Lettera di Valeria Bertilaccio – L’alleanza è il miglior interesse del paziente
La mia è una posizione scomodissima. Da non dormirci la notte. Da versare lacrime amare.
Perché in questi giorni, mentre tutto il mondo si chiude in un dibattito serrato sul fatto se sia giusto o meno che i giudici o i medici decidano per la sospensione delle cure di un bimbo affetto da patologia inguaribile, in opposizione alla volontà dei genitori, io mi costringo a restare un passo indietro, per cercare di capire come si sia arrivati a questo punto, cos’è che non ha funzionato.
Perché il dramma della vicenda di Charlie Gard mostra con evidenza la fragilità della società di oggi.
E’ scomodissimo “stare” di fronte al dolore di un bimbo in condizioni gravissime ma di fronte al dolore ci è chiesto di “stare”, come “stabat Mater”.
Tre anni fa, proprio di questi tempi accompagnavo mia figlia Maria Chiara alla nascita (e sulla sua nascita, sin dal quinto mese di gestazione, pochi avrebbero scommesso) e dopo 18 giorni la accompagnavamo alla sua nascita al Cielo dopo aver lottato contro una cardiopatia congenita, che nella sua specificità fu definita rarissima (quattro casi al mondo).
Una vicenda drammatica fatta di speranza e di abbandono fiducioso, di Amore e di umanità scoperta paradossalmente proprio nel limite umano.
E di questo limite vi voglio parlare.
La terapia intensiva ha l’impatto di una trincea di guerra. Io e mio marito ne siamo usciti temendo di non riuscire a elaborare le immagini che ci erano rimaste dentro e le parole difficili che ci erano state rivolte. Il dolore e la stanchezza dei genitori insieme al bombardamento di immagini laceranti e informazioni mediche molto tecniche, talvolta comunicate senza la minima empatia può risultare difficilissimo da gestire emotivamente.
E’ una trincea per tutti quelli che gravitano lì dentro, genitori ma soprattutto intensivisti e infermieri. E lì dentro ti rendi proprio conto di chi riesce a “stare” di fronte al dolore e di chi fugge o nasconde il suo limite nell’operatività affannosa.
Ho vissuto in trincea per 18 giorni e l’ho affrontata con un’unica arma: la preghiera.
A me non è stato dato di poter avere cura di mia figlia concretamente (lavarla, allattarla, tenerla in braccio) perché le sue condizioni erano talmente gravi che temevi di romperla anche sfiorandole un piedino.
Stare per 18 giorni di fronte a quella croce è stata per me un’esperienza radicale, di Amore.
Ho capito che quella bimba non era mia, che non era dei medici, che era lì solo perché il buon Dio l’aveva messa lì e chiedeva a tutti di starle accanto accompagnandola al suo destino. Un pezzo di Cielo nella infinita miseria delle nostre vite. E chi ha fatto quella esperienza con noi ha visto quanta potenza di Amore possa emanare un bimbo morente.
Questi bimbi sono afferrati dal Mistero e si portano dietro le loro famiglie. Di fronte a queste vicende bisognerebbe inginocchiarsi, bisognerebbe contemplare il dolore di questi genitori e sostenere l’operatività dei medici e a un certo punto bisognerebbe tacere, osservando un silenzio carico solo di preghiera.
Il limite umano è parte della natura umana, la morte è parte del destino di ogni uomo.
E se avessimo più coscienza dell’eternità forse la morte non ci farebbe così paura e non ci affanneremmo così tanto per far sopravvivere un bimbo un giorno o dei mesi in più.
Per chi si lotta? Per il bimbo o per noi stessi? A volte il limite tra queste due risposte è talmente sottile da non riuscire neanche a vederlo. E tutti i soggetti coinvolti dovrebbero porsele.
Io e mio marito ci stiamo confrontando con dolore su questa vicenda ed emerge, nonostante abbiamo fatto insieme la stessa esperienza, una sensibilità diversa. Questo mostra come non possa esistere un’unica verità, perché ogni caso è un caso a sé e la realtà impone di contemplarla nella sua totalità, con Amore.
La mancanza di pace, il conflitto che deriva dal bisogno di giustizia terrena, unita alla sofferenza per la grave malattia di un bimbo è, a mio parere, il vero inferno ed è quello per cui sto provando un dolore vivo.
Ho assistito anche mia madre nella sua malattia terminale, l’hanno sedata profondamente per non farla soffrire. E ci chiamarono d’urgenza per farcela salutare. Non abbiamo neanche avuto il tempo di elaborare se fosse giusto o meno privarci della sua presenza cosciente, delle sue ultime parole in quelle ultime ore ma ho compreso dopo, che in quel volto sereno di mia madre morente ci era stata data la possibilità di contemplare un pezzo di Cielo e tutti i frammenti scombinati delle nostre vite in quelle ore si sono in qualche modo ricomposti perché in quel momento c’era posto solo per l’Amore.
