Il Regno – Amoris laetitia Un passo avanti nella Tradizione, Basilio Petrà
Amoris laetitia è un documento complesso che riafferma allo stesso tempo l’insegnamento della Chiesa e l’accoglienza dei percorsi individuali nel discernimento ecclesiale. La ricognizione (D. Sala) su come gli episcopati stanno recependo il testo ha messo in luce da un lato alcune voci critiche ma dall’altro un consenso ampio su un testo rappresentativo dell’intero lavoro sinodale.
Più in specifico viene evidenziato da B. Petrà come, mettendosi nei panni dei confessori, sia comprensibile una certa forma di «sconcerto». Familiaris consortio, infatti, ha offerto «per anni un quadro di riferimento dotato d’autorità», nel quale il «confessore ha potuto continuare a essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano».
Oggi, invece, con Amoris laetitia gli si chiede una «maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno».
Il capitolo VIII dell’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) è dedicato al tema: «Accompagnare, discernere e integrare la fragilità». Esso è suddiviso nelle seguenti sezioni: due numeri introduttivi senza titolo (nn. 291s); «La gradualità della pastorale» (nn. 293-295): «Il discernimento delle situazioni dette “irregolari”» (nn. 296-300); «Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale» (nn. 301-303); «Le norme e il discernimento» (nn. 304-306); «La logica della misericordia pastorale» (nn. 307-312).
Come già mostrano i vari titoli delle sezioni, centrale in tutto il capitolo è l’attenzione al «discernimento» delle situazioni dette «irregolari», fin dall’inizio inquadrato in un preciso orizzonte: quello del lavoro della Chiesa come «ospedale da campo» (AL, 291; Regno-doc. 5,2016,190; Regno-doc. 5,2016,190). Infatti, benché «la Chiesa sempre proponga la perfezione e inviti a una risposta più piena a Dio» non può disinteressarsi «dei suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito» (ivi): deve accompagnarli con attenzione e premura, cercandoli anche là dove l’oscurità e lo smarrimento sembrano prevalere, distinguendo le varie forme di unione per «valorizzare» tutto quel che è valorizzabile.
Il non più e il non ancora
Di fatto, varie sono le forme d’unione. Si va dall’unione cristianamente piena (l’«ideale», ovvero «l’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società»: AL 292; Regno-doc. 5,2016,190) alle forme d’unione in contraddizione con l’ideale, passando per forme che realizzano l’ideale «in modo parziale e analogo».
La Chiesa ha il dovere morale di accostarsi a esse per «valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio» (AL, 292; ivi). Deve imparare a «discernere» i «semi del Verbo» anche nelle «situazioni imperfette» (cf. AL 76s) e affrontarle con l’intento di trasformarle «in opportunità di cammino» (AL 294; Regno-doc. 5,2016,191).
È in riferimento a questo processo di valorizzazione positiva che AL ricorda quanto l’esortazione Familiaris consortio n. 34 dice sulla legge di gradualità, ovvero sulle tappe della crescita morale (citato in AL 295: «l’essere umano “conosce, ama e realizza il bene morale secondo tappe di crescita”»; Regno-doc. 5,2016,191), che non va confusa con la gradualità della legge. Le persone sono in cammino, attraversano varie tappe cognitive ed esistenziali, valutano e decidono moralmente (prudenzialmente) secondo quel che a ogni momento comprendono e sono in grado di attuare, cosa che può anche non coincidere pienamente «con le esigenze oggettive della legge» (AL 295; ivi).
Questa attitudine di valorizzazione coincide con quel che è chiamato al n. 293 «il discernimento pastorale delle situazioni» che non corrispondono alla realtà piena del amatrimonio cristiano, un discernimento che permetta d’«entrare in dialogo pastorale» con le persone coinvolte. Per ben due volte il n. 293 invita al «discernimento pastorale».
Misericordia, non «buon cuore»
La valorizzazione delle varie situazioni non è una semplice questione di cortesia o di buon cuore. Corrisponde a quella logica della «misericordia e dell’integrazione» (AL 296; Regno-doc. 5,2016,192) che è della Chiesa e del Signore Gesù, ben diversa dall’altra logica che percorre la storia della Chiesa, cioè la logica dell’emarginazione.
