Blog / Scritti segnalati dal blog | 13 Novembre 2016

Padre Giulio Michelini – Nei vangeli il terremoto è teofania, non castigo

Tra qualche giorno verrà nuovamente aperto nelle chiese il libro del Vangelo secondo Matteo, la cui lettura liturgica riprenderà dal prossimo Avvento. È l’unico, tra quelli canonici, a riferire di quattro eventi sismici che sarebbero accaduti al tempo di Gesù. E Gesù stesso, in questo Vangelo, poi, parla di un terremoto che avverrà in un certo momento della storia. Secondo Mt 8,24 mentre Gesù si trovava al largo del mare di Galilea, «vi fu un grande terremoto nel mare, al punto che la barca era coperta dalle onde». Nella versione ufficiale della Cei, fino al 2008 si leggeva che nel mare si scatenò una «violenta tempesta», ma la nuova traduzione invece migliora e parla di uno «sconvolgimento». Il greco qui è seismós, «scossa», «terremoto», e indicherebbe un vero sisma nel lago di Tiberiade. Matteo, infatti, rispetto agli altri vangeli, mostra un grande interesse per i terremoti, ed è proprio nel suo libro che il termine fa registrare la più alta occorrenza dei termini legati a questo campo semantico: tre volte il verbo seío (‘scuotere’), e due il sostantivo seismós. Il terremoto nel mare non è tanto, secondo una classificazione possibile, un miracolo sulla natura, quanto piuttosto una epifania del divino. Il mare nella Bibbia ha spesso un forte richiamo simbolico negativo, e Gesù viene descritto come colui che domina su di esso, sul sisma che l’ha agitato e sui venti che ne sono derivati.

Del secondo terremoto parla Mt 21,10 quando descrive l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Nella traduzione Cei si legge che «mentre Gesù entrava in Gerusalemme tutta la città fu presa da agitazione», ma l’evangelista usa qui il verbo alla lettera, perciò, il testo dice che «entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu scossa da un terremoto». Di terremoto si parla anche nel testo che Matteo usa come sfondo all’intera scena ( e che descriveva l’intervento di Dio per salvare Gerusalemme. Come si può già intuire, il sisma che scuote la città di Gerusalemme all’ingresso del Messia è un segno della venuta salvifica di Dio, e deve essere inteso non in senso letterale, ma figurato. Il terzo terremoto di cui si legge nel vangelo di Matteo è uno dei segni che accompagnano la morte del Messia. In sono riferiti tre prodigi: lo squarciarsi del velo del tempio, il terremoto e la risurrezione dei morti conseguente all’aprirsi delle tombe.

Sono questi segni – col timore che ne deriva – che portano il centurione e le guardie a riconoscere in Gesù il ‘Figlio di Dio’. Gli ultimi due prodigi sono esclusivamente matteani. Scrivendo che alla morte di Gesù ha avuto luogo un terremoto l’evangelista sembra dire che il giorno del Signore è arrivato: i profeti ne avevano predetto l’immanente accadere come giudizio di Dio, e ora questo giudizio si compie, ma nella misericordia che scaturisce dalla morte del Figlio. Anche un apocrifo molto antico, il Vangelo di Pietro, racconta di un terremoto, ma che ha luogo al momento in cui i chiodi sono estratti dalle mani di Gesù: «E allora estrassero i chiodi dalle mani del Signore e lo deposero a terra. E tutta la terra tremò e ci fu gran terrore» (EvPt 21). Siamo sulla stessa linea di pensiero: si tratta ancora di una teofania, di un modo col quale l’autore propone, in categorie narrative, un discorso teologico. Ma mentre l’apocrifo parla di un terrore sconvolgente che prende tutti, Matteo è più sobrio, e la paura, paradossalmente, porta addirittura a riconoscere la presenza di Dio nell’evento: «Il centurione e quelli che insieme a lui facevano la guardia a Gesù, visto il terremoto e quanto accaduto, ebbero una grande paura e dicevano: ‘Davvero costui era Figlio di Dio’» ( Mt 27,54)

Per tornare ai racconti evangelici, ricordiamo che anch’essi non contengono semplicemente elementi storici, ma anche interpretazioni teologiche degli eventi lì narrati, e quindi ci dobbiamo aspettare che anche l’ultimo terremoto narrato dall’evangelista, in mediante il quale si apre la tomba del Risorto, abbia una simile finalità: «Vi fu un grande terremoto: un angelo del Signore sceso dal cielo, avvicinatosi, rotolò la pietra e vi si sedette sopra. Le sue sembianze erano come folgore e il suo vestito bianco come la neve». Anche quest’ultimo terremoto, come quello che accompagna la morte di Gesù, deve essere inteso per il significato che il segno vuole veicolare, quello di una teofania. Lo spiega la Pontificia Commissione Biblica in un documento del 2014 sull’ispirazione e la verità nella Bibbia. La citazione di questo autorevole testo, per chi vorrà leggerla integralmente, permetterà anche di fare una riflessione generale sui terremoti nella Bibbia, dalla quale emerge in modo inequivocabile che essi non sono mai rappresentati come un castigo divino: «Il ‘terremoto’ sembra far parte dello stile teologico di Matteo. Solo questo evangelista infatti menziona un terremoto – congiunto con altri fenomeni straordinari – dopo la morte di Gesù, e lo presenta come il motivo per cui il centurione e i suoi soldati vengono riempiti di paura e confessano la figliolanza divina di Gesù crocifisso. A questo proposito si deve considerare che, nelle descrizioni di teofanie che si trovano nell’Antico Testamento, il terremoto è uno dei fenomeni in cui si manifestano la presenza e l’agire di Dio. Menzionando il terremoto, Matteo vuole sottolineare che la morte e la risurrezione di Gesù non sono eventi ordinari, ma eventi ‘sconvolgenti’ nei quali Dio agisce e realizza la salvezza del genere umano. L’evangelista non parla dunque di un terremoto la cui forza potrebbe essere misurata secondo i gradi di una determinata scala, ma vuole risvegliare e dirigere l’attenzione dei suoi lettori su Dio, mettendo in rilievo il dato più importante della morte e della risurrezione di Gesù: il loro rapporto con la potenza salvifica di Dio» ( Scrittura Ispirazione e verità nella Sacra Scrittura, 120).

I terremoti nel vangelo di Matteo sono un segno che, pur volendo evocare quegli effetti emotivi della paura o del terrore che esso porta con sé, va compreso come un genere letterario («motivo letterario», secondo la Pontificia Commissione Biblica) che veicola, paradossalmente, un contenuto di stampo positivo: è un modo per dire come la salvezza di Dio si manifesta in maniera sconvolgente, imprevedibile e incontrollabile. Chiunque sia stato colpito da un sisma, sa bene che al primo potrebbero in qualche momento seguire altre scosse, e non può far nulla se non mettersi al riparo da esse. Dobbiamo dunque dar credito all’evangelista Matteo, e non considerarlo ingenuo al punto da confondere il piano della natura con quello teologico: gli antichi sapevano già riconoscere le cause dei terremoti, se anche uno storico contemporaneo come Flavio Giuseppe poteva scrivere che non devono atterrirci «gli sconvolgimenti delle cose inanimate, né si deve credere che il terremoto sia presagio di altre calamità; tutto ciò che accade agli elementi è un fatto di natura, e agli uomini essi non recano altro danno all’infuori di quello che è in loro» (Guerra Giudaica).

Rimangono da considerare le parole di Gesù Mt 24,7, che descrivono un evento non ancora accaduto: «Vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi». Questo detto, che si trova anche in Le 22,11 e in Mc 13,8 non si sottrae a quanto visto finora. Inutile provare a studiare la magnitudo di questi sismi, o la loro frequenza: Gesù sta usando un linguaggio simbolico (non interpretabile in modo fondamentalista) per dire che quando la salvezza di Dio sarà compiuta col ritorno di Gesù, tutti se accorgeranno. Anche se può sembrare strano, questi sismi così spaventosi che oggi portano sofferenza a chi ne subisce le conseguenze, nel vangelo sono segni che si aprono a una futura salvezza.

*Francescano, docente ordinario di Esegesi biblica, Istituto Teologico di Assisi
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Tratto dal sito della parrocchia dei Santi Ambrogio e Martino Vescovi e da Avvenire.