Le Lettere di Sandokan – Bianco e nero
Ho già descritto, più volte, la mia lettura del colloquio tra Gesù e Tommaso:
«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto»
Tommaso, che vuole sapere dove va Gesù, in fondo fa tenerezza. Pensa di poterci arrivare da solo, se solo sapesse dove andare. Si sente come un turista che ha i soldi per fare un viaggio e a cui manca solo la meta: se Gesù si decidesse a dirgli dove deve andare lui correrebbe in agenzia a prenotare. Gesù gli dice invece che vuol fare il viaggio con lui e che non si deve preoccupare della meta se è con lui. E’ qualcosa che i bambini piccoli sanno bene: mia figlia a tre anni non mi ha mai chiesto “dove andiamo” quando la portavo fuori: era con me e qualunque posto sarebbe stato bello.
Certamente la meta del viaggio è Dio, ma solo Dio cerca davvero Dio e sa chi sia Dio e sa dove Dio “abiti”. La via è l’incarnazione, ma è una via personale e non di massa.
Solo che i cristiani vivono assieme ad altri, credenti come loro, credenti in modo differente da loro e non credenti. E tutti gli uomini tendono a fare “massa”, ma cosa è che da identità a una “massa” di persone.
Gli ebrei, per esempio, hanno una identità chiara: sono ebrei per nascita.
E i cattolici? Formalmente esistono, in questo mondo: sono i battezzati. Ma vivono in una situazione precaria perché sanno che il Cielo è popolato da santi e non da cattolici e la loro appartenenza a un mondo, qui sulla Terra, li rassicura meno di quello che vorrebbero … ma è sempre meglio di niente.
Leggendo lo scritto che vi propongo di sotto, che parla di musica e non di religione, mi sono venute alla mente le cose di cui ho scritto prima … e anche altre, che non ho scritto.
Lo scritto parla del “pubblico” inteso come massa di gente tenuta insieme da uno scopo, per esempio dallo scopo di ascoltare un musicista suonare – ma potrebbe essere uno scopo qualsiasi, difendere un valore a cui si crede, per esempio – e del suo rapporto con un artista che si sta “esibendo” a suo vantaggio (con un pianista, in questo caso, ma anche con una autorità del suo mondo).
Ho pensato che le tipologie di pubblico di cui parla lo scritto stia anche in molte “chiese” (con o senza virgolette), ma non voglio aggiungere altro.
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Estratto dal capitolo 8 di “PARLIAMO DI MUSICA” di Stefano Bollani, Ed. Mondadori
Chissà cosa pensa il pubblico? Chissà cosa sente il pubblico?
Ognuno ascolta e vive la musica in maniera diversa, personalissima. Son ben buffi quegli artisti che parlano del “proprio pubblico” come se si trattasse di una entità molto chiara e definita (di cui prevedono gusti, inclinazioni, commenti, idiosincrasie).
Certo esistono alcune tipologie di pubblico, inteso come massa di persone presenti in contemporanea a uno stesso evento.
Ancora una volta si tratta di convenzioni, maschere che le persone lì sedute decidono di indossare per comodità e pigrizia.
Esiste una gran fetta di pubblico che vuole essere rassicurato. Anche nei dettagli: vuole ascoltare, al concerto, quello che ha già sentito sul disco … vuole vedere la solita storia della Tosca, vuole che tutto quello che accade sul palco rientri in una linea ben precisa e chiara, come mai accade nella loro vita quotidiana, in modo da sperare che ci sia un modo di raccontare e raccontarsi che arrivi a delle conclusioni. Vuole una lezione, un insegnamento, un messaggio chiaro in modo da poter poi aderire o dissentire: proprio come i click su MI PIACE o NON MI PIACE di Facebook.
E’ un pubblico che vuole semplicità, ma non nella sostanza di quello che vedono … la sostanza può essere pure molto complessa, può trattarsi di Pelleas und Melisande di cinque ore, può trattarsi di Beckett, di Anthony Braxton, di Lutoslawski.
Vuole semplicità nei codici:
Io sono seduto qui in platea, tu sei lì sul palco
Tu esprimi delle cose, io ti applaudo
Ti applaudo se le condivido
Se sei un virtuoso
Se non ho voglia di pensarci troppo su
Ma c’è anche una fetta di pubblico che va a cercare cose che lo stimolino davvero. Nel jazz molte volte le persone si trovano di fronte a qualcosa che non si aspettavano: vanno ad ascoltare un artista di cui hanno un disco in trio e si beccano un duo con un’arpista indiana o un omaggio a Monk con un rapper francese o un esperimento di improvvisazione con danzatori. E il bello può essere proprio lì. Decidere di fidarsi di un tale artista e poi seguirlo per vedere che cosa combina. Fare il viaggio con lui, senza chiedersi perché e dove si sta andando.
Vedere cosa combina l’artista sì che accende i sensi!
Senza contare il fatto che, nella maggior parte dei casi, l’artista non sa verso cosa sta correndo.
[…]
Nella sala da concerto classica accade il contrario. Si entra e ci danno il programma, si sa già quello che suoneranno, si dà per scontato che faranno il possibile per attenersi alle indicazioni del compositore, vivo, morto o moribondo che sia.
Abbiamo già la trama in pugno. Sappiamo già se si tratta di una commedia o di un dramma. Dunque siamo pronti a emozionarci in un punto preciso e rischiamo di passare la serata ad aspettarlo (pensiamo alle arie nelle opere … quante lunghissime Tosche per potere alfine sentire E lucean le stelle che Puccini, cattivone e crudele, ci scodella solo alla fine).
Chi fa televisione, poi, convive con una specialissima paranoia: la migrazione dei teleutenti.
La fuga degli spettatori, l’evento più temuto, tanto da creare suspense su ogni singolo secondo, grazie al fantomatico sistema Auditel.
Se si intervista lo scrittore Mario Vargas Llosa e lui parla del suo Perù e dopo, consultando i dati, ci si accorge che nel momento in questione è calato l’ascolto, tranquilli, ecco la soluzione: non si parlerà più di Perù in quella trasmissione. Metodo geniale, semplice, diretto, che regala al capostruttura molto tempo libero, non dovendo egli riflettere su quanto accade, ma solo agire di conseguenza a un dato preciso. Il capostruttura televisivo, come il pubblico dell’opera, ecco. Adotta un codice infallibile e non si interessa al resto del mondo e delle contingenze. Due sole possibilità si presentano al suo orizzonte:
Via il Perù dal palinsesto.
Via Vargas Llosa che è un noiosone.
(può solo peggiorare … c’è sempre l’opzione numero 3) via gli scrittori!
Ah, com’è lineare la visione della vita di queste persone. Piacerebbe che fosse così anche fuori da quell’apparecchio? Vorremmo essere in grado di identificare un problema e di eliminarlo subito, alla radice, senza porci questioni più complesse e tentare di inquadrarlo in un contesto? Sì, forse ahimè ci piacerebbe, stiamo tentando di farlo in questo mondo in bianco e nero che abbiamo costruito.