L’Angolo del teologo – Controcorrente
Attraversare l’anno liturgico mi dà sempre più il gusto di un viaggio avventuroso e imprevedibile. Si inizia in penombra: l’avvento. E si procede alla luce di una fiammella, che è la nostra attesa, il nostro desiderio, per paesaggi brulli, per le steppe interiori di chi scommette su quella nudità per fare il vuoto ed essere riempito. E poi il Natale: l’arrivo di un Bimbo, la novità di un paesaggio tutto cascate e ruscelli, e freschi germogli. Imparare a scoprire la presenza di Gesù che nasce e cresce in noi dandoci carne e respiro, per farci entrare poi nel tempo ordinario dell’esistenza: quella campagna feconda dove si semina, si lavora, si attende, e al momento giusto si raccoglie vita.
Ad un certo punto una svolta: il sentiero si avventura per una regione montuosa. Già si intravedono basse colline a riempire l’orizzonte, e a preannunciare un passaggio ad alta quota. È tempo di quaresima, tempo di ascesi. Parola un po’ in disuso, ma tanto bella: perché “ascesi” significa esercizio, e quindi cammino in salita. Esperienza faticosa ma elettrizzante, che riesce ad unificarci nella tensione verso la meta. Il passo si deve fare regolare, il respiro profondo, la parola essenziale. Fin da piccola con tutta la famiglia salivamo sulle pendici del Monte Rosa, e papà, il capo spedizione, impartiva ordini severi persino su cibo e acqua. E mia sorella ed io, attente a quei segreti, sentivamo una gioia speciale nel riceverli e nel farci condurre fino in cima, perché sì, ci saremmo arrivate, e la fatica si sarebbe rotta nella gioia, e il sudore avrebbe testimoniato che quella vetta, quel rifugio, sarebbero stati un po’ anche nostri.
Ecco: anche la vita dello Spirito ha la sua pedagogia, ha i suoi esercizi. L’ascesi è unificante e semplificante, ma solo se vissuta nella fiducia dei figli. Voglio dire che c’è un rischio: di salire in solitaria, tutti tecnica e concentrazione, corde ramponi ed elmetti, per piantare in cima al monte la nostra bandiera, quella di chi ha conquistato la cima perché è stato bravo, perché è forte, perché ha meritato la vittoria e si è salvato da sè. Ma che si ritrova su quella vetta solo, al freddo, perché là sopra tira un vento malefico, come su quella cima del pinnacolo del tempio dove Satana in persona (che Chesterton definisce un’ottima guida alpina) voleva condurre il Figlio di Dio.
La quaresima non è la salita dell’orgoglioso sopra tutti gli altri, ma il viaggio di un popolo umile che si lascia ricondurre al Padre, perché riconosce che già abbastanza ha vissuto lontano da Lui. E allora si cammina nell’ascolto della Parola che ci guida (la preghiera), nell’obbedienza ai passi che la Parola ci propone, e che di solito non hanno nulla di frettoloso e in controtempo, nella condivisione dei beni materiali e spirituali con i fratelli (l’elemosina), che oltre a far bene a loro fa bene a noi, nell’essenzialità propria di chi sa dove sta andando ed è proteso alla meta, e dunque non ha voglia di caricarsi di ciò che lo appesantisce (il digiuno). Certamente si tratta di “andare controcorrente” (che, sempre Chesterton ce lo ricorda, è il movimento proprio delle cose vive) quando la forza di gravità ci trascinerebbe in basso, che ancor più che una connotazione morale dice disordine, distrazione, quella mancanza di unità che è perdere se stessi e il proprio destino: è puro chi “vuole una cosa sola”, e per questo la quaresima è un cammino di purificazione.
Che non si basa, però, sulle nostre forze, quasi a convincerci di non aver bisogno di nessuno per essere salvati, ma sull’accoglienza della grazia: preghiera, elemosina e digiuno non ci chiedono di diventare atleti masochisti, ma ci educano piuttosto a “dipendere” da un Altro, e dagli altri. Di lasciarci condurre da un Altro, riempire da un Altro, vincere in generosità da un Altro, che non è uno sconosciuto ma un Padre. Una pedagogia, dunque, che ci insegna a vivere da figli in maniera concreta, investendo gesti quotidiani, scelte feriali, e dunque figli non solo nelle buone intenzioni o nelle etichette, ma gente che orienta e scommette in questa figliolanza il tempo e il corpo, che è quanto di più intimo possediamo. Diventare figli fa di noi gente che ama non per rigore di volontà, ma perché ha sperimentato quanto è stata amata. Lì, sulla vetta, davvero c’è un vento freddo, ma c’è anche tutto il calore del sangue del Figlio che sta dando la vita. É in quelle ferite che troveremo il nostro rifugio, nel Venerdì santo del suo dolore. E, se siamo morti anche noi con Lui, il giorno della Resurrezione sarà anche un po’ nostro, perché avremo sperimentato che dimenticarci di noi ci fa più vivi. E comincerà la Pasqua, tra il rosso dei rododendri che fa divampare in estate le montagne.