“Stare” significa imparare a rapportarsi col Mistero eliminando la nostra logica e i nostri pregiudizi o le nostre pretese.
Il rapporto col Mistero dona una grazia infinita che si manifesta in primo luogo nell’alleanza tra tutte le persone coinvolte nelle situazioni di dolore.
Tutto quello che la dottoressa Alessandra Rigoli scrive io lo trovo coraggioso e appassionato, la ringrazio per la sua chiarezza e colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente tutti i medici che si occupano tutti i giorni dei nostri bambini, pur con tutti i loro limiti umani.
Noi di limiti umani ne abbiamo visti tanti, a partire da noi stessi e dalla nostra fatica. Ci sarebbero stati estremi per ricorrere in giudizio contro la struttura anche nel nostro caso (perché in ogni situazione terminale resta sempre il dubbio che non si sia tentata la strada giusta e qualche sofferenza potesse essere evitata) ma la pace che ci è stata donata in grazia ci ha permesso di provare compassione, nel senso di “patire con” i medici che vivevano la morte di Maria Chiara come un fallimento personale. Li abbiamo aiutati a capire che non era un fallimento, che c’era un disegno più grande della loro riuscita personale, che avevano fatto tutto il possibile ma la vita di questi bimbi anche se è tra le loro mani, non dipende da loro.
Penso a Charlie e penso a mia figlia proprio nei giorni in cui ricorrono tre anni dal pieno compimento della sua vita, dal 24 giugno al 12 luglio 2014, e oggi Charlie lo sento anche un po’ figlio mio.
Ho dedicato tre anni a sostenere famiglie che hanno vissuto drammi simili al nostro. Anni in cui sono nate delle relazioni importanti e sono nati degli approfondimenti sul tema del “comfort palliative care” grazie alle suggestioni che l’intervento della dott.ssa Elvira Parravicini (neonatologa di New York) ha provocato in me durante un workshop a cui abbiamo preso parte, invitati come genitori, proprio da una dottoressa dell’ospedale, dopo la morte della nostra bimba. Due tesi di laurea sono state scritte sul tema dell’accompagnamento dei bimbi terminali, ispirate dalla vicenda di Maria Chiara e in una ho raccontato con fatica tutta la nostra vicenda ospedaliera proprio nell’intento di mettere in campo la nostra esperienza perché l’ambiente ospedaliero possa umanizzarsi sempre di più e tra i medici e i pazienti ci possa essere un’alleanza.
E’ quest’alleanza il migliore interesse del paziente, a mio avviso, qualsiasi decisione si prenda.
Senza i medici noi non avremmo potuto dare a nostra figlia una possibilità concreta di cure e Charlie, senza i medici, non sarebbe oggi attaccato al respiratore che lo tiene in vita.
Questo va detto. Con tutti i loro limiti umani, questi medici ce l’hanno messa tutta e ce la mettono sempre tutta.
Per un medico l’obiettivo è salvare la vita, prendersi cura del paziente, non “ammazzarlo” come ho letto in questi giorni sui giornali e se un medico intensivista pediatrico si trova di fronte al limite e propone la sospensione delle cure (ben diversa dal concetto di eutanasia, su cui si sta facendo molta confusione) non è sicuramente perché è criminale o perché tiene conto solo dei “costi-benefici”.
Se nelle terapie intensive pediatriche si tenesse conto solo dei costi-benefici vi garantisco che tante vite non si salverebbero. Sono testimone di situazioni estreme che si sono risolte al meglio e tutto per la perseveranza dei medici che spesso lavorano per più di 24 ore per non lasciare un paziente.
Per mia figlia in 18 giorni sono stati spesi 55.000 €, come abbiamo rilevato dalla cartella clinica richiesta successivamente, una cifra che mi ha fatto riflettere molto perchè mi ha dato la misura di quello che investe una struttura ospedaliera per questi bimbi. Ho conosciuto diverse famiglie con bimbi in attesa di trapianto che in terapia intensiva vivono per decine di mesi. E tante volte mi sono soffermata a pensare a quanti bimbi muoiono senza avere neanche le medicine per un’influenza.
A me è chiarissima la sproporzione di tutto e proprio perché mi rendo conto della sproporzione mi sembra opportuno muovermi in punta di piedi su tematiche del genere……perché quando ci si trova in mezzo ci si rende davvero conto che posizioni nette non ce ne possono e devono essere.
