Blog / Sandokan | 14 Gennaio 2017

Le Lettere di Sandokan – Metro

Poiché Cristo stesso è presente nel Sacramento dell’altare, bisogna onorarlo con un culto di adorazione. La visita al Santissimo Sacramento «è prova di gratitudine, segno di amore e debito di riconoscenza a Cristo Signore» – CCC, 1418

Imparai a fare la visita al Santissimo Sacramento in una casa dell’Opus Dei. Voglio dire che imparai a farla in un certo modo, ritualmente, recitando certe preghiere, con regolarità, seguendo ciò che facevano altri. Mi dissero che era il “modo” con il quale faceva la “visita” il fondatore dell’Opus Dei, usando parole che anche lui aveva imparato da altri e che sono arrivate fino a me, perché io potessi usarle o sceglierne di nuove, come mi sembrasse meglio.

Per un certo tempo pensai che non avevo mai fatto una cosa del genere, pensai di aver aggiunto una novità nella mia vita, ma poi mi accorsi che non era così. Certo, nelle mie “visite” dell’infanzia o della giovinezza non c’era nulla di “rituale”, né nelle parole, né nei gesti. Però ho sempre guardato al tabernacolo, entrando nelle chiese, come a un luogo speciale, anche se sapevo che Dio è sempre con me, che non ha bisogno di case costruite da me o da altri come me. All’inizio era proprio il luogo fisico che mi piaceva, che adoravo senza sapere cosa volesse dire “adorare”, ma poi mi spiegarono che dovevo inginocchiarmi soltanto quando c’era una luce accesa nei pressi.

La regolarità, quotidiana, fu la vera novità che mi è rimasta, nel tempo, non tanto come abitudine (non sono regolare neanche adesso), ma come necessità, come attestato di sincerità. I “modi” della visita sono meno importanti. Non che riesca sempre, come dicevo, a fare la visita quotidiana, però so che dovrei se le mie parole di amore verso Dio e gli uomini fossero sincere. E questo pensiero mi aiuta, non a sentirmi in colpa, ma a ripensare il senso vero delle cose che dico o che faccio. E’ come quando uno dice di pensare sempre a qualcuno, o di amarlo, ma si accorge di non cercarlo mai o di cercarlo soltanto quando ha un bisogno da soddisfare o un’ansia da gestire.

La presenza speciale di Dio nel tabernacolo è una presenza “fisica”, non “più vicina”. Così pare a me, almeno. Non so se mi spiego: non è che Dio mi sia più vicino quando sto davanti al tabernacolo rispetto ad ora, che sto scrivendo al computer. La differenza vera è che nel tabernacolo Gesù è più “debole”, perché è proprio nelle mie mani. Lo posso mettere in un armadio, gli posso voltare le spalle, lo posso ignorare, posso parlare di tennis con il mio vicino mentre lui è lì. Tutte cose che in fondo faccio “metaforicamente” quando sono in giro per strada, in ufficio o a casa. Ma lì, in chiesa, non è una metafora la mia “distanza” da lui, perché è una distanza che posso misurare col “metro” e non solo con le parole.

A un’altra cosa ho ripensato in questi giorni. Nei centri dell’Opus Dei, e in molte chiese, il tabernacolo è “trattato bene”. Una mia amica mi raccontava della sua vita passata in un centro, mi diceva che le facevano misurare col metro le sporgenze delle tovaglie per l’altare – sempre, ogni giorno – mentre quasi mai si sentiva trattata con la stessa attenzione da chi viveva con lei. Può succedere anche questo, che uno a volte si scordi che le persone sono tabernacoli e uno pensa di poter a dire a qualcuno cose che a Gesù nel tabernacolo non direbbe mai. Però è bello che il tabernacolo sia “trattato bene”, anche se a volte è tutto “così tanto bello” che io non mi sento necessario: mi sembra che si possa fare a meno delle mie “visite” in luoghi nei quali c’è tanta attenzione ai particolari e tanta bellezza. Mi sembra quasi di “sporcare”, di “rovinare tutto” con la mia presenza.

Ma io non vivo nei centri, e molte volte mi è capitato di fare visite in luoghi spogli, disadorni, trascurati. Il primo istinto, quando capito in posti del genere, è quello di fuggire, di lamentarmi con qualcuno (cosa che a volte si può anche fare, nei modi giusti), di non tornarci più, di andare da qualche altra parte. Ma poi penso a Gesù che non lo può fare ed è “costretto” a restare lì, in un luogo nel quale a me sembra (e forse mi sbaglio, non so) non ci sia nulla di bello e di accurato … nulla a parte me. Voglio dire che pure io spesso non sono “bello”, ma mi sento l’unico, nel momento in cui sono lì dentro, capace di portare a Dio una bellezza che, in quell’istante, può venire solo da me. Mi accorgo, per esempio, che gli manca un fiore o una tovaglia pulita, una cosa che nessun altro sembra notare, ma io sì. E io non ho con me fiori o tovaglie pulite. Non posso fare nulla, posso soltanto stare.

Anche nelle mie giornate è così, a volte non ho consigli da portare, oggetti da cambiare, cose da fare per “migliorare il mondo”, perché il mondo non vuole migliorare oppure del mio aiuto non sa che farsene – e forse fa anche bene, a volte – e allora mi tocca “stare” e basta, e sperare di poter essere, per molti, l’unica cosa “bella” da guardare nella loro giornata. Da guardare, sì, ma non come si guarda uno da cui ci si aspetta di imparare a vivere, da guardare come si guarda un fiore.