L’angolo del teologo – Come recuperare il positivo del termine proselito senza cadere nel “proselitismo”
Non di rado accade di trovare alcuni cristiani che si meravigliano dei modi decisi con cui Papa Francesco condanna l’uso della parola “proselitismo” e in genere del “fare proselitismo“.
Il disappunto di alcuni nascerebbe dal fatto che l’espressione “fare proselitismo” e “proselitismo” sarebbero state usate “da sempre”. Costoro concedono che negli ultimi anni il termine proselitismo avrebbe preso la connotazione negativa di “fare pubblicità” alla propria religione con mezzi e motivi contrari allo spirito del Vangelo perché non salvaguardano la libertà e la dignità della persona, ma sostengono che agli inizi del cristianesimo – addirittura fin dal tempo degli antichi Ebrei – non era così. Allora “fare proselitismo” veniva addirittura usato come sinonimo dell’attività missionaria: era oggetto di “proselitismo” chi, proveniente dalle “genti”, passava a far parte del “popolo eletto”. In tal modo, così spiega chi si infastidisce delle condanne di Papa Francesco verso il “proselitismo”, anche in ambito cristiano il termine proselitismo veniva spesso utilizzato come sinonimo del fare apostolato, dell’attività missionaria. L’esegeta Marco Valerio Fabbri, in questo suo lucido scritto, fa comprendere come in realtà, la questione sia un po’ più sottile
Il termine «proselito», originario della Bibbia greca, originariamente ha contenuto positivo. Invece il termine «proselitismo» compare nella lingua greca soltanto in epoca moderna e in un contesto di polemica. Spesso nelle diatribe sul carattere positivo o negativo del “proselitismo” si ignora la distinzione fra i due termini «proselito» e «proselitismo». Per passare dall’uno e l’altro termine occorrono in greco due trasformazioni.
Nella Bibbia ebraica si usa gēr, participio presente del verbo gûr «abitare», per indicare lo straniero «che abita» in seno al popolo d’Israele. Il gēr «residente» è menzionato in testi di validità perenne, come il Decalogo. Il gēr, fra l’altro, è uno di quelli che il settimo giorno dovranno astenersi dal lavoro e osservare lo shabbat, il riposo (cfr. Dt 5,14). La motivazione del Deuteronomio è che lavorare il settimo giorno sarebbe equivalente a ricadere nella schiavitù d’Egitto, che aveva messo gli stranieri ebrei ai lavori forzati (cfr. Dt 5,15).
Nella LXX, cioè nella traduzione della Bibbia detta “dei Settanta”, l’ebraico gēr è tradotto προσήλυτος «prosêlytos», termine formato dalla preposizione πρός «pros» «verso, presso» più una delle radici del verbo «andare», usata nell’aoristo ηλ(υ)τ/θ-
In senso sociologico quindi, il proselito è uno che si è avvicinato, che è venuto ad abitare in mezzo al popolo. In senso religioso il termine viene poi usato per indicare i gentili che volevano entrare nell’Alleanza e osservare la Legge di Mosè. Nel giudaismo è chiesto loro di circoncidere i maschi, proprio come se fossero Israeliti.
Né la LXX né nel giudaismo di lingua greca sono ancora presenti termini derivati. Filone d’Alessandria usa il termine prosêlytos di rado, e quando lo fa sente il bisogno di spiegarlo, evidentemente perché non gli sembrava chiaro per i suoi lettori di lingua (De specialibus legibus 1, 51). Giuseppe Flavio evita del tutto il termine.
Nel Nuovo Testamento e nei Padri di lingua greca è conosciuto soltanto il sostantivo προσήλυτος «proselytos» e il verbo προσηλυτεύειν «prosêlyteuein», che significa «essere proselito».
