Le Lettere di Sandokan – Miché
In viaggio in macchina, ascoltando musica, parte una vecchia canzone di De Andrè. E’ stata l’occasione, per lei, di iniziare un racconto.
«De Andrè! La prima volta lo ascoltai a quattordici anni, alla “Casa del sole”».
«A quattordici anni?».
«Intendo dire “questo De Andrè”, il “primo De Andrè”, le canzoni più famose le conoscevo già. Ma alla “Casa del sole” cantavano sempre “La ballata di Miché”».
«E’ tristissima questa canzone. Che cos’è “La Casa del sole”?».
«E’ un centro di recupero per tossicodipendenti. Esiste almeno da trent’anni, nel mio paese. Dipendeva da una comunità di recupero di Napoli, dalla quale mandavano giù i ragazzi».
«E tu ci andavi?».
«Era un luogo misterioso, eppure era lì, vicino casa mia. Questi ragazzi vivevano nel mio paese e non li conosceva nessuno. E neanche loro conoscevano noi. Un giorno io, assieme a tre mie amiche, decidemmo che li dovevamo conoscere. Frequentavamo l’Azione cattolica e sentivamo in comunità tutte quelle storie sulla necessità dell’accoglienza, sul bene da fare, sul prossimo di cui prendersi cura. Ci sembrava assurdo ascoltare quelle cose – e ripeterle ad altri – e accettare che vivessero accanto a noi degli sconosciuti. E così, un pomeriggio, prendemmo una chitarra e, senza dire niente ai nostri genitori, bussammo alla loro porta».
«E come vi accolsero?».
«Bene. Ci presentammo come un gruppo di ragazze della parrocchia, ma questo non li “stese”. E allora, con un po’ di imbarazzo, dicemmo loro che volevamo conoscerli e stare un po’ di tempo assieme. Ci fecero entrare. Erano più di trenta ragazzi. Cominciammo ad andare, con regolarità, ogni settimana. Un giorno, mi ricordo, uno di loro ci disse: “ma non è che per caso ci vedete come gli animali di uno zoo?”. A quattordici anni furono parole che mi sconvolsero, perché forse era un po’ così. Ci affezionammo a loro.
I miei genitori non sapevano nulla. Un giorno confidai a mia sorella il mio segreto e lei corse subito a riferire tutto a mia madre. Successe un casino: erano sconosciuti, erano tossicodipendenti, erano malati … questo mi urlò mia madre. Ed era vero, alcuni si drogavano anche lì dentro e c’erano diversi malati di Aids. Ricordo che urlai anch’io. Le dissi: “Mamma, se non posso andare alla Casa del sole, vuol dire che non andrò neanche a Messa”. Solo così si rassegnò.
Dopo qualche tempo invitai i miei genitori a uno spettacolo teatrale che avevano organizzato lì dentro. Lo spettacolo fu molto bello, i miei si intenerirono e, da allora, alcuni di loro, anche alcuni malati di Aids, cominciarono a venire a casa nostra.
Fu mia nonna a spiegare a tutti, un giorno, come si accoglie la gente a casa propria. Viveva con noi e non si può dire che fosse una donna “moderna”. Era una vecchia di un paese della Calabria di trent’anni fa. Un ragazzo con l’Aids chiese un caffè e mia madre lo preparò e prese un bicchiere di carta per servirglielo. Mia nonna la vide, si alzò e le sussurrò:” No, il bicchiere di carta no. Prendi la tazzina. Poi magari la butti via se hai paura del contagio, ma devi usare la tazzina”. Parlava in dialetto e il ragazzo non capì ciò che diceva, ma io sì e mi vennero le lacrime agli occhi».
«Conoscevi bene la loro vita?».
«Sì, sì. Mi ricordo bene un po’ di cose. Oggi il centro esiste ancora, ma è diverso perché le droghe sono diverse e il recupero è più medicalizzato. Le droghe di oggi ti distruggono il cervello e recuperare è più difficile. Allora questi ragazzi li facevano sudare moltissimo, perché era necessario per il recupero, così mi dicevano: molti lavori agricoli e anche cose senza senso, tipo scavare una buca enorme e poi ricoprirla di terra, al solo scopo di farli sudare il più possibile. Ma ero adolescente e molte cose non le capivo. Guardavo con curiosità un tipo – lo chiamavamo “La Sfinge” perché non lasciava trasparire alcuna emozione – che, dopo diversi anni, morì di Aids».
«Stavano a lungo alla Casa del sole?».
«Dipende dalle situazioni. Alcuni ci stavano per anni. Mi ricordo di un ragazzo napoletano al quale mi ero affezionata. Dopo un po’ lo rimandarono a Napoli, ma continuammo a scriverci. Un giorno ricevetti da lui una cartolina nella quale mi diceva che era circondato da gente cattiva e che non sarebbe vissuto a lungo. Avevo appena finito di leggerla e “La Sfinge” bussò alla porta di casa mia: “Ciao, lo sai che ho appena finito di leggere una cartolina di Michè [non si chiamava così], hai notizie di lui?”. Lui mi guardò impassibile e rispose: “Sì, è morto”.
Ci misi un po’ a riavermi, corsero tutti a casa a consolarmi. Quando fui in grado di nuovo di ascoltare altre voci, “La Sfinge” mi disse: “Sono venuto perché ha chiesto di essere sepolto qui e non a Napoli, ma noi non abbiamo denaro”. Andammo a parlare col Sindaco e la sua tomba e il suo funerale lo pagò l’amministrazione comunale. E ora sta al cimitero del paese».
«Con le tue tre amiche vi vedete ancora?».
«Ci scriviamo, non vivono più al paese. Una è suora in un paese del nord Italia, un’altra fa l’infermiera in una grande Casa».
Mi racconta anche della terza amica, ma oramai siamo arrivati a destinazione e io non voglio sbagliare strada e così smetto di ascoltare.