Il papa insiste sulla necessità che il «discernimento del Pastore» cerchi d’integrare nella comunità cristiana tutti coloro che sono integrabili in qualche modo, senza cedere a dinamiche emarginanti seppure «evitando ogni occasione di scandalo» (AL 299; Regno-doc. 5,2016,192).
La strada da percorrere è chiara, come appare da quel che si dice tra i nn. 296 e 297: «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero (…) Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo» (Regno-doc. 5,2016,192).
Per questo, il discernimento deve essere molto attento e saper distinguere bene le varie situazioni senza lasciarsi trascinare da soluzioni semplicistiche e generalizzate: «I padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei pastori deve sempre farsi “distinguendo adeguatamente” con uno sguardo che discerna bene le situazioni. Sappiamo che non esistono “semplici ricette”» (AL 298; Regno-doc. 5,2016,192).
L’esortazione non parla solo del discernimento del pastore, parla anche del discernimento proprio della persona del fedele. Anzi, li pone in stretta connessione e li ricorda unitariamente. AL 298 rinvia così simultaneamente e unitariamente a queste due modalità di discernimento. Quando osserva la diversità delle situazioni dei divorziati risposati, sulla scia di FC 84, sottolinea la necessità di non lasciarsi andare ad «affermazioni troppo rigide» e di «lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale».
Queste due modalità del discernimento, «personale e pastorale», sono ricordate anche all’inizio del n. 300, ove si dice esplicitamente che solo la via del discernimento va percorsa: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (Regno-doc. 5,2016,193).
Un simile rinvio unitario non deve però nascondere il fatto che discernimento pastorale e discernimento personale hanno configurazioni diverse. Anzi, il chiarimento di questa diversità è – io credo – assai importante per cogliere adeguatamente anche quello che l’esortazione concretamente propone.
Discernimento pastorale e personale
Il discernimento pastorale, come dice chiaramente l’aggettivo, è operato propriamente dai soggetti dell’azione pastorale, innanzitutto vescovi e presbiteri, nei confronti delle persone o di situazioni che sono oggetto dell’azione pastorale: esso mira a cogliere le peculiarità e le differenze delle varie situazioni, prendendo in considerazione l’insieme delle circostanze – soggettive e oggettive –, mettendole in rapporto con l’insegnamento della Chiesa e del vescovo (cf. AL 300), mostrando ai fedeli le vie di fedeltà e di crescita della vita cristiana dei fedeli nelle situazioni considerate.
Il discernimento personale indica invece propriamente il discernimento esercitato in prima persona dal soggetto morale – il fedele stesso – allorché è posto dinanzi alla necessità di prendere una decisione in ordine all’agire in una particolare situazione; trattandosi di un cristiano, si suppone che chi agisce cerchi di essere fedele alla volontà del Signore quale si manifesta nella situazione stessa. Del resto, è per questo che il fedele si rivolge al pastore.
È mediante questo personale discernimento che il fedele perviene alla sua propria decisione di coscienza in situazione, una decisione che può essere solo sua. Secondo la nostra tradizione morale, infatti, la coscienza è la norma soggettiva ultima dell’azione e nessuno può prenderne il posto, neppure il pastore (anche nel sacramento della penitenza).
AL 305 richiama opportunamente quanto dice la Commissione teologica internazionale sul fatto che «la legge naturale non può (…) essere presentata come un insieme già costituito di regole che s’impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte d’ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione» (Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009; Regno-doc. 17,2009, 540, mia sottolineatura).
L’esortazione richiama per altro formalmente questa dottrina tradizionale al n. 37: noi «stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Regno-doc. 5,2016,136; sottolineatura mia).
