuori dal recinto sembrerebbe coniugarsi con il giustificarle e farle permanere fuori dal recinto stesso oppure invitandole ad entrare senza passare dalla porta che è Cristo (chi non entra dalla porta non è forse un ladro e un brigante?); sembrerebbe elevarne alcune – che oltre a dichiararsi pubblicamente atee si sono macchiate di atti particolarmente ignobili e delittuosi – a modello per tutti (rimanendo su un piano più basso rispetto a nostro Signore e alla Santa Vergine, le uniche donne e uomini che dovrebbero essere fonte di inspirazione per un cristiano non dovrebbero essere le Sante ed i Santi di Dio?); sembrerebbe che tra i mali più gravi vi sia il fare proselitismo – dal latino prosely̆tus e dal greco προσήλυτος, sopravvenuto, che nell’antica religione ebraica indicava chi si convertiva dal paganesimo al giudaismo – cioè parlare della bellezza di Gesù e di come questo incontro ci abbia cambiato la vita e ci renda felici (non è quello che ha fatto, ad esempio, con la sua testimonianza, la signora Maddalena Fabbri sul tuo blog?); sembrerebbe che non esista una verità unica, un Dio cattolico, che sforzarsi di camminare evangelicamente verso il Signore combattendo la tentazione dell’antico avversario, particolarmente attivo, da sempre, nell’indurre l’uomo a cambiare i parametri di ciò che è male con ciò che è bene, possa essere riconducibile tout-court ad un comportamento ipocrita.
Questo (apparente?) ribaltamento dei criteri di giudizio – alludeva (anche) a questo Benedetto XVI quando recentemente ha accennato al capovolgersi della barca petrina? – merita attenzione e vigilanza; richiede fede e speranza; impone, a mio avviso, la difficile azione di coniugare una voce, che dovrebbe essere il più possibile mite ed umile come quella di nostro Signore, che metta in guardia contro i rischi che si stanno correndo, ad un comportamento di rispetto e l’attenzione per l’altro, specialmente verso le tante persone ferite ed abbruttite dalla lontananza dal Signore, ponendo particolare rispetto ed attenzione nei confronti di ogni donna e uomo consacrato: in primis, ovviamente, rispettosi del Santo Padre.
“Spezzare” l’unità della Chiesa perché due gruppi la tirano in direzioni opposte renderebbe tutti responsabili di aver concorso, nel nome di Dio – paradosso nel paradosso – a realizzare l’opera del maligno.