Invece il verbo προσηλυτίζειν «prosêlytizein» («fare proseliti») non è mai usato nel Nuovo Testamento, neppure quando ce ne sarebbe l’occasione. Leggiamo, per esempio, l’apostrofe di Mt 23,15: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito». Qui si dice appunto ποιῆσαι ἕνα προσήλυτον «poiêsai hena prosêlyton». Nel contesto dell’apostrofe lo sforzo dei farisei appare vano.
Il verbo προσηλυτίζειν «prosêlytizein» non è conosciuto nei grandi lessici di Liddell-Scott (A Greek-English Lxicon) e di Lampe (A Patristic Greek Lexicon). Si può perciò escludere che il verbo sia usato dai Padri greci. Poiché il termine manca anche nel Suidae Lexicon, nell’Etymologicum magnum, nell’Etymologicum auctum e nell’Etymologicum Gudianum, sembra probabile che il verbo prosêlutizein sia nato intorno al 1600, nella polemica sull’azione apostolica di san Giosafat, che gli ortodossi chiamavano «raptor animarum» (cf. la biografia del santo nella Liturgia horarum).
Nella lingua greca per arrivare al sostantivo προσηλυτισμός «proselitisimo» è necessaria un’ulteriore derivazione a partire dal verbo prosêlytizein. Il sostantivo προσηλυτισμός è formato dalla radice del verbo seguita dal suffisso -μός, che caratterizza i nomina actionis, e designa «l’azione di fare proseliti». Secondo un lessico di greco moderno il sostantivo è attestato soltanto dal 1855 (https://el.wiktionary.org/wiki/ προσηλυτισμός).
Probabilmente la lingua francese ha preceduto quella greca, giacché M. de Montesquieu usa il termine nelle Lettres persanes del 1721. La lettera 85, Usbek a Mirza. A Ispahan, paragona «cet esprit de prosélytisme» a una malattia epidemica trasmessa dagli Egiziani agli Ebrei, e da questi ai cristiani e ai maomettani. Lo scettico Montesquieu polemizza così contro tutte le religioni positive.
Ciò non toglie che molti autori spirituali abbiano usato il termine per indicare un processo governato dalla grazia di Dio. Ma non è affatto chiaro che il contenuto positivo che essi attribuiscono a «proselitismo» sia il senso originale del termine. Se, come pare, il termine greco è recente, sembra più probabile che gli autori spirituali francesi, spagnoli e italiani abbiano preso il termine dalla lingua francese, ma gli abbiano attribuito connotazioni positive, nello sforzo di contrastare la polemica illuministica contro la religione.
Per tutte queste ragioni non si può sostenere che il termine greco «proselitismo» sia nato in ambito giudaico. Non l’hanno usato né la traduzione dei LXX, né il Nuovo Testamento. Neppure l’ha positivamente proposto il Magistero della Chiesa. Quando il Magistero recente l’ha usato è stato per prendere le distanze dal senso negativo che molti gli attribuiscono. A ben considerare, se il termine «proselitismo» fosse usato dalla Bibbia o dai Padri, difficilmente gli ultimi due Papi Benedetto XVI e Francesco l’avrebbero usato solo in senso negativo, e neppure avrebbero invitato a lasciarlo cadere.
Il motivo della ripulsa è che il sostantivo «proselitismo» indicherebbe l’azione di uomini che cercano di ottenere un effetto strettamente soprannaturale (la fede) con risorse meramente umane; di qui che il termine abbia connotazione negativa presso i cristiani che oggi ancora parlano o leggono il greco.
Si può invece recuperare il valore positivo del termine «proselito». Il vero gēr / προσήλυτος è un uomo che si avvicina al popolo di Dio perché se ne sente attratto. Nel Nuovo Testamento l’attrazione è presentata come risultato dell’iniziativa dello Spirito Santo.
Marco Valerio Fabbri insegna greco e Sacre Scritture a Roma, alla Pontificia università della santa Croce. Qui il suo account Twitter
Ricordo che anche per “L’angolo del teologo” vale ciò che vale per ogni Lettera, e cioè che l’autore è l’unico responsabile di quanto ha scritto