L’esortazione parla simultaneamente e unitariamente di «discernimento personale e pastorale» perché il luogo al quale pensa è quello nel quale il soggetto del discernimento pastorale (pastore) incontra il soggetto (o soggetti) del discernimento personale (il fedele con la sua coscienza) in ordine alla formazione del giudizio di coscienza in situazione. In questo luogo vengono trattate le situazioni che nella prassi della Chiesa sono considerate materia propria del cosiddetto foro interno. L’ambito del foro interno si distingue dal foro esterno – che ha ordinariamente per oggetto il governo pubblico della Chiesa e tratta quindi questioni di carattere pubblico – in quanto riguarda questioni che coinvolgono primariamente la coscienza morale del fedele (dei fedeli). Il foro interno ha due momenti: quello non sacramentale (colloquio pastorale), quello sacramentale (sacramento della confessione).1
Il capitolo VIII ha presenti ambedue i momenti del foro interno. È perciò utile fermarsi sulle loro peculiarità nella tradizione morale.
Il colloquio pastorale
In questo momento del foro interno il pastore esercita una sorta di autorevole moral counseling in dialogo con il fedele. Esso può esigere anche un tempo non breve e talvolta è svolto nel contesto della direzione spirituale. In questo dialogo il pastore – e in quanto richiesto – aiuta il fedele a valutare correttamente il proprio comportamento passato e presente e le sue possibilità future, senza tuttavia sostituirsi alla persona giacché opera in aiuto alla sua coscienza e non al posto di essa.
In questa relazione di aiuto morale (illuminazione/accompagnamento), il pastore prospetta l’orizzonte morale della vita cristiana, aiuta la persona a cogliere quanto dipende e quanto non dipende da lei, qual è l’ambito delle sue responsabilità e delle sue possibilità concrete; può sostenerla e indirizzarla verso le risorse spirituali necessarie per la ricerca sincera della volontà di Dio e per la conformità a essa.
Il pastore – nel foro interno non sacramentale – non impone comportamenti né stabilisce quello che la persona deve fare; aiuta la persona a cogliere la propria responsabilità morale nelle concrete possibilità della sua situazione. La decisione che scaturisce è appunto la norma che la coscienza del fedele in prima persona assume per quella situazione, senza ovviamente pretese universali, e che può non coincidere con la norma oggettivamente e astrattamente data dalla dottrina (si colloca qui, ad esempio, la lunga tradizione morale cattolica dell’epicheia).
AL 300 si riferisce a questo tipo di relazione pastore-fedele quando, riprendendo la Relatio finalis del Sinodo 2015, ricorda che il pastore aiuta i fedeli «alla presa di coscienza della loro situazione dinanzi a Dio» e concorre alla «formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (Regno-doc. 5,2016,193).
Anche AL 303 allude allo stesso processo allorché scrive: «Bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento serio e responsabile del pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia» (Regno-doc. 5,2016, 194). Ancora, è probabilmente allo stesso aiuto pastorale che si riferisce AL 304 quando, ricordando la dottrina di s. Tommaso sull’indeterminazione normativa crescente quanto più si scende nel particolare, afferma che tale dottrina deve essere presente nel «discernimento pastorale» (del pastore) e che proprio per questo «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma», intesa come norma generale (ivi).
È importante sottolineare che questo aiuto al discernimento personale di tipo pratico da parte del pastore non deve essere interpretato come un aiuto a ben applicare la norma alla situazione ma come un aiuto perché la coscienza colga la concreta possibilità del bene ovvero il bene possibile in situazione. AL 308 riprendendo letteralmente Evangelii gaudium, n. 44 sottolinea che la «misericordia del Signore (…) ci stimola a fare il bene possibile» (Regno-doc. 5,2016,196).
E il «bene possibile» non coincide sempre con la realizzazione più piena dell’ideale (cf. AL 303); anzi, talvolta anche illuminata «la coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (AL 303; Regno-doc. 5,2016,194).
Il «bene possibile» non è un bene impuro o indegno. Come osserva il papa in AL 308 citando Evangelii gaudium, n. 45: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, «non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di “sporcarsi con il fango della strada”» (Regno-doc. 5,2016,196).