Le posizioni nette mettono a posto la coscienza, fanno sentire più sicuri ma la verità è che queste situazioni sono date per imparare a “stare” con amore di fronte alla vita e alla morte.
Occorre amore in queste vicende, un’apertura al dialogo e al discernimento….amore non solo nei confronti di un figlio ma anche nei confronti di chi quel figlio ha provato a salvarlo, e occorre amore non solo nei confronti del paziente ma anche dei genitori che fanno fatica a lasciare andare il proprio figlio.
Sono situazioni fatte di sfumature, non di certezze e l’amore, quello libero da ogni ideologia, tiene conto di tutta la fragilità umana che in questa vicenda purtroppo è emersa come protagonista.
La pace in questa vicenda la sto trovando nella preghiera per questa famiglia immersa nel dolore e nella rabbia, per i medici di tutto il mondo che stanno vivendo un vero incubo, per i giudici che si sono trovati coinvolti per incapacità di dialogo fra le parti e che infatti si sono rivelati impreparati e incapaci di una decisione “umana”.
Qui stanno perdendo tutti a mio avviso, ma c’è ancora tempo e forse Dio ce ne sta dando perché la vita di Charlie ci insegni a metterci insieme civilmente per salvare una vita, ognuno nel proprio ruolo ma ognuno a servizio dell’altro.
Grazie Charlie. Ti affido alla mia piccolina in Cielo con tutto il mio amore di madre.
Valeria Maria Bertilaccio nasce a Montalbano Jonico (MT) il 30.03.1977. Si laurea a Roma in Architettura e Ingegneria Edile nel 2004 presso l’Università di Roma La Sapienza. Lavora a Milano dal 2004 al 2009 come architetto libero professionista. Sposata con Andrea Bartoloni dal 2008, si trasferisce a Verona dove continua ad esercitare la libera professione di architetto fino ad ottenimento di impiego presso ente pubblico nel settore edilizio. Nel 2011 nasce Sofia, la primogenita e il 24 giugno del 2014 nasce Maria Chiara, una bimba affetta da cardiopatia congenita, nata e presa in cura presso l’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. Maria Chiara muore il 12 luglio 2014 a seguito di un complesso trattamento chirurgico e grazie alla sua storia sono state pubblicate due tesi di laurea in ostetricia e in anestesia pediatrica sul tema del “palliative comfort care” nella speranza di poter umanizzare i percorsi ospedalieri dei bimbi terminali a sostegno delle famiglie dei degenti
Qui un articolo più ampio sulla storia della figlia di Andrea e Valeria, Maria Chiara
Breve biografia di Maria Chiara Bartoloni
Maria Chiara nasce e viene subito battezzata da suo padre il 24 Giugno 2014 a Bergamo, nel giorno della memoria della nascita di San Giovanni Battista, alla trentanovesima settimana di gestazione.
La diagnosi alla nascita è più severa di quella già nota in fase fetale ma Maria Chiara non dà segni evidenti di sofferenza per cui ai genitori sono concessi alcuni giorni per poter conoscere la loro bambina.
Il 2 Luglio, il cardiochirurgo, dopo 10 ore di sala operatoria, descrive la malformazione del suo cuore come “molto rara” per cui, nonostante l’intervento sia tecnicamente riuscito, il cuore di Maria Chiara non riesce a ripartire da solo e così la bimba viene collegata ad una circolazione cardio-polmonare extracorporea tramite un supporto meccanico.
La catena di preghiere che era già partita da alcune settimane, anche attraverso la rete di Internet, raggiunge molte persone nel mondo alle quali si uniscono anche persone di altre religioni e atee.
Il 12 Luglio, nel giorno della memoria dei coniugi Martin, genitori di S.Teresa del Bambin Gesù, a cui Andrea e Valeria si erano devotamente rivolti con la preghiera, Maria Chiara torna al Padre: i genitori hanno la sensazione che Dio l’abbia accolta solo nel momento in cui loro gli hanno chiesto di accoglierla, come in un amorevole dialogo su un figlio condiviso.
Il 15 Luglio si sono svolte nella Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Verona le sue esequie e, durante la celebrazione, la storia di Maria Chiara ha lasciato in ognuno dei presenti un messaggio: “i figli non sono dei genitori; questi ultimi non possono decidere della loro vita, ma solo amarli e accompagnarli al compimento del loro destino e quanto più questa compagnia è lontana dal possesso tanto più è feconda d’amore e di libertà”.
Maria Chiara ha cambiato lo sguardo di molti nei confronti della vita, dell’amore e della sofferenza; ha reso evidente quanto possa esser sacra e compiuta pienamente agli occhi del Padre e anche agli occhi degli uomini una vita pur così breve.