L’Huffington Post – Anche il vescovo Giovanni D’Ercole non ha risposte, come gli altri terremotati
Le parole di Giovanni D’Ercole, il vescovo dei terremotati, sono entrate nella vita di chi le ascoltava non solo dalle orecchie ma anche dal cuore.
Erano le parole di chi si era appena pulito quelle mani che si era appena sporcato; erano le parole di uno che aveva fatto quello che aveva predicato. Era corso nei luoghi della tragedia non appena aveva saputo. Così, prima di tremargli in gola le parole, la terra gli era tremata sotto i piedi. Lui – e altri preti con lui – avevano scavato.
Il problema numero uno di chi parla in pubblico è “sentire” con il pubblico e non sempre è facile; se ho un funerale alle dieci e un matrimonio alle undici, per me è difficile. È difficile piangere davvero e ridere davvero dopo poco.
Ebbene D’Ercole ha avuto il merito di entrare con entrambi i piedi nella tragedia della sua gente. È stato fisicamente lì: non ha fatto telefonate, rilasciato comunicati, per poi arrivare mezz’ora prima del funerale.
L’immagine di Papa Francesco del pastore con la puzza delle pecore è efficace e vera perché non è un’immagine astratta ma una foto: guardate le foto di Giovanni D’Ercole ad Amatrice e capirete cosa voglio dire. L’unico modo di avere la stessa puzza è stare nella medesima polvere. Scavare non è un merito, è quello che hanno fatto tutti quelli che erano lì, anche i cani. Hanno scavato. È stata quella polvere condivisa che gli ha dato diritto di aprire la bocca e di tacere. D’Ercole ha saputo anche stare zitto. Perché a volte il silenzio – il non saper cosa dire perché non ci sono le parole – è un bellissimo discorso.
Ho visto mentre lo intervistavano quando passava da un paese all’altro e ho visto che taceva. Non diceva alle telecamere e ai microfoni “non venite da me perché non ho niente da dire” ma stava lì in silenzio davanti ai riflettori e diceva le parole del tacere: in quel momento la miglior omelia a cielo aperto. Silenzio. Non sapere. Pregare e scavare. Abbracciare. Provare a rivivere.
Le uniche parole che uomini e donne sporchi di polvere possono ascoltare, sono quelle che vengono da un uomo sporco della medesima polvere. Sono le parole di un uomo dolorante come loro e che non ha tutte le risposte. Perché con il dolore bisogna andarci piano a dare le risposte. Il dolore è tagliente, va maneggiato con estrema cautela. Soprattutto, se non sei sporco di polvere, devi stare attento, molto attento, a metterci di mezzo Dio: ti riempiono d’insulti, se nomini Dio e non puzzi dello stesso dolore di chi è ferito. Perché le risposte non ti riportano in vita i morti e non ti cancellano il terremoto. E chi ti parla di Dio ma non ha addosso la polvere, inevitabilmente ti porta un Dio senza polvere, lontano, uno di quelli che poteva intervenire e non ha fatto nulla: un Dio molto simile ai politici, insomma; o ai giornalisti alla Bruno Vesta. E se credi in Dio, se per lo meno lo stimi, devi stare attento a non accostarlo ai politici o a certi giornalisti, in frangenti come quelli del terremoto.
D’Ercole, invece, ha portato Dio vicino perché è stato debole. Non ha sbandierato la forza della fede ma la sua debolezza. I pastori, da soli, sono sempre più deboli dei lupi. Un uomo con un vincastro non può molto contro un branco di lupi. Diventa più forte di loro se sta con le pecore. Perché allora ci sono anche gli altri cani e gli altri pastori. E l’unione, se è quella delle nostre debolezze, delle nostre polveri unite, fa la forza. D’Ercole è stato un vescovo, un pastore, che ha portato domande, non che ha portato risposte. Era in una palestra e la palla l’ha passata a Dio. “Ora che fai? Questa notte, preparandomi a parlare a voi e a tutte le persone convenute, ho rivolto questa domanda a Dio: ‘E adesso che si fa?’. Gli ho presentato l’angoscia di tante persone, e gli ho detto: ‘Signore, ma queste persone che hanno perso tutto, che sono state strappate alla loro famiglia, che sono state sventrate dal terremoto, ora che fai? Che fai?”. Presentare l’angoscia a Dio: così come si presenta un amico sofferente ad un altro amico sofferente. Perché Dio, per il terremoto, soffre come noi e con noi.
Le parole non ci sono, ma il dolore si. E allora che si fa? Dio che si fa?