Nel contesto del capitolo VIII e in particolare alla luce del n. 292 (che distingue tra realizzazione radicale dell’unione ideale – matrimonio cristiano – e realizzazioni «in modo parziale e analogo»; Regno-doc. 5,2016,190) quel che abbiamo appena detto significa che la coscienza del fedele può considerare «bene possibile» una di quelle «situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo (della Chiesa; nda) insegnamento sul matrimonio» (Regno-doc. 5,2016,191).
Passare (o meno) alla confessione
Quando il fedele passa per il colloquio o colloqui pastorali è poi frequentemente portato a rivolgersi al foro interno sacramentale (la confessione).
Talvolta, il passaggio è spontaneo e quasi naturale: in forza dei colloqui stessi il fedele coglie in coscienza la necessità della confessione in ordine all’assoluzione e chiede al presbitero che lo ha accompagnato di confessarlo.
Tale passaggio al sacramento tuttavia non è necessario. Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo caso non ci sia la necessità della confessione. Come si sa, per la dottrina della Chiesa, la confessione è necessaria per i peccati gravi o mortali2 e si hanno peccati gravi solo quando chi agisce sa di fare un male grave (con consapevolezza morale e non puramente giuridica) ed è libero di agire diversamente.
È del tutto possibile che una persona non abbia la adeguata consapevolezza morale e/o non abbia libertà d’agire diversamente e che, pur facendo qualcosa oggettivamente considerato grave, non compia un peccato grave in senso morale e dunque non abbia il dovere di confessarsi per accedere all’eucaristia.
AL 301 allude chiaramente a questa dottrina quando dice che chi è in condizione irregolare non necessariamente «vive in stato di peccato mortale» e parla degli elementi limitanti a vario titolo i soggetti agenti: «I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”» (Regno-doc. 5,2016,193).
Lungo la stessa linea si colloca AL 295 quando, appoggiandosi a FC 34, descrive con accuratezza il peculiare esercizio prudenziale della libertà da parte di soggetti che agiscono senza poter cogliere pienamente le «esigenze oggettive della legge», ovviamente senza colpa in causa (Regno-doc. 5,2016,191).
In casi simili, di non necessità del passaggio al sacramento per accedere all’eucaristia, la confessione è semplicemente consigliata. Non è infrequente però che anche chi non vede la stretta necessità della celebrazione sacramentale chieda l’assoluzione e dunque celebri il sacramento.
Come talvolta non è necessario il ricorso alla confessione, così non è necessario che ci si confessi con il sacerdote che ha accompagnato. Potrebbe essere un altro confessore.
Quando manca il colloquio pastorale
Va osservato però che nell’attuale prassi la maggioranza dei fedeli arriva direttamente al foro interno sacramentale senza passare attraverso il foro interno non sacramentale.
Ciò significa che diventa più difficile l’aiuto da parte del pastore alla coscienza del fedele, sia perché ordinariamente nel confessionale il tempo non è sufficiente e spessissimo le persone non sono conosciute, sia perché il sacramento non si può configurare come un colloquio di aiuto morale, anche se può includere tale dimensione.
In simili casi, la logica pastorale di AL vorrebbe – io credo – che si invitasse il fedele a un dialogo personale in contesto non sacramentale, se possibile, o lo si rinviasse a un servizio diocesano disposto per l’accompagnamento delle persone in tali situazioni.
Nel caso tuttavia che il fedele non possa accogliere questi suggerimenti, il confessore seguirà le regole proprie della praxis confessarii concernenti il giudizio sulla disposizione del penitente.
Quando interviene il foro interno sacramentale, infatti, si attiva un tipo peculiare di discernimento che è appunto quello sacramentale. Esso ha come soggetto il confessore e come oggetto la disposizione del penitente. Secondo la dottrina tradizionale,3 il confessore è chiamato a valutare (giudicare) la disposizione morale del fedele – il suo pentimento nei confronti dei peccati gravi dei quali ha coscienza –: solo il pentimento apre l’assoluzione e l’ammissione all’eucaristia.
Tale discernimento non ha la forma di una sentenza di tipo giudiziario; è e deve essere – come ribadisce Reconciliatio et paenitentia – un giudizio di misericordia, teso a cogliere ogni segno del pentimento che renda possibile l’effusione del perdono.
