Amoris Laetitia / Blog | 06 Dicembre 2016

La crisi ariana e la controversia attuale su “Amoris laetitia”: un parallelo

L’autore ha insegnato storia della Chiesa e patrologia alla Pontificia Universidad Católica di Santiago del Cile e attualmente insegna filosofia medievale alla Universidad de Chile

di Claudio Pierantoni
1. Prologo
Le riflessioni che seguono traggono origine da una coincidenza abbastanza curiosa. Ai primi di aprile di quest’anno infatti, nella facoltà di teologia dell’Università Cattolica di Santiago del Cile ha preso le mosse un gruppo di studio sulla controversia ariana.

Nella prima riunione del gruppo riflettevamo sulla straordinaria rapidità con cui la controversia suscitata dal presbitero alessandrino Ario nel 318 o 319, apparentemente sedata con la condanna di questi da parte del vescovo della metropoli Alessandro, si diffuse invece in Palestina e di lì a pochi anni infiammò tutto l’Oriente romano, spingendo l’imperatore Costantino a convocare addirittura un concilio ecumenico per risolverla. Apparentemente si trattava solo di un paio di frasi imprudenti sulla relazione del Figlio con il Padre, che però misero allo scoperto profonde differenze dottrinali esistenti nell’episcopato, e scatenarono una polemica evidentemente latente da molto tempo.

Ebbene, proprio in quegli stessi giorni di aprile del 2016 veniva pubblicata l’esortazione apostolica “Amoris laetitia”, e di lì a poco mi cadeva sotto gli occhi, per caso, l’articolo del Prof. Roberto De Mattei intitolato: “Prime riflessioni su un documento catastrofico”, pubblicato sul suo sito “Corrispondenza Romana”. Nonostante il titolo potesse suonare a prima vista un po’ allarmista, il contenuto, lungi dall’essere esagerato, mi parve invece molto lucido, preciso e penetrante. Poi
vennero le reazioni del Card. Burke e quelle del Card. Müller, e incominciò la polemica. Non ci volle molto tempo per capire che l’incendio che si stava rapidamente propagando, proprio come ai tempi di Ario, era di vaste proporzioni, nonostante le modeste apparenze di basarsi solo su un paio di imprudenti note a piè di pagina, che il papa affermava di non ricordare neppure.

Mi venne quindi naturale cominciare a fare un paragone fra le due crisi. Qualche giorno dopo poi, quando lessi la ormai famosa lettera di Mons. Athanasius Schneider al papa, vi trovai suggerito proprio lo stesso parallelo che si concludeva con la parafrasi della famosa frase di san Gerolamo che si riferiva al trionfo dell’arianesimo nel 360, modificata nel modo seguente: “Ingemuit orbis et divortium in ecclesiam catholicam introductum esse miratus est”.

Questo mi confermò che la attuale crisi era veramente di gravi proporzioni, non minore di quella antica e anzi in molti aspetti più insidiosa. Di qui sorse la necessità di cominciare ad analizzarla in un contesto storico di ampia portata, per poter coglierne tutta la gravità, e al tempo stesso per ricavare suggerimenti e consigli dalle esperienze antiche, in vista della necessaria riflessione ed azione nelle circostanze presenti.

Partiremo dunque con una breve panoramica della controversia ariana, dai suoi inizi fino al suo momento forse più critico, il Concilio di Costantinopoli del 360, per poi riflettere su alcune somiglianze di fondo con la attuale crisi della Chiesa, che si è acuita nel presente pontificato e ancor più gravemente è esplosa a partire da quest’anno. I due momenti possono essere visti in analogia, perché in entrambi i casi un intervento importante del magistero è percepito da molti cattolici come in conflitto con la dottrina precedente. E inoltre, in entrambi i casi, si percepisce un assordante silenzio della gerarchia della Chiesa cattolica, naturalmente con delle eccezioni.

Quanto al contenuto, le due crisi sono certamente diverse: nel primo caso l’argomento del contendere è prettamente teologico, riguardando il fondamento della dottrina cristiana su Dio uno e trino, mentre nel secondo è teologico-morale, riguardando in modo centrale il tema del matrimonio.

Tuttavia, l’elemento principale che avvicina le due crisi è, mi pare, il fatto che entrambe interessano un pilastro del messaggio cristiano, distrutto il quale il messaggio stesso perde la sua fisionomia fondamentale. Nel primo caso, investendo la dottrina su Dio e su Cristo, nel secondo, al di là del tema specifico del matrimonio, investendo, come è apparso da tutte le critiche più penetranti al recente documento papale, la dottrina dei sacramenti e, ancora più a fondo, giungendo a coinvolgere i fondamenti stessi non solo della dottrina morale cristiana, ma della stessa morale naturale che ne è il fondamento teoretico.
2. Panoramica della controversia ariana dalle sue premesse fino al Concilio di Costantinopoli del 360
Con alterne e drammatiche vicende, la crisi ariana sconvolse l’orbe cristiano per cinquantacinque anni, dal 325 al 380 della nostra era (2).

Naturalmente, la controversia trinitaria e cristologica è di più remota ascendenza: intesa in senso lato, essa è antica quanto la Chiesa stessa, che fin dalle sue origini si è interessata alla questione della misteriosa identità soprannaturale di Gesù, il Cristo, e dei suoi rapporti con il Padre. In effetti, se da una parte Gesù di Nazareth, attraverso le sue parole e azioni, si attribuisce prerogative chiaramente divine, ed arriva ad affermare “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10, 30), d’altra parte, nel suo dialogo a tu per tu con il Padre, rivela la presenza in Dio di più di una Persona. Ora, se entrambi questi aspetti potevano essere colti intuitivamente, nella fede, da ogni cristiano fin dalle origini, più difficile era invece esprimerli “scientificamente”, in modo sistematico e con una terminologia appropriata. In quest’impresa, fin dal secondo secolo si distinse una tendenza “giudeo-cristiana”, che tendeva a centrare la personalità del Cristo nella sua dimensione umana, incarnata, da un’altra, “greco-cristiana”, che per influsso delle correnti medio-platoniche tendeva a configurare più nettamente la sussistenza personale o “hypóstasis” divina del Cristo come “Logos”. Se da una parte la prima salvaguardava gelosamente l’unità (detta monarchia, “unico principio”) in Dio, ma rischiava di sminuire la personalità del Verbo, la seconda invece, nella sua riflessione specifica, pur assai feconda, sulla “hypóstasis” del “Logos”, subiva in certo modo l’influenza platonica nel senso di attribuirgli una certa subordinazione rispetto al Padre.

Durante il terzo secolo, il problema si acuisce e si pone in termini più tecnici, soprattutto per l’influenza di Origene. Benché le fonti per quest’epoca siano piuttosto scarse, abbiamo interessanti testimonianze di questa controversia in diverse aree del mondo cristiano. Ci soffermeremo per un momento su due di esse, particolarmente significative.

La prima è la controversia detta dei due Dionigi: durante il pontificato di Papa Dionigi (259-268), il vescovo di Alessandria, anche lui di nome Dionigi, fu accusato da alcuni della sua diocesi di aver parlato del Figlio come inferiore, addirittura, alla stregua di una creatura del Padre, usando la similitudine del carpentiere che fabbrica una barca ed altre dello stesso tipo: chiaramente un’anticipazione della dottrina ariana. Corretto dal vescovo di Roma, che insiste sulla monarchia divina, Dionigi di Alessandria ritrattò le espressioni che avevano causato scandalo, e da allora la sede alessandrina si manterrà stabile nel rifiuto di posizioni ariane o filoariane.

Il secondo episodio riguarda la seconda grande metropoli dell’Oriente romano, Antiochia di Siria. Qui, in un Concilio del 268, fu condannato il vescovo Paolo di Samosata, che fra l’altro era anche potente ministro della regina di Palmira, Zenobia, che in quegli anni aveva addirittura dichiarato l’indipendenza della Siria dall’Impero Romano. Paolo di Samosata proponeva una dottrina monarchiana di stampo adozionista, una dottrina in cui può vedersi l’influenza giudeo-cristiana, che considera il Cristo alla stregua di un semplice uomo, sia pure un uomo speciale, in cui, in un determinato momento, si introduce il “Logos” (Parola) o la “Dýnamis” (Potenza) del Padre, che, nell’eternità divina è solo una impersonale potenza del Padre, ma costituisce in un secondo momento una specie di espansione o proiezione del Padre in funzione dell’economia salvifica, cioè in vista dell’Incarnazione. Così la persona del Figlio non è propriamente la seconda persona di una Trinità eterna, ma è la persona storica di Gesù, dal momento in cui riceve l’inabitazione della Potenza divina, allo stesso modo in cui la gloria di Yahvè entra nel Tempio di Gerusalemme: similitudine che trovava un forte punto d’appoggio nel Vangelo di Giovanni, dove Gesù identifica il proprio corpo come il vero Tempio (Gv 2,21). La posizione di Paolo di Samosata prelude chiaramente a quella di Marcello, vescovo di Ancira, che avrà parte importante nel Concilio di Nicea. Soprattutto è da notare che il Concilio di Antiochia del 268, che condannò e depose Paolo, aveva – secondo alcune testimonianze – proscritto l’uso del termine “homoousios”, perché tale unità di sostanza pareva impedire che in Dio si concepissero diverse ipostasi.

Ora, il termine “homoousios” fu proprio, come sappiamo, il cavallo di battaglia del Concilio di Nicea del 325: il termine che, respinto decisamente da Ario, permise appunto di condannarlo insieme con due vescovi a lui fedeli. Il precedente di Paolo spiega bene, quindi, il persistente sospetto che, a partire da Nicea, ebbe a gravare sul termine “homoousios”, che era risultato utile per condannare Ario, ma che molti sentivano come di ascendenza chiaramente monarchiana, e che al Concilio fu appoggiato da vescovi monarchiani come Marcello di Ancira ed Eustazio di Antiochia, e sostenuto fortemente dall’imperatore Costantino su consiglio dei vescovi occidentali (soprattutto Ossio di Cordova), i quali agli occhi degli orientali sostenevano una posizione, se non proprio monarchiana, almeno filomonarchiana. Non dobbiamo dimenticare che, dal punto di vista dei vescovi orientali, chiunque non avesse ancora adottato la terminologia delle tre ipostasi, fortemente impostasi in Oriente a partire dall’influsso origeniano, era “ipso facto” sospetto di monarchianesimo. E questo sospetto parve confermarsi definitivamente per il fatto che il Simbolo di Nicea fu seguito immediatamente dall’anatema che condanna chiunque parli di più di “una ‘ousìa’ o una ‘hypòstasis'” in Dio. Considerando quindi “ousìa” come sinonimo di “hypòstasis”, il Concilio sembrava proibire proprio quella dottrina delle tre ipostasi che era sentita come irrinunciabile per molti vescovi orientali, soprattutto quelli più colti e agguerriti, che si erano formati appunto nella tradizione di Origene. Ora, se il partito propriamente ariano era un gruppo ristretto, parecchio più ampio era invece il gruppo di scuola origeniana, che non poteva tollerare questa situazione. Il Concilio quindi, convocato dall’imperatore per restaurare la pace religiosa e sanare il conflitto, la cui portata Costantino stesso aveva certamente sottovalutato, lo aveva invece involontariamente acuito: fu, per così dire, la scintilla che provocò la guerra che era rimasta latente per decenni ed ora aveva occasione di venire allo scoperto. Gli esponenti delle diverse scuole, che fino allora erano rimasti separati, o tutt’al più si erano potuti affrontare solo al livello di controversie locali, poterono ora interagire per la prima volta in un Concilio Ecumenico: e sebbene fosse il primo di questa serie, e in quanto novità, non godesse quindi ancora dello status canonico che poi gli sarà riconosciuto nei secoli seguenti, certamente già nella percezione dei contemporanei fu sentito come diverso, superiore e più vincolante che un semplice concilio regionale (2).

In reazione quindi contro il Concilio, il partito che chiameremo “origeniano”, guidato da Eusebio di Nicomedia, dopo essere riuscito ad attirarsi le simpatie e l’appoggio dell’imperatore, giunse a far a deporre non solo i principali esponenti monarchiani ma anche Atanasio, il vescovo alessandrino che difese apertamente l’”homoousios”. Questi fu condannato su accuse di carattere disciplinare al Concilio di Tiro del 335. Morto Costantino nel 337, si approvò, in Oriente, sotto Costanzo II, una nuova formula di fede al Concilio di Antiochia del 341, detto della Dedicazione. In questa formula, che pretendeva di sostituire quella di Nicea, è da rilevare la condanna dell’arianesimo radicale da una parte (il Figlio non è una creatura), e il tentativo di accostare il più possibile il figlio al Padre, evitando però il termine “homoousios” e rilevando la dottrina delle tre ipostasi, la cui unità risiede non nella unità di essenza, ma nella reciproca armonia (in greco “symphonìa”).

Per contro in Occidente, due anni più tardi, nel 343, si convocò un nuovo concilio ecumenico a Serdica (attuale Sofia), per volere di Costante, imperatore d’Occidente: ma i vescovi orientali rifiutarono di partecipare alle sessioni comuni con gli occidentali, a causa della divergenza sulle deposizioni di Atanasio e Marcello, che erano stati già riabilitati da un concilio a Roma (340), riabilitazione ritenuta frettolosa e arbitraria dagli orientali. Si ebbero quindi due diverse formule di fede, e seguì la reciproca scomunica dei due schieramenti opposti.

Gli orientali ripresero sostanzialmente la formula del 341, aggiungendovi solo alcuni anatematismi, tra cui è da notare quello che esclude si possa parlare di “tre dèi”. Anche i vescovi occidentali, da parte loro, evitarono la citazione diretta del termine “homoousios”, probabilmente per evitare l’accusa di monarchianesimo: però ne mantennero la sostanza con una perifrasi, parlando dell’unica “ousìa” o “hypòstasis” del Padre e del Figlio. D’altra parte, gli occidentali, e con loro Atanasio e Marcello, ritenevano senz’altro che il simbolo niceno del 325 era definitivo, e quindi non ritenevano necessaria una nuova dichiarazione di fede in materia.

Lo stallo dottrinale creatosi fra Oriente e Occidente dopo Serdica fu confermato negli anni seguenti: dopo un fallito tentativo di avvicinamento (3), in seguito al quale gli Occidentali accettarono solo di condannare il monarchiano Fotino, discepolo di Marcello, gli Orientali si riunirono di nuovo al Primo Concilio di Sirmio dove si riconfermò sostanzialmente la formula di Antiochia del 341 (Prima Formula di Sirmio, 351). La situazione politica però cambiò radicalmente con la morte dell’imperatore Costante (351), e la conseguente riunificazione dell’impero sotto il fratello Costanzo. Era naturale che l’imperatore mirasse anche a una riunificazione religiosa, ma purtroppo si accinse allo scopo usando i mezzi della pressione e dell’intimidazione. Mediante i Concili di Arles (353) e Milano (355) in cui dominarono i suoi consiglieri ecclesiastici filoariani, piegò quasi tutto l’episcopato Occidentale a una nuova condanna di Atanasio, e giunse ad arrestare e deportare il nuovo papa, Liberio, che invece si ostinava a resistergli. Tuttavia, mentre la situazione disciplinare era stata “sistemata” con la forza, più difficile si profilava giungere ad una vera unione sul piano dottrinale.

Si convocò a tale scopo un nuovo concilio, a Sirmio, nel 357, che fu completamente nelle mani del cosiddetto trio illirico (Valente, Ursacio e Germinio), apertamente filoariano. Essi si sentirono qui con le mani libere per imporre una formula molto più filoariana di quelle approvate dall’episcopato orientale fino ad allora. Vide dunque la luce la Seconda Formula di Sirmio che propone una subordinazione molto più netta del Figlio rispetto al Padre. Non propone apertamente le espressioni ariane classiche sulla “creazione” del Verbo “ex nihilo”, e la sua non eternità (“erat quando non erat”); ma neppure le condanna, come era avvenuto in passato. È chiaro che il Padre “è più grande” del Figlio (Gv. 14, 28), e si omette Gv. 10, 30 (“ego et Pater unum sumus”): ma, soprattutto, è esplicitamente condannato il termine niceno, “homoousios”, ed anche il termine di nuovo conio, “homooiusios” (simile nella sostanza) verso cui si stava orientando una sezione del partito origeniano. La formula documenta quindi una spaccatura nel fronte antiniceno e si presenta come una vittoria del partito più filoariano contro quella parte più moderata, che noi abbiamo preferito chiamare “origeniana”; proprio nel seno di questa parte più moderata era appunto sorta una riflessione che, pur non accettando ancora l’”homoousios”, si rendeva però conto dell’importanza e del valore del termine “ousìa” (sostanza), per chiarire concettualmente il problema trinitario. Ma ancora più interessante è osservare che i filoariani, una volta al potere, sono perciò stesso obbligati a dare alla loro dottrina una forma propositiva, e quindi ad esporsi, in qualche modo, alla sua confutazione in termini più chiari e precisi. Aezio, per esempio, aveva in questi anni elaborato la sua dottrina anomea, secondo cui il Figlio è “anhòmoios”, dissimile dal Padre: la seconda formula di Sirmio è, in un certo senso, anche un “atto di tolleranza” verso questa dottrina, che non viene esplicitamente esclusa. In più, proprio in questo momento i filoariani ottennero due grandi successi: il cedimento di Ossio, che, debilitato dalla vecchiaia, fu piegato a sottoscrivere la formula, suscitando grave scandalo in Occidente, ma che non si piegò a sottoscrivere la condanna di Atanasio; poi anche il cedimento di papa Liberio, che invece sottoscrisse la condanna del vescovo alessandrino, suscitando la sdegnata censura di S. Ilario. In una lettera (“Pro deifico timore”) Liberio ci dice di aver sottoscritto una formula pubblicata a Sirmio; ma non è facile stabilire se si tratta della prima formula, del 351, moderata, o della seconda, quella del 357, nettamente filoariana.

In più, la sede di Antiochia divenne preda della posizione ariana radicale per opera del nuovo vescovo Eudossio, che chiamò a sé Aezio ed Eunomio.

Ma questa appropriazione della sede antiochena da parte dell’arianesimo radicale e la propaganda che ne derivava, provocò una viva reazione da parte di alcuni vescovi dell’Asia Minore, soprattutto Basilio di Ancira, che convocò un Concilio ad Ancira (358) dove si condannò espressamente l’anomeismo, insistendo sulla somiglianza del Figlio al Padre secondo la sostanza.

Affiora per la prima volta in un testo orientale (non monarchiano) l’esigenza dell’utilizzazione del termine tecnico “sostanza” per qualificare la completa somiglianza del Figlio con il Padre, mantenendo però la distinzione delle persone. Basilio di Ancira e il suo partito convinsero addirittura Costanzo a rigettare l’anomeismo. Si giunse perfino ad approvare un documento “homoiusiano” che si aggiunse alla formula di Antiochia del 341 (Terzo concilio di Sirmio, 358). Anche Liberio lo firmò, e poco dopo rientrò a Roma. Gli anomei furono deposti ed esiliati.

Tuttavia, per definire la situazione, si sentiva la necessità di un nuovo concilio ecumenico. I filoariani ottennero che il nuovo concilio fosse sdoppiato fra una parte occidentale, a Rimini, e una parte orientale, a Seleucia in Isauria; in più, ottennero che si redigesse una formula previa, che servisse da falsariga: questa formula rappresentò un ambiguo compromesso fra “homoiusiani” e anomei, e fu il cosiddetto “Credo datato” (22 maggio 359) , detto anche Quarta formula di Sirmio: “il Figlio è simile al Padre in tutto, secondo le Scritture”; vi si esclude esplicitamente l’utilizzazione di “ousìa”. Nessuno ne fu veramente soddisfatto, si tentò da ambo le parti di introdurre precisazioni, ma alla fine i pochi vescovi presenti lo firmarono, compreso Basilio di Ancira (4).

Si giunse così al concilio di Rimini per la parte Occidentale (maggio 359). Vi giunsero più di 400 vescovi; di questi, la parte filoariana era costituita da solo un’ottantina; ma i capi filoariani, vicini a Costanzo, presero l’iniziativa e invitarono tutti a firmare la formula sirmiese del 22 maggio e in particolare a proscrivere l’”homoousion”, causa di discordia. Ma gli occidentali, sospettosi, preferirono attenersi al Niceno: così fu riaffermata solennemente la validità del simbolo niceno, “al quale non si deve togliere né aggiungere nulla”, e in più difesero esplicitamente l’uso del termine sostanza (5). Fu così inviata una delegazione di 20 membri a Costanzo, che purtroppo però cedette alla pressione imperiale: isolata in una fortezza della Tracia, la delegazione firmò la formula di Nike e riabilitò i filoariani. La formula ripeteva la Quarta formula di Sirmio, ma era ancora più ariana perché invece di “simile in tutto” diceva solo “simile secondo le Scritture”; riaffermava implicitamente tre “hypostaseis”, ed esplicitamente tre “pròsopa”. Poco dopo, si ordinò di firmarla a tutti i vescovi presenti a Rimini: Costanzo aveva dato istruzione che, se il numero di coloro che rifiutavano era inferiore a 15, si dovevano senz’altro mandare in esilio. I vescovi cominciarono a cedere, ma resistevano una ventina di vescovi gallici, guidati da Febadio di Agen. Finalmente, fu loro concesso di aggiungere alcuni anatematismi in funzione antiariana, e così firmarono. Così si chiuse il concilio, “bono initio foedo exitu consummatum” (Sulpicio II,44).

Il Concilio di Seleucia, da parte sua, iniziò in settembre: vi si presentarono solo 160 vescovi, cifra sorprendentemente bassa. Pochi erano gli “homoousiani”, quasi tutti egiziani; però fecero blocco con gli “homoiousiani”, che erano la maggioranza, secondo Ilario 105. Dall’altro lato si schierarono gli anomei con i più moderati omei (o acaciani), blocco che fu quindi minoritario. In un primo tempo, vistisi in minoranza, i filoariani si ritirarono dalla riunione e il gruppo maggioritario sottoscrisse quindi la formula di Antiochia del 341. Ma il giorno dopo, il plenipotenziario imperiale, Leona, fece riunire di nuovo tutti i vescovi e fece leggere una nuova formula, che ricalcava da vicino quella del 22 maggio 359, ma eliminava la frase “simile al Padre che lo ha generato, secondo le Scritture”; si accettava la formula del 341, ma si condannavano esplicitamente tanto l’”homoousion” quanto l’”homoiousion”, e dall’altra parte, l’”anhòmoion”. Infine, si accettava anche la Quarta formula di Sirmio. In breve, si trattava di una reinterpretazione della formula del 341 sulla base dei nuovi sviluppi filoariani. Così come nella formula di Nike, scompare qui la precisazione sirmiese “katá pànta”, “simile al Padre ‘in tutto’”, che ai filoariani sembrava eccessiva concessione.

Delle accese dispute che seguirono, sottolineiamo quello che ci sembra il punto dottrinalmente più rilevante sulla somiglianza del Figlio al Padre: gli “homoousiani” e “homoiousiani” insistevano che si tratta di una somiglianza secondo la sostanza, gli omei secondo la volontà (in fondo, era la tesi origeniana della “symphonìa”). Alla fine, senza curarsi del delegato imperiale, la maggioranza “homoousiana-homoiousiana” scomunicò la minoranza omea-anomea e concluse il Concilio, incaricando una delegazione di informare l’imperatore. Ma Costanzo favoriva apertamente gli omei con la loro formula di compromesso e così, forte anche della notizia della capitolazione dei vescovi occidentali a Rimini, sopravvenuta proprio in quel momento, costrinse i delegati del concilio a firmare la stessa formula di Rimini, cioè l’ “homoios secondo le Scritture” (31 dicembre).

Il 1 gennaio 360, Costanzo aprì solennemente l’anno vantandosi di aver ristabilito la pace religiosa per ratificarla convocò un nuovo Concilio a Costantinopoli (360). La formula approvata seguiva molto da vicino quella di Nike (Rimini), ma con una differenza importante: vi si proscriveva l’uso, oltre che di “ousìa”, anche di “hypòstasis”, screditando così implicitamente la stessa formula del 341, fin allora ritenuta la più autorevole in Oriente.

Il fatto che gli omousiani avessero finalmente firmato la formula riminese non impedì peraltro che fossero poi, su accuse disciplinari, comunque duramente puniti: i capiparte, a partire da Basilio di Ancira, tutti esiliati.

Il testo riminese-costantinopolitano fu quindi inviato a tutti i vescovi dell’Oriente perché lo sottoscrivessero, pena l’esilio.

Così, il “simile secondo le Scritture” veniva a rimanere l’unica formula accettata in tutto l’orbe cristiano. Come annotò san Gerolamo: “Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est” (6).
3. Parallelo con la crisi attuale
A. Parallelo nei documenti dottrinali
Dal punto di vista dei documenti dottrinali, l’elemento parallelo che maggiormente richiama l’attenzione è il carattere di ambiguità presente nelle formule filoariane degli anni 357-360.

In effetti, il loro carattere eretico non è dato tanto da affermazioni in sé stesse erronee, quanto piuttosto dal loro carattere generico, atto a comprendere tanto un’interpretazione moderatamente antinicena, quanto una posizione decisamente filoariana. La minoranza filoariana, pur essendo al potere, non si azzarda a proporre una posizione che troppo chiaramente si opponga alla visione tradizionale. Non dice espressamente che il Figlio è inferiore al Padre, ma usa un’espressione generica, “simile” al Padre, che poteva prestarsi a diversi gradi di subordinazionismo. In breve, pur essendo al potere, essa cerca di nascondersi.

In modo analogo, l’attuale esortazione apostolica “Amoris laetitia”, nel famoso capitolo VIII, non nega apertamente l’indissolubilità del matrimonio, anzi l’afferma esplicitamente. Nega però in pratica le conseguenze necessarie che discendono dall’indissolubilità matrimoniale. Ma lo fa attraverso un discorso sinuoso e involuto, con formulazioni che coprono una gamma di posizioni diverse, alcune più estreme, altre più moderate.

Per esempio, dice che “in alcuni casi” potrebbe darsi alle persone in unioni “cosiddette irregolari” l’“aiuto dei sacramenti”. Quali siano questi casi, non viene detto, per cui del testo possono darsi almeno quattro interpretazioni, di cui le più restrittive sono ovviamente incompatibili con le più ampie. Per chiarezza interpretativa, è quindi utile classificarle in base al diverso grado di ampiezza, partendo dalla più restrittiva fino alla più estesa:

I. Interpretazione detta dell’“ermeneutica di continuità”. In base al principio di continuità ermeneutica, l’espressione “in alcuni casi” dovrebbe interpretarsi come riferentesi ai casi specificati nei documenti del magistero vigente, come “Familiaris consortio”, che dice che si può dare l’assoluzione e la comunione eucaristica in quei casi in cui i conviventi facciano promessa di convivere come fratello e sorella.

Questa interpretazione ha dalla sua un principio ermeneutico fondamentale, che potrebbe sembrare irrefutabile, ma è contraddetta dalla nota 329, che afferma esplicitamente che proprio questo comportamento (cioè la convivenza come fratello e sorella) sarebbe potenzialmente dannoso e quindi è da evitare (7).

II. “In alcuni casi” può interpretarsi in senso più ampio come riferito alla certezza soggettiva della nullità del precedente matrimonio, supponendo che per motivi particolari non sia possibile provarla in un tribunale (8).

In tali casi potrebbe certo darsi che, nel segreto della coscienza, non vi sia colpa nella nuova unione: questo potrebbe essere visto, sul piano della dottrina morale, in accordo con “Familiaris consortio”. Ma rimane una differenza fondamentale sul piano ecclesiologico: l’eucaristia è un atto sacramentale, pubblico, in cui non può prendersi in considerazione una realtà in sé stessa invisibile e incontrollabile pubblicamente.

III. “In alcuni casi” può essere interpretato, più ampiamente ancora, come riferito a una minore o anche nulla responsabilità soggettiva, dovuta a ignoranza della norma, oppure a incapacità di comprenderla; o anche a “forza maggiore”, in cui qualche speciale circostanza può essere così forte da “costringere” a una convivenza “more uxorio”, che quindi non costituirebbe colpa grave; anzi, addirittura, secondo il documento, l’abbandono della convivenza potrebbe far incorrere in colpa più grave (9).

Qui abbiamo già seri problemi anche di teologia morale. Ignoranza e incapacità di comprendere possono in effetti limitare la responsabilità personale: ma appare incongruo, per non dire contraddittorio, invocarle in questo discorso, in cui si parla di un itinerario e di un discernimento “accompagnato”: processi che appunto dovrebbero essere finalizzati al superamento di tale ignoranza e incapacità di comprendere (10).

In quanto alla forza maggiore, non è affatto ovvio, anzi è contrario a tutta la tradizione e a importanti pronunciamenti dogmatici (11) che essa possa giustificare la mancanza nell’adempimento della legge divina. È vero che non si può escludere a priori che possano esservi particolari circostanze in cui la situazione può cambiare la specie morale di un atto esternamente uguale, anche cosciente e volontario: per esempio, l’atto di sottrarre un bene a qualcuno può non configurarsi come furto, ma come un atto di pronto soccorso a una persona, o un atto diretto ad evitare un male peggiore. Ma anche ammesso, e non concesso, che questo possa applicarsi all’adulterio, ciò che qui osta decisamente a una giustificazione di questo genere è il carattere di permanenza del comportamento oggettivamente negativo: quello che è giustificabile in un momento puntuale, di emergenza, non può esserlo in una situazione stabile, coscientemente scelta.

In ogni modo, rimane fermo anche qui il principio ecclesiologico per il quale in nessun caso può essere reso magicamente visibile al livello pubblico quello che per sua natura appartiene al segreto della coscienza.

IV. “In alcuni casi”, nell’interpretazione più estesa di tutte, può essere ampliato a includere tutti quei casi – che sono poi quelli reali, concreti e frequenti, che tutti abbiamo in mente – in cui si dà un matrimonio poco felice, che fallisce per una serie di malintesi e incompatibilità e a cui segue una convivenza felice, stabile nel tempo, con reciproca fedeltà, ecc. (cf. AL 298).

In questi casi, parrebbe che il risultato pratico, in particolare la durata e la felicità della nuova unione contro la brevità e infelicità della precedente, possa interpretarsi come una specie di conferma della bontà e quindi legittimità della nuova unione. In questo contesto (AL 298) si tace qualsiasi considerazione sulla validità del matrimonio precedente, nonché sull’incapacità di comprendere e sulla forza maggiore. E in effetti, quando poco più sotto (AL 300) si passa a considerare il tipo di discernimento che dovrà farsi in questi casi, risulta ancora più chiaro che i temi in discussione nell’esame di coscienza, e nel relativo pentimento, non saranno altri che il buono o cattivo comportamento a fronte dell’insuccesso matrimoniale e la buona riuscita della nuova unione (12).

È chiaro, qui, che il “pentimento” di cui deve trattarsi non riguarda affatto la nuova unione in presenza di una precedente unione legittima (13); riguarda invece il comportamento durante la precedente crisi e le conseguenze (non meglio precisate) della nuova unione sulla famiglia e la comunità (14).

È quindi manifesto che il documento intende spingersi al di là tanto dei casi in cui si abbia certezza soggettiva dell’invalidità del precedente vincolo, come anche dei casi di ignoranza, di difficoltà di comprendere e di forza maggiore o di presunta impossibilità di adempiere la legge.

Ora, è sufficientemente chiaro che se il metro valido per giudicare della liceità della nuova unione è, alla fine, il suo successo pratico, la sua felicità visibile, empirica, di contro all’insuccesso e all’infelicità del matrimonio anteriore – liceità che è ovviamente presupposta per ricevere l’assoluzione sacramentale e l’eucaristia –, la conseguenza inevitabile è che il precedente matrimonio implicitamente si considera, anche pubblicamente, ormai senza effetto e quindi sciolto: quindi, che il matrimonio è dissolubile. E così nella Chiesa cattolica, mentre a parole si continua ad affermare l’indissolubilità, di fatto viene introdotto il divorzio (15).

È anche sufficientemente chiaro che, se il successo del nuovo matrimonio basta per stabilire la sua liceità, questo include la giustificazione praticamente di tutti i casi di nuova unione, In effetti, se la nuova unione dovesse dimostrarsi priva di successo, non sussisterà lo stimolo per giustificarla e si passerà piuttosto a un’ulteriore unione, nella speranza di un maggior successo. Ora questa, e non altra, è appunto la logica del divorzio (16).

Da ciò si può ulteriormente dedurre che la discussione sui casi che possiamo chiamare “intermedi”, cioè quelli situati fra la posizione tradizionale e quella più ampia – che come abbiamo mostrato include di fatto tutti i casi –, se da una parte permette a molti, più moderati, di riconoscersi nell’una o nell’altra gradazione e quindi può avere un valore di “tranquillante”, invece dal punto di vista pratico finisce con l’essere ben poco rilevante. In sostanza, infatti, il documento, nella sua genericità, fornisce carta bianca per risolvere la gran maggioranza delle situazioni reali con un criterio assai più semplice e in linea con la mentalità dominante nella nostra civiltà: in una parola, perfettamente in linea con l’ideologia del divorzio.

*

Tornando al nostro parallelo, tutto ciò ricorda assai da vicino la politica dell’imperatore Costanzo, nel ricercare un’espressione sufficientemente generica, che si proponesse di accontentare molteplici posizioni diverse. La genericità, nella controversia ariana, dell’espressione “simile al Padre secondo le Scritture” trova perfetto riscontro nella genericità dell’espressione “in alcuni casi” che troviamo in “Amoris laetitia”. In teoria, quasi ogni posizione vi si può riconoscere.

Di conseguenza, le situazioni risultano analoghe anche quanto al risultato pratico. Allo stesso modo in cui quasi tutto l’episcopato dell’impero accettò la formula di Rimini-Costantinopoli del 359-60, così anche oggi la stragrande maggioranza dell’episcopato ha accettato senza fiatare il nuovo documento, pur sapendo che esso di fatto legittima una serie di posizioni fra loro incompatibili, alcune delle quali manifestamente eretiche.

Oggi molti vescovi e teologi acquietano la propria coscienza affermando, sia in pubblico sia a se stessi, che il dire che “in certi casi” i divorziati risposati possono ricevere i sacramenti non è di per sé erroneo e può interpretarsi, in un’ermeneutica della continuità, come in linea con il magistero precedente. Proprio allo stesso modo gli antichi vescovi pensavano che non era di per sé erroneo dire che “il Figlio è simile al Padre secondo le Scritture”.

Ma, in entrambi i casi, sebbene un’ampia gamma di posizioni si possano riconoscere nell’una e nell’altra formula presa isolatamente, invece nel contesto dei rispettivi documenti è assai chiaro che la posizione ortodossa, veramente in linea con il magistero precedente, è proprio quella che viene nettamente esclusa.

Nel caso della formula di Rimini-Costantinopoli, con la proibizione esplicita dell’uso dell’”homoousios” niceno e anche del più moderato “homoiousios”. Nel caso di “Amoris laetitia”, ciò si realizza:

– con la smentita della formulazione di “Familiaris consortio” sull’astensione dalla convivenza “more uxorio” come condizione dell’accesso ai sacramenti;
– con l’eliminazione dei precedenti netti confini fra certezza della coscienza e norme ecclesiologiche sacramentali;
– con la strumentalizzazione dei precetti evangelici della misericordia e del non giudicare, usati per sostenere che nella Chiesa non sarebbe possibile l’applicazione di censure generali a determinati comportamenti oggettivamente illeciti;
– e infine, ma non per ultimo, censurando duramente quanti avessero la “meschina” e “farisaica” pretesa di invocare precise norme giuridiche per giudicare di qualsiasi caso singolo, che invece dev’essere rigorosamente lasciato al discernimento e all’accompagnamento personale.

Così, pur nella buona volontà di rispettare un principio ermeneutico certamente valido, quello della continuità con i documenti precedenti, si rischia di dimenticarne un altro ancora più importante ed evidente: quello del contesto immediato in cui una proposizione viene formulata.

Se si leggono le singole affermazioni di “Amoris laetitia” non isolatamente, ma nel loro contesto, e il documento a sua volta nel suo contesto storico immediato, si scopre facilmente che la “mens” generale che lo guida è sostanzialmente l’idea del divorzio, oltre all’idea oggi diffusa di non porre chiari confini tra un matrimonio legittimo e un’unione irregolare. Utilizza formule generiche per attirare nella sua orbita posizioni di per sé più moderate, ma in realtà la sua vera intenzione, che si esprime in maniera abilmente discreta ma chiara, è assai ampia, potendo includere, come si è visto, praticamente tutti i casi di seconde unioni, ed escludendo esplicitamente dai sacramenti solo i responsabili di comportamenti eccessivamente scandalosi (17). In parallelo, anche Costanzo aveva fatto condannare la posizione anomea, che affermava la dissomiglianza del Figlio dal Padre, posizione che per un’amplissima maggioranza risultava troppo radicale e discorde dai dati biblici.

Concludendo sull’“ermeneutica di continuità”: non vorremmo, con le nostre osservazioni, pretendere di giudicare della retta intenzione di quanti lodevolmente si sforzano di applicarla: certo il loro fine, che è quello di mantenere una prassi ortodossa a fronte di un documento così difficile e cercando di prevenire uno scisma, è lodevole e condivisibile. Ma purtroppo, alla bontà del fine non sembrano corrispondere né la liceità né l’adeguatezza del mezzo.

Non la liceità, in quanto si viene ad affermare qualcosa che nel foro interno (non da tutti, ma certo da molti) sostanzialmente si ritiene falso. Si pensa che con questo mezzo, di per sé illecito, si possa ottenere un fine superiore buono, cioè il sostenere una prassi ecclesiale ortodossa, e allo stesso tempo evitare un male maggiore, come sarebbe l’entrare in contraddizione aperta con il romano pontefice, situazione certo assai problematica per un cattolico. Purtroppo, si rischia così di cadere proprio in quella “morale di situazione” da cui è patentemente affetto il presente documento, che si vorrebbe neutralizzare (18).

Ma inoltre, ci sembra, il mezzo è palesemente inadeguato: infatti, con questa interpretazione forzata: 1) non si raggiunge certo il risultato di convincere nessuno che non sia già solidamente convinto della bontà di mantenere la prassi tradizionale; 2) si spacca il fronte di coloro che si oppongono alla dottrina erronea, facendo ricadere su coloro che la denunciano apertamente l’ingiusto biasimo di essere malintenzionati e scismatici; e infine, 3) cosa ancora più grave, si contribuisce ad approvare un testo – ci riferiamo sempre specificamente al capitolo VIII di “Amoris laetitia” – che, estremamente debole e mal fondato sia sul piano teologico sia su quello pastorale (19), può sostenersi unicamente per la passiva accettazione e il pavido silenzio della maggioranza dell’episcopato.

Vale la pena di ricordare che al concilio di Rimini del 359, l’imperatore Costanzo dette ordine di esiliare immediatamente chi non firmasse la formula di fede, ma solo nel caso che i vescovi renitenti fossero in numero inferiore a 15. I vescovi presenti erano circa 400. Ma Costanzo, da buon politico, stimò che una percentuale di meno del 5 per cento di rifiuto sarebbe già bastata a rendere odiosa e controproducente la misura repressiva. Purtroppo, i coraggiosi furono in numero inferiore a 15, e furono quindi puntualmente esiliati.

Oggi, possiamo legittimamente pensare che, se all’interno del collegio cardinalizio, e delle conferenze episcopali, si manifestasse un chiaro e fondato disaccordo dottrinale con l’attuale documento, anche solo di una parte dei vescovi, e si chiedesse al papa una rettificazione, sarebbe analogamente del tutto impolitico tentare di zittire o epurare i dissidenti, e il destino di questo documento, o almeno del capitolo VIII, cambierebbe radicalmente in breve tempo.

Basterebbe, come scrisse Aleksandr Solzenytsin in un famoso opuscolo, smettere di collaborare con la menzogna (20).
B. Parallelo nello sviluppo storico
Anche dal punto di vista dello sviluppo storico dell’eresia ariana si può notare un evidente parallelo. Si assiste alla sua preparazione durante la seconda metà del terzo secolo; venuta allo scoperto, è condannata dal concilio di Nicea, che però in Oriente riceve un diffuso rifiuto; tuttavia, il rifiuto di Nicea è in una prima fase più moderato, e l’arianesimo vero e proprio è solamente tollerato come un male minore, ma a poco a poco questa tolleranza gli permette di riprendere vigore, finché, datesi le favorevoli circostanze politiche, arriva al potere. Giunto al potere, sente tuttavia il bisogno di mascherarsi: non si esprime in modo franco e diretto, ma in modo indiretto, e appoggiandosi sulla pressione e l’intimidazione politica. Però, il fatto stesso di imporsi, pur essendo l’arianesimo una minoranza, su una maggioranza pavida e indecisa, lo espone comunque a una confutazione molto più forte e chiara della parte più ortodossa e cosciente dell’episcopato, che gradualmente ma inesorabilmente, nei due decenni che seguono, ne prepara la sconfitta definitiva.

Analogamente, nel caso dell’eresia attuale, che dal nome del suo esponente principale possiamo chiamare “kasperiana”, abbiamo assistito a una sua lenta preparazione, a partire dalla seconda metà del XX secolo. Venuta allo scoperto, è poi condannata nei documenti di Giovanni Paolo II (soprattutto “Veritatis splendor” e “Familiaris consortio”). Ma, da una parte dell’episcopato e della teologia colta questi documenti sono rifiutati in modo più o meno aperto e radicale, e la prassi ortodossa è disattesa in ampie e importanti zone della cattolicità. Questo rifiuto è ampiamente tollerato, sia a livello teorico che pratico; e da lì acquista forza, finché, datesi le circostanze favorevoli, politiche ed ecclesiastiche, arriva al potere. Ma, pur arrivato al potere, l’errore non si esprime in modo franco e diretto, bensì attraverso non del tutto chiare attività sinodali (2014-2015); e sbocca poi in un documento apostolico esemplare per la sua tortuosità. Però, il fatto stesso di essere arrivato ad affacciarsi in un documento magisteriale suscita uno sdegno morale e una reazione intellettuale assai più forte e dinamica, e obbliga chiunque ne abbia gli strumenti intellettuali a ripensare la dottrina ortodossa, per una sua ancor più profonda e chiara formulazione, per preparare una condanna definitiva non solo dell’errore puntuale in esame, ma anche di tutti gli errori con esso collegati, che vanno ad incidere su tutta la dottrina sacramentale e morale della Chiesa. Permette, inoltre, e non è poco, di mettere alla prova, riconoscere, e anche riunire, coloro che veramente e solidamente aderiscono al deposito della fede.

Questa è appunto la fase in cui possiamo dire di trovarci noi in questo momento. È appena cominciata e si preannuncia non priva di ostacoli. Non possiamo prevederne la durata, ma dobbiamo avere la certezza della fede, che Dio non permetterebbe questa gravissima crisi se non fosse per un bene superiore delle anime. Sarà certo lo Spirito Santo a donarci la soluzione, illuminando questo papa o il suo successore, forse anche attraverso la convocazione di un nuovo concilio ecumenico. Ma nel frattempo, ciascuno di noi è chiamato, nell’umiltà e nella preghiera, a dare la sua testimonianza e il suo contributo. E a ciascuno di noi il Signore certamente chiederà conto.

__________

NOTE
(1) Per la ricostruzione storica ci basiamo essenzialmente su: Manlio Simonetti, “La crisi ariana nel IV secolo”, in “Studia Ephemeridis Augustinianum”, Roma 1975. Ci differenziamo da Simonetti per alcuni accenti e caratterizzazioni particolari, che però non abbiamo qui il luogo di illustrare e discutere esplicitamente.

(2) Questo fu appunto, fin dal principio, l’obiettivo di un Concilio universale: riunire gli esponenti di tutta la Chiesa, per raggiungere decisioni che non potessero poi essere ulteriormente messe in discussione.

(3) Si tratta dell’interessante formula, chiamata “Lunga esposizione” (“ékthesis makrostichòs”), documento presentato nel 345 da una delegazione di vescovi orientali all’imperatore Costante, nel tentativo di raggiungere un accordo: significativo che essi rinuncino qui perfino a uno dei loro termini preferiti, “hypostasis”, per sostituirvi “pròsopon” e “pragma”, termini più deboli e generici, e facciano riferimento alla vera generazione del Figlio dalla sostanza del Padre: si tratta quindi della formula orientale più moderata e vicina a Nicea; ma, in quanto all’unità divina, gli Orientali mantengono ferma la dottrina origeniana della armonia (“symphonìa”) tra le persone divine.

(4) Basilio introdusse prima della sua sottoscrizione sinonimi di “ousìa” quali “hypostasis”, “hyparxis”, “einai”. Ma dall’aver unito la sua firma a quella dei filoariani il suo prestigio uscì piuttosto indebolito.

(5) “Substantiae quoque nomen et rem, a multis sanctis scripturis insinuatam mentibus nostris obtinere debere sui firmitatem”.

(6) Girolamo “Adv. Lucif.” 19.

(7) Lo scorso settembre questa interpretazione “della continuità” è stata smentita da un documento interpretativo di “Amoris laetitia” di alcuni vescovi della regione di Buenos Aires, esplicitamente approvato con una lettera firmata dal papa. Questo documento è peraltro risultato essere una bozza, non approvata da tutto l’episcopato locale, e poi ritirata dal sito ufficiale della diocesi. Anche questa vicenda, dunque, presenta i caratteri della tortuosità e dell’ambiguità che vengono inaugurati nell’esortazione apostolica in esame.

(8) AL 298, dove cita “Familiaris consortio” 84, che appunto prende in esame questo caso.

(9) “I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa”.

(10) A meno che tali difetti non si debbano a patologica incapacità di intendere, congenita o sopravvenuta, nel qual caso ricadremmo nell’ipotesi di nullità.

(11) In particolare del Concilio di Trento, come risulta dall’eccellente analisi di E. Christian Brugger, “Five serious problems with chapter 8 of ‘Amoris Laetitia’” (The Catholic World Report, April 22, 2016).

(12) “In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio” (AL 300).

(13) Vediamo qui un’espressione inequivoca della dottrina del card. Kasper in proposito: Cf. Walter Card. Kasper, “The Gospel of the Family”, Mahwah, N.J., Paulist Press 2014.

(14) In mancanza di precisazioni, è lecito pensare che si riferiscano al “successo” visibile della nuova unione già sottolineato al numero 298.

(15) “Ingemuit orbis et se divortium in praxi accepisse miratus est” (Schneider). I sostenitori dell’ermeneutica della continuità ammettono che, se non fosse vera la loro interpretazione, la conseguenza inevitabile sarebbe l’introduzione del divorzio.

(16) Questo spiega perfettamente perché il papa, nella famosa dichiarazione sull’aereo da Lesbo, alla domanda se i divorziati risposati potevano ricevere l’eucaristia, ha risposto: “Io posso dire: ‘sì’. Punto”. Salvo rimandare, per maggiori spiegazioni e approfondimenti, all’esegesi del card. Schönborn: dove è chiaro, appunto, che si tratta di spiegazioni, e non del contenuto essenziale di ciò che si dice.

(17) AL 297: “Se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità”.

(18) Si potrebbe forse dire che una “dissimulazione onesta” è lecita in alcuni casi di particolare confusione od emergenza. Probabile: ma crediamo che la situazione che può dirsi “di confusione” o incertezza è finita con il finire di quest’estate, soprattutto dopo i silenzi del papa a proposito delle interpretazioni più estensive del suo documento, e per l’approvazione mediante lettera firmata all’istruzione data dai vescovi della regione di Buenos Aires.

(19) La bibliografia sugli evidenti difetti del documento, soprattutto del capitolo VIII, è già così ampia, a solo pochi mesi dalla sua pubblicazione, che il solo elencarla richiederebbe un articolo a parte. Ci limitiamo a ricordare il lungo articolo di Josef Seifert: “La Alegría del Amor: Alegrías, Tristezas y Esperanzas”, in “AEMAET – Wissenschaftliche Zeitschrift für Philosophie und Theologie”, Vol 5, No 2 (2016) 86-158 (http://aemaet.de). Ma la confutazione degli errori teologici di AL è già anteriore al documento, che già si vedeva in gestazione nel 2014, nell’epoca fra i due sinodi sulla famiglia: essa può leggersi, brillantemente espressa, nel libro ormai famoso come “dei cinque cardinali”: Robert Dodaro, O.S.A, Ed., “Remaining in the Truth of Christ. Marriage and Communion in the Catholic Church”, Ignatius Press, San Francisco 2014 (uscito simultaneamente anche in italiano, francese, tedesco e spagnolo). Certamente non fu una semplice coincidenza che il libro, inviato ai vescovi durante il sinodo, fu prontamente rimosso dalle loro caselle postali per “ordini superiori”. Un furto misterioso.

(20) “Vivere senza menzogna”, trad. it. Mondadori, 1974.

Qui il link all’articolo