
La Repubblica – “Non amo calcio e videogame anche gli amici ridono di me e dopo io mi sento a pezzi”
Pubblichiamo due articoli pubblicati su La Repubblica il 4 giugno: il primo è il tema di Ivan, il secondo è un articolo di Michela Marzano
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Pubblichiamo in questa pagina il tema di Ivan (nome di fantasia) svolto in risposta alla traccia “Inventa un racconto in cui sono presenti i seguenti personaggi: una vittima, un gruppo di ragazzi prepotenti, degli spettatori, un adulto. Soffermati sui dialoghi e sugli stati d’animo dei diversi personaggi. Alla base del racconto può essere un fatto realmente accaduto o un episodio verosimile. Scegli un finale che preveda uno scioglimento positivo o una soluzione negativa”. Quando la sua insegnante riconsegna i lavori (dando 10 al contenuto di Ivan, 8/9 alla forma), chiede al ragazzo se vuole leggere pubblicamente il suo, e lui lo fa. I risultati sono tangibili: alcuni ragazzini coinvolti negli episodi raccontati nel tema chiedono scusa. Anche se non tutti.
ALCUNE persone all’apparenza stanno bene, ma muoiono dentro. Io sono Ivan e ho dodici anni. Vivo in una cittadina del Centro Italia, in una famiglia modesta, ma senza amici. Fin da quando ero all’asilo non ho mai amato i giochi da maschio: calcio, carte, giochi elettronici… A me non sono mai interessati. Preferivo stare con le femmine, più interessanti, a mio parere.
Ero diverso, non sbagliato. Venivo preso in giro, deriso davanti a tutti, perfino i miei amici partecipavano, per poi chiedere pateticamente scusa. “Mamma, ma perché mi trattano così? Cos’ho che non va?!?!”. “Tranquillo, amore: sono solo invidiosi!”. Io non credo proprio.
Poi arrivo alle elementari, un’occasione di riscatto, lasciando il passato alle spalle. La prima cosa che i compagni notano di me è la mia voce, acuta, squillante, diversa da quella degli altri maschi. Conoscevo qualcuno, ma erano proprio quelli che mi guardavano con più disprezzo. Ero solo, di nuovo.
Successivamente lego con due bambine, diventano le mie migliori amiche. Nonostante il nostro profondo legame cerco di stare lontano da tutte e due, temevo che se mi avessero conosciuto meglio se ne sarebbero andate. Le offese si ripetono, non erano pesanti, ma era il modo in cui le dicevano che mi feriva.
Passano quattro anni e arrivo in quinta. Le prese in giro gradualmente finiscono e riesco finalmente ad entrare nel “mondo dei maschi”. Francesco, Flavio, Domenico, Roberto: eravamo inseparabili. Con l’arrivo in questo nuovo “mondo” o semplicemente un “diverso punto di vista” (come diceva papà) alcune cose cambiano in me. Inizio a seguire la moda, carte e gameboy sparsi per tutta la camera. Ero felice, finalmente.
Nella classe però c’erano alcuni ragazzi più emarginati, capivo come si sentivano e cercavo di stare vicino anche a loro: Alfredo, Saverio, Livio e Mario. Purtroppo questo bellissimo anno finisce.
Iniziano le medie. C’erano tutti: Livio, Domenico ecc… Entro a testa alta, fiero dell’anno precedente. Ma magari avrei dovuto abbassarla. Ginnastica, il mio punto debole. Non essendo interessato agli sport non ne avevo mai praticato uno. “Tutti alla sbarra! Flessioni!” urla il prof di ginnastica. Fiero di me mi getto sulla sbarra, faccio più flessioni che posso. Ma poi mi fermo. Tutti mi guardano. Uno dei compagni rompe il silenzio: “Ma cosa sei? Una femminuccia?!? “. “Già: scommetto che non sai nemmeno saltare!”.
Tutti ridono, mi indicano come se fossi un fenomeno da baraccone. Ero a pezzi. “Omosessuale” “Trans” , ormai era così che mi chiamavano. Inizio con l’autolesionismo, una droga potentissima di cui non puoi più fare a meno. Mi chiedo come sarebbe bere quel bicchiere di candeggina sopra la lavatrice.
Un giorno vado al mare con Domenico e Francesco. Vedo in lontananza Alfredo, Saverio e Livio con cui avevo chiuso i rapporti. Si avvicinano e mi spingono a terra, sento un calcio, poi un altro ancora, iniziano a picchiarmi. Vedo Francesco e Domenico dietro di me, pietrificati, non reagiscono semplicemente perché non vogliono vedere. Mi lasciano a terra senza nemmeno la forza di piangere. Torno a casa e mi chiudo in camera.
Accendo il telefono “Cento nuovi messaggi dal gruppo antIvan”. Il gruppo l’aveva creato Alfredo, c’era tutta la scuola. Leggo solo insulti, nessuno mi difende. “Ivan” chissà se ricorderanno questo nome, una volta che non ci sarò più. Apro la finestra e mi lascio andare. È finita, finalmente in pace. Sono diverso, non sbagliato.
Quella professoressa che è riuscita a capire il disagio di un adolescente fragile (di Michela Marzano)
SONO diverso, non sbagliato», scrive Ivan alla fine di un tema in cui la professoressa di italiano ha chiesto ai propri alunni di raccontare la storia di un ragazzo o una ragazza vittima di bullismo. A dodici anni ognuno di noi è convinto di non essere all’altezza delle aspettative altrui e pensa che gli altri ce la facciano meglio, riescano meglio, siano meglio. A quell’età, nessuno sa esattamente chi è e che cosa vuole. A quell’età si ha solo bisogno di essere rassicurati che si va bene così come si è e che, anche se di cose da imparare ce ne sono tante, ciò che si “è” non lo si deve modificare.
È IL problema del “riconoscimento”, come direbbe il filosofo tedesco Axel Honneth: essere amati per quello che si è, senza bisogno di cambiare o di fare uno sforzo per adeguarsi a ciò che gli altri si aspettano da noi; tanto siamo tutti e tutte diversi non solo da quello che gli altri vorrebbero che noi fossimo, ma anche da quello che talvolta noi stessi vorremmo essere. Ma questo, ai più piccoli, lo si insegna. Almeno quando si prende sul serio il proprio ruolo educativo e la si smette di credere che, per essere bravi docenti, basti trasmettere un sapere nozionistico. La scuola serve a sfatare i miti e a decostruire i pregiudizi, a insegnare il rispetto e a trasmettere la tolleranza. Solo così si possono aiutare i più piccoli a crescere, riconoscendo e accettando non solo le altrui differenze, ma anche la propria alterità.
È da quando è bambino che Ivan si sente diverso: preferisce giocare con le bambine, non ama il calcio, canta, è timido. E, quando si è bambini, è facile che le diversità diventino un macigno di cui non ci si riesce a sbarazzare.
Soprattutto quando si diventa il bersaglio della cattiveria di quanti, forse a loro volta insicuri e diversi, cercano di rassicurarsi sulla propria “normalità” identificando un capro espiatorio su cui far convergere paura e aggressività. Ormai lo sappiamo bene: i bambini e gli adolescenti possono essere crudeli. Anche quando tutto comincia un po’ per gioco. Quando il bulletto di turno vuol sentirsi più forte degli altri e cerca di attirare l’attenzione generale prendendo in giro un compagno o una compagna di scuola. Quando gli amici lo seguono per divertirsi anche loro. Quando i più fragili e i più vulnerabili cominciano a stare male e non sanno come fare per uscire da quel meccanismo perverso di umiliazioni e violenza che, se non viene interrotto, non smette mai di autoalimentarsi. Come si fa d’altronde a crescere in modo equilibrato se nessuno ci spiega che non esiste un modo “giusto” o “sbagliato” di essere maschietti o femminucce e che ognuno ha il diritto di giocare con chi vuole, di amare o meno lo sport, di essere attirati da un compagno dello stesso sesso o del sesso opposto? Come si fa a capire che le diversità sono parte integrante della nostra ricchezza e che è l’unicità di ognuno di noi a renderci preziosi se gli adulti restano indifferenti alle dinamiche talvolta estremamente brutali che spesso si mettono in moto proprio all’interno della scuola?
Quando si è piccoli non si hanno gli strumenti adeguati né per difendersi dagli altri né per nominare in maniera corretta quello che si prova o come ci si sente. Mancano le parole, manca la forza, talvolta manca anche la voglia di reagire. Ci si convince pian piano che si è sbagliati dentro, che da qualche parte c’è stato un errore, che forse non si ha nemmeno più il diritto di continuare a vivere. A meno che non intervenga qualcuno che, come la professoressa di Ivan, riesce a trovare il modo affinché all’interno di una classe siano i ragazzi a scoprire che ognuno di loro è diverso da tutti gli altri e che nessuno è sbagliato.
Tratto da La Repubblica