È un giudizio che si basa pienamente su quanto il penitente comunica. Sottolineo quanto appena detto: secondo la tradizione nel foro interno (tanto sacramentale quanto non sacramentale) si deve sempre credere al penitente sia quando parla contro di sé sia quando parla a suo favore, se non si danno prove evidenti in contrario. È per questo, tra l’altro, che si è ammessa in passato la prassi dell’accettazione della nullità della prima unione in foro interno, nel caso in cui il confessore avesse acquisito la certezza morale di tale nullità, anche se non dimostrabile in foro esterno. Tale possibilità è ancor oggi sostanzialmente ammessa.
È inoltre un giudizio che non parte da zero ma da una presunzione a favore del penitente. È regola della praxis confessarii che il penitente si presume pentito quando viene a confessarsi giacché ordinariamente il penitente viene liberamente per avere il perdono dei propri peccati e non per altri motivi: dunque, venendo, si riconosce peccatore e sa di avere bisogno di perdono. Ciò spiega perché se non ci sono prove in contrario – ovvero prove per le quali il confessore raggiunge la certezza morale che il penitente non è pentito dei peccati gravi dei quali ha coscienza – chi viene a confessarsi deve essere assolto.
In continuità con Familiaris consortio
Chi legge Amoris laetitia si rende subito conto che essa cerca e insiste sulla continuità con Familiaris consortio; in vari punti la richiama o vi si appoggia (ad esempio quando presenta l’idea delle fasi di crescita morale, quando invita all’attenzione alla diversità delle situazioni, quando tende ad accogliere il più possibile le situazioni «irregolari» ecc).
Si può dire anche qualcosa di più: AL condivide profondamente l’attitudine pastorale di FC, che, nelle sue prime frasi al n. 84, mostra il desiderio di andare incontro pastoralmente il più possibile alla situazione dei divorziati risposati: «La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che – già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale – hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza» (EV 7/1796).
È per questa tensione pastorale che FC 84, mentre ha ben presente l’ideale (la separazione dei coniugi in seconda unione non valida), ammette una seconda possibilità, che non corrisponde pienamente all’ideale ma vi si approssima.
Infatti, FC riconosce che si possono dare condizioni che rendono l’ideale non praticabile perché ferirebbe importanti beni e accoglie una soluzione già proposta nella praxis confessarii e fatta propria anche da alcuni episcopati (ad esempio quello italiano nel 1979), quella cioè di assolvere e ammettere all’eucaristia il penitente disposto a vivere nella seconda unione come «fratello e sorella» (cf. AL 299, nota 329).
Non casualmente AL 298 ricorda esplicitamente questa apertura di FC 84: «La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione”» (Regno-doc. 5,2016,192).
Dunque, FC è così pastoralmente orientata che giunge ad aprirsi a una soluzione non corrispondente all’ideale (la separazione) in considerazione del bene dei figli o di altri seri motivi.4
In qualche modo, tutto il n. 84 di FC delinea un processo d’integrazione: esso integra sacramentalmente le nuove unioni che accettano di non considerarsi coniugali pur continuando a convivere per seri motivi; integra, seppure non sacramentalmente, anche le coppie che non accettano la via fratello-sorella, questo giacché invita i fedeli ad aiutarle a non sentirsi separate dalla Chiesa (non lo sono) e ne sollecita direttamente la partecipazione alle diverse forme di vita ecclesiale.5
Tuttavia, è ben noto che FC ritiene di non poter andare oltre perché ultimamente il criterio della verità oggettiva le appare determinante per l’ammissione all’eucaristia: la nuova unione oggettivamente non è un vero matrimonio. Lo dice chiaramente al n. 84: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio» (EV 7/1799).
AL, invece, pur partendo dalla stessa attitudine pastorale e dalla stessa volontà d’integrazione, arriva a una conclusione diversa proprio su questo punto. Come mai?
Un passo oltre
Per cogliere il vero significato di questo passo avanti è necessario considerare attentamente un testo di AL 305: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (Regno-doc. 5,2016,195). Questo testo conclude con la nota 351 sulla quale torneremo successivamente.
