
Le Lettere di Sandokan – Siccità
E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca,
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.
E’ piacevole lasciarsi ascoltare, quando vedi gli altri sognare sulla musica che suoni. Ti senti il padrone dei loro desideri, capace di controllare i loro sorrisi e i loro pianti. Come se fossi un incantatore di serpenti, un incantatore di vite.
Tu suoni con le parole.
Molti sono tristi e tu li accarezzi raccontando loro storie, pettinando la loro vita. Prendi le cose che ti dicono, le stesse cose, le ripulisci, le risistemi e le restituisci loro in “versi”, facendo diventare “poesia” una serie di giorni stentati.
Si sentivano servi, usati da tutti, prima di sentirti suonare, e tu li trasformi in eroi: li rendi felici, per un po’, come erano felici quando cantavano in spiaggia attorno al fuoco, da ragazzi, mentre la chitarra suonava.
«La siccità solleva la polvere e si infila dentro gli occhi», ti vengono a raccontare alcune, in lacrime, e tu dici loro che non è vero, che non è la siccità: è la loro gonna che, muovendosi, rende meno limpida l’aria, sollevando le terra dal suolo. Quella polvere è vita che si muove, tu dici loro, è salvezza per l’assetato nel deserto, perché gli consente di scorgere le carovane in lontananza. E loro ti credono, perché debbono crederti, per non morire, e ti portano la loro polvere, quando possono, perché tu la faccia suonare.
Tu la fai diventare musica e loro ti ascoltano e ti dicono: «Bello». E poi tornano a casa, quando tutto finisce, e per un po’ vivono degli echi delle tue parole, che erano quello che avrebbero voluto ascoltare da tanti, ma che hanno ascoltato solo da te. E non lo hanno solo ascoltato, ci hanno ballato, per un po’, come ballavano un tempo, leggendo le lettere dei loro innamorati lontani o ascoltando i rumori dei loro passi avvicinarsi, su per le scale.
Perché ti amano. Come potrebbero non amarti? Solo se non amassero se stessi, potrebbero non amarti. Tu sei la loro vita come avrebbero voluto che fosse. Il sottofondo musicale delle loro giornate. Dici quello che loro stessi si direbbero, se fossero capaci di “suonare” come sei capaci di “suonare” tu. Ma non lo sanno fare, o non hanno tempo per farlo.
A volte pesa saper suonare, lo so. Perché lo sai che non ti amerebbero davvero se tu smettessi di farlo o se cominciassi a suonare qualcosa di tuo, qualcosa che non hai ascoltato da nessuno, qualcosa che non parli di loro, ma che parli di te. Quello che ti va.
Forse ti morderebbero, come farebbero i cobra se gli incantatori la smettessero con le solite musiche e si mettessero a suonare “Yesterday” dei Beatles.
E così non hai scelta, come non l’avevano i chitarristi in spiaggia attorno ai falò. Ti chiedono: «la conosci “Yesterday”?». Tu rispondi di sì e finisci per suonare quello che vogliono ascoltare. E ti costringono a un repertorio che ti confina nell’atteso, che rifiuta l’inatteso.
Tu li ami? Non è obbligatorio amare le persone per cui si suona. Non è obbligatorio amare nessuno. E’ impossibile a volte, specie se sono tanti e entrare nella vita di ciascuno proprio non puoi. Non ti rimarrebbe tempo per suonare.
D’altra parte come fa ad amare tutti, un musicista, in un concerto?
Sai che ho pensato? Che ti vorrei sentir suonare qualcosa di tuo, che non conosce nessuno. Magari per strada, tra gente distratta che corre a fare la spesa o a prendere la metropolitana. Ti piacerebbe scoprire qualcuno, di cui non sai nulla, che scoppia a ridere o a piangere a sentirti suonare di te. Ti piacerebbe vederlo contento di quello che suoni. E’ contento di te in realtà, anche se lui non lo sa, perché quello che suoni sei tu.
Ti piacerebbe “assaggiare” che il fatto di essere così come sei abbia la forza di far sentire uno sconosciuto meno solo al mondo.