
Le Lettere di Alex – Uno sguardo tenero, affettuoso e sereno (ma timido) della Chiesa alle relazioni omosessuali
Sergio è il nickname di una persona omosessuale che ha già scritto sul blog. Da giugno del 2017 ha cambiato nickname in Alex
Caro don Mauro,
per noi persone omosessuali, nella Chiesa cattolica dopo l’affermazione: “Dio ti ama così come sei” finalmente non ci sono più dei “se” e dei “ma” pesanti come macigni. Finalmente le diversità non sono più profanate: non sono più incasellate in rigide differenze. Dio crea le prime con le loro sfumature, l’uomo impone le seconde con rigidi steccati. Queste sfumature vengono documentate nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia (AL) resa pubblica l’8 Aprile 2016 al termine del sinodo sulla famiglia. E’ una lettura che va assolutamente fatta da parte di chi si interroga sull’amore, sulla famiglia e sul sesso: contiene in sé l’attesa rivoluzione di uno sguardo della Chiesa umano e incarnato – e per questo anche divino in senso cristiano – sulle realtà e sulle situazioni affettive presenti in questa vita creata da Dio su questa terra. “Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino” (AL 297). Chi interpreta non lo fa semplicemente applicando un’analogia, ma perché in modo esplicito, con un criterio generale, il Papa comprende tutte le situazioni.
Dal punto 250 in poi, AL mi ricorda che il sogno di Dio nel quale sono nato e cresciuto è la famiglia con un papà e una mamma. Lo stesso sogno benedetto nella Bibbia attraverso il quale si genera, cresce e si plasma la vita sulla terra. Dio solo sa quanto valore ha per me il fatto che questo sogno, nella mia famiglia, sia rimasto indissolubile e sia pertanto una realtà apportatrice di sicurezza, felicità e amore. Io non posso che testimoniarne e proclamarne la ricchezza e l’importanza immensa per la mia vita e per la vita di ogni essere umano. E’ per questo che sono convinto che un’unione tra persone omosessuali non ha “analogie neppure remote” (AL 251) con il “disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. I termini sono precisi ed inequivocabili: sul matrimonio e la famiglia, non sull’amore e la vita di coppia. Ogni omosessuale di buon senso e con un percorso serio di accettazione alle spalle sa bene che il mito dell’uguaglianza è pericoloso, ma soprattutto irrazionale e riconosce ed abbraccia la sua inevitabile diversità che la vita gli ha assegnato non nell’amore, ma certamente nella possibilità di sposarsi e procreare.
Disegno divino su matrimonio e famiglia non è dunque disegno divino tout court, che invece abbraccia eccome la varietà della natura da Lui creata, la quale esprime forme di amore non per forza rispondenti a queste due realtà sociali e sessuali. La natura e gli eventi della vita esprimono forme di amore che il documento chiama “irregolari”, ma che meno infelicemente potrebbero essere definite “non ideali”.
Non siamo matrimonio e famiglia e non certo per nostra scelta, ma siamo capaci di relazioni d’amore e questo ci basta per stare nel disegno di Dio. Se la vita per noi non ha voluto il matrimonio e ci ha messo alla “periferia” (AL 312) della principale cellula sociale, è periferia solo per gli uomini. Lui invece offre una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita” (AL 296 e 297). Nel Suo cuore, che abbraccia la vastità e la varietà dei disegni di amore e di buona volontà di ogni uomo, noi persone LGBT non restiamo in periferia. E’ per questo che dovremmo aspettarci accoglienza pura e amore incondizionato più nella Chiesa che nella società.
Che tenerezza questa Chiesa che, come un lattante alla scoperta della vita, dischiude lentamente gli occhi, acuisce a mano a mano i suoi organi percettivi, pian pianino si accorge dell’essere umano e impara a riconoscerlo così come gli si presenta (sì esatto, c’è un filo d’ironia! NdA). Una Chiesa che volge lo sguardo all’incarnazione dalla quale è nata e offre una pastorale che finalmente ha scoperto l’unicità e la concretezza di ogni singola situazione affettiva reale. Quando questa è “irregolare” (AL 296), diversa cioè da ciò che insegna la Chiesa, ha delle pecche: comporta un peccato e non va di certo ostentata o imposta (AL 297), ma non potrà mai più essere qualcosa da trattare col giustizialismo del “bianco o nero” (AL 305) o con un’aprioristica “morale fredda da scrivania” (AL 312). “Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante” (AL 301). Mi sembra di sentire Gesù che dice “Chi poi dice al fratello: “stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna” (Mt 5,22). Per una una situazione “particolare” occorre un discernimento senza valutazioni predeterminate, ma fatto di “ascolto”, di “tenerezza” e di “affetto e serenità” (AL 312). Proprio così, ascolto, tenerezza, affetto e serenità: parole che sono un balsamo quando vengono messe in pratica. Parole che, come Gesù, sono favorevoli all’elasticità della vita e non alla rigidità del “sabato”.
La dottrina si sta sviluppando nel seno di una pastorale sempre più convertita. Forse grazie a quei dubbi che i discepoli hanno avuto numerose volte, persino quando hanno visto il Signore risorto ascendere al cielo (Mt 28,17). Gli stessi dubbi di chi sente una profonda differenza tra ciò che gli dice la coscienza sul bisogno di amare ed essere amato, e ciò che dice la consuetudine, la tradizione, la dottrina. Che furono le cose per le quali Gesù è stato torturato e appeso in croce, ricordiamolo. I dubbi sono dei discepoli, le ferree certezze “bianco o nero” sono dei fanatici. I dubbi aprono all’ascolto rispettoso, “tenero, affettuoso e sereno”. Le certezze invece chiudono, sono illusorie per chi le ha e a volte letali per chi le subisce. Soprattutto quando sono “pietre morte” (AL 49) lanciate da “cuori chiusi” (AL 305). Forse questi santi dubbi hanno iniziato a lavorare nella storia della Chiesa, che si spera si renderà conto che distinguere l’atto dalla persona non ha senso quando l’“atto” in questione è semmai “relazione”. Relazione perché riguarda più che mai un aspetto fondante dell’identità, dell’essere, del progettare, del vincere la solitudine, del creare unione e solidarietà: della letizia dell’amore. Solo la paura rende l’amore imperfetto, non le distinzioni umane. Questo amore, così potente e vario, che da Dio è creato e rinnovato nelle sue diversità, ma dagli uomini è incasellato e impoverito nelle differenze.
Uno dei dilemmi che più di tutti mi teneva tragicamente a disagio e fuori dal mondo era questo: «se io esisto in natura, come sarebbe a dire che i miei “atti” sessuali sono “contro natura”?» Uno dei cliché con cui i confessori più frequentemente sferravano il colpo di grazia era che anche l’alcol esiste in natura, ma l’alcolista deve impegnarsi a non bere oppure anche la pedofilia o l’animalismo esistono nella realtà umana, ma vanno curati. Sbigottito, non riuscivo nemmeno a comprendere io stesso cosa mi lasciasse tanto attonito, ma poi l’afferravo. Era l’incapacità dei confessori di avere quell’ascolto tenero, affettuoso e sereno a cui ora sono chiamati. L’incapacità di comprendere una cosa che ritenevo fosse sottintesa nel mio discorso: l’amore. Quando provavo a ribattere timidamente chiamando in causa il sentimento che accompagnava il mio “atto” e chiamavo il mio atto “relazione”, il cliché successivo era la prospettiva della croce quale rinuncia a questo sentimento “contrario alle leggi di Dio”. «Ho nel cuore le leggi di quale Dio?» A quel punto ero totalmente incartato in una contraddizione assurda: «Dio è amore con dei “se” e dei “ma”?» «Devo crocifiggere il mio amore per seguire Cristo che però mi ha comandato l’amore?» “La via è stretta”, “non entrerai nel regno di Dio”, più un pizzico di “psicopatologia” e di “satana” qua e là e il risultato è stato anni e anni di relazioni distrutte dall’insicurezza più terrificante e dalla clandestinità più buia, seguiti da anni di disimpegno affettivo e di progressivo allontanamento dalla Chiesa. Una pastorale mortifera, anche se io fortunatamente sono ancora vivo, ma c’è chi non lo è più. Basta vedere il film tratto da una storia vera “Prayers for Bobby” (nel link, la testimonianza di Mary Griffith, assolutamente da vedere).
L’Amoris Laetitia oggi invece mi fa capire che i cliché predefiniti non sono lo sguardo di Gesù. Mi fa capire che questi pastori abusavano del loro mandato, che non era di sostituirsi alla mia coscienza (intimandomi, ad esempio, in confessione di lasciare il ragazzo che amavo), ma di illuminarla (AL 303) nelle sue fragilità e imperfezioni, aiutandomi a fare “il bene possibile” (AL 308).
Di certo dopo Amoris Laetitia non è più tollerabile che tanti agguerriti “difensori della legge” vogliano ridurre la funzione di Dio a quella di un arcigno guardiano degli orifizi. Credo che Dio guadagni molto in immagine trasformandosi da una “verità” che assomiglia ad un pene inserito in una vagina, ad una verità di Padre che imprime, nella Sua creazione, un marchio caratteristico: la diversità dei suoi figli a cui dona vita e amore come vuole. Se fosse questa “la verità”?
Chissà quando, con questo “ascolto tenero, sereno e affettuoso” che promette l’Amoris Laetitia, un giorno anche la mia Chiesa riumanizzata scoprirà che l’amore omosessuale è la prova tangibile che il motore principale dell’universo è talmente potente, sorprendente e senza confini da riversarsi e manifestarsi come vuole nelle donne e negli uomini. E’ il segno di contraddizione che ci mette alla prova per vederci uniti in un solo amore e per saggiare quanto siamo in grado di vivificare con lo spirito e attenti a non uccidere con la lettera (2Cor 3,6).
Amoris Laetitia ovviamente non deve far abbassare la guardia a noi cattolici omosessuali, ma al contrario deve toglierci il bavaglio dalla bocca, deve risvegliarci nelle nostre esigenze pastorali, deve unirci per spingerci a chiedere ai vescovi che questo ascolto venga realmente inaugurato. Amoris Laetitia può permetterci di esprimere a laici e consacrati cattolici i sentimenti della nostra condizione. “Particolare”, “irregolare”, non ideale, diversa, atipica, insolita, inusuale, minoritaria, appartenente alla varietà di condizioni e situazioni affettive della vita sulla terra. Non del mondo delle idee.
La storica richiesta di perdono ai gay del Papa da parte dei cristiani implica, come ogni richiesta di scuse, un progressivo ed intimo cambiamento, a meno di non risultare un’ipocrisia. La valorizzazione del “bene possibile” nelle situazioni “irregolari” (che tradurrei con “non ideali”) è la via del cambiamento. La civiltà cattolica – che ha superato le sue posizioni sulla schiavitù, sul ruolo della donna, sull’antisemitismo, sul matrimonio misto, sul rapporto con la scienza, con le altre religioni e su tante ingiustizie sociali e querelle ereditate dalla tradizione – è l’unica realtà che rischia di ostacolare o rallentare questo cambiamento verso la piena comprensione e l’istituzione di una liturgia di benedizione delle unioni omosessuali. Dopo Amoris Laetitia non è più il caso di strapparsi le vesti.
Con ascolto, tenerezza, affetto e serenità,
Sergio.