Dopo quel che abbiamo osservato prima, non meraviglia che tali parole dicano cose molto simili a quanto leggiamo in FC 84. Quando alludono alla condizione dei divorziati risposati dicendola «una situazione oggettiva di peccato» in qualche modo ne constatano la contraddizione oggettiva.
Anche il riferimento fatto «all’aiuto della Chiesa» corrisponde alla mens di FC che sollecita i divorziati risposati al rapporto con la Chiesa, anche se non possono accedere all’eucaristia. Quando afferma poi la possibile convivenza tra grazia di Dio e stato oggettivo di peccato dice qualcosa che fa parte del generale patrimonio teologico, mostrato tra l’altro dalle citazioni di Tommaso largamente presenti nel capitolo VIII di AL, patrimonio certamente non negato da FC 84.
Quel che appare nuovo in AL sta nella nota 351 ove si dice chiaramente che tale aiuto della Chiesa può essere costituito dai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, ovvero dall’assoluzione e dall’ammissione all’eucaristia.
La nota suona così: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)» (Regno-doc. 5,2016,195).
AL ammette dunque che nel foro interno sacramentale il confessore possa in alcuni casi assolvere e ammettere all’eucaristia divorziati risposati – con nuova unione sicuramente invalida – che pure continuino regolarmente la loro vita coniugale.
È evidente che AL non vuole indicare una nuova norma al posto della norma indicata da FC 84: essa letteralmente dice solo che in alcuni casi la norma di FC 84 non obbliga il confessore.
Ci si può chiedere su quale base lo dica e qualcuno potrebbe dire che si tratta di un’innovazione, un andare oltre la Tradizione.
In realtà, si può dire piuttosto che AL arriva a questo passaggio perché si mette in ascolto della tradizione morale della Chiesa ancor più ampiamente di quanto FC 84 abbia fatto.
In ascolto della tradizione morale
I motivi che portano FC 84 all’ esclusione dell’assoluzione/ammissione all’eucaristia sono stati richiamati. Come abbiamo visto, sono motivi teologici, presenti nella tradizione, e motivi pastorali, in particolare la preoccupazione per le sorti dell’indissolubilità anche tra i cristiani.
C’è tuttavia un principio fondamentale implicitamente assunto dal testo surricordato di FC 84 per escludere i divorziati risposati dall’eucaristia: su di esso si basa sostanzialmente l’esclusione espressa in termini generali. Il principio è questo: non può essere mai ammesso all’eucaristia chi vive una contraddizione oggettiva con quanto significato oggettivamente dall’eucaristia.
Ebbene, il principio in tale forma assoluta non si ritrova nella tradizione; anzi si può affermare decisamente che la tradizione e la prassi morale della Chiesa non conoscono questa assolutizzazione.
Parte della tradizione morale infatti è anche tutto il patrimonio della praxis confessarii che ha offerto nei secoli prospettive più ampie e ha incluso anche eventualità diverse. Ad esempio, la praxis sa che per l’assoluzione non si può esigere dal penitente pentito più di quanto possa dare.
Ci sono circostanze nelle quali non si può chiedere al penitente – per assolverlo e ammetterlo alla comunione – che lasci una situazione di grave pericolo morale se questo significa provocare danni gravi a sé, ai propri cari o a persone verso le quali si hanno serie responsabilità: la teologia morale parla allora di «occasioni prossime di peccato necessarie». Così la tradizione conosce circostanze nelle quali non si deve cercare di cambiare le convinzioni oggettivamente sbagliate di una persona, che o non capisce o non può capire la verità di alcune posizioni morali della Chiesa, per assolverla e ammetterla alla comunione.
Sono quelle circostanze nelle quali il penitente è in «ignoranza invincibile» o in condizione di «coscienza soggettivamente difendibile» (si tenga conto di quanto sopra detto sul peccato grave). In tali circostanze, secondo la valutazione del confessore e tenendo conto del bene del penitente, è possibile assolvere e ammettere all’eucaristia anche se il confessore sa che si tratta per la Chiesa di un disordine oggettivo.
Una situazione ben nota della tradizione è quella della coscienza perplessa, il caso cioè della persona che ritiene in coscienza che comunque agisca fa male ma non può esimersi dall’agire: la teologia morale cattolica afferma da sempre che il soggetto è chiamato a scegliere il male minore e che nel fare il male minore non è colpevole. Di fatto è assolto e fa la comunione. Analogo è il caso nel quale il soggetto si trova dinanzi alla necessità di scegliere tra valori che orientano a comportamenti che in situazione confliggono e sceglie i valori preminenti non in sé ma nella sua concreta condizione e nel suo contesto esistenziale.
Queste posizioni della praxis, ben presenti nella storia morale cattolica, non negano il principio usato da FC ma non lo assolutizzano, costantemente lo interpretano e lo economizzano – come direbbero gli orientali – in rapporto alle concrete persone e al loro cammino cristiano.
Esse attestano che la tradizione considerata in tutta la sua ampiezza ha ammesso e ammette la partecipazione all’eucaristia anche in alcuni casi d’incoerenza tra situazione oggettiva delle persone e oggettivo significato dell’eucaristia, ha cioè ritenuto e ritiene che la contraddizione oggettiva di vita non prevalga sempre sulla considerazione del bene del penitente.
Sacramento come aiuto
In contesti simili il sacramento è visto non come premio dei perfetti (soggettivamente e/o oggettivamente) ma come aiuto nel cammino a persone la cui colpevolezza soggettiva è fortemente diminuita o assente, non come consacrazione della piena verità dell’esistenza ma come forza/luce donata per crescere nella conoscenza e attuazione dell’esistenza cristiana .
In altre parole, AL richiama quella parte della tradizione – la stessa tradizione per altro di FC – che non assolutizza il criterio ma lo relativizza e lo subordina al bene della persona (delle persone): si danno circostanze infatti nelle quali ogni norma va ricondotta al suo fine proprio, che è la salus animarum, il bene delle persone.
Nella prospettiva di AL ciò che si richiede perché si attivi l’aiuto sacramentale è che sia per il bene della persona (delle persone) nel suo (loro) cammino cristiano. Cosa che AL senza dubbio fa.
Essa mette in guardia da alcune situazioni che non possono essere considerate in questa luce: «Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr. Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione» (AL 297; Regno-doc. 5,2016,192).
Inoltre dal momento che la stessa logica dell’integrazione deve evitare ogni occasione certa di scandalo (cf. AL 299), anche questo aspetto va tenuto presente nel discernimento sacramentale.
Vanno poi, secondo AL, presi in considerazione anche alcuni criteri positivi di discernimento. AL 293 indica l’esistenza di alcuni dati oggettivamente verificabili: stabilità e pubblicità del vincolo, affetto reciproco, responsabilità verso i figli ecc.
Altri elementi sono tratti dal modo in cui il fedele si muove nel dialogo pastorale e nel rapporto sacramentale: «“Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. Familiaris consortio, n. 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere a una risposta più perfetta a essa”. Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (AL 300; Regno-doc. 5,2016,192).
Questo quadro di criteri può essere allargato, sulla stessa linea di discernimento: ricordo un dato tradizionale, cioè la considerazione dell’assolvimento dei doveri nei confronti delle persone coinvolte nella prima unione e i tentativi di riconciliazione esperiti.
Applicatori di norme o pastori?
Dal punto di vista della determinazione dei criteri appare particolarmente importante quanto leggiamo in AL 298. Ivi, infatti, l’esortazione, nell’intento di mostrare la varietà delle situazioni, offre vari casi possibili utilizzando anche quanto detto da FC 84 sui casi nei quali la separazione non sarebbe giusta. In particolare ricorda un caso di «una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe».
AL sa bene quel che dice FC in un simile caso, ma non può esimersi dall’osservare nella nota 329 che la mancanza di intimità potrebbe portare a mettere in pericolo la fedeltà della seconda unione e il bene dei figli. Questa nota allude abbastanza chiaramente alla possibilità che in casi simili il bene dei figli e il bene connesso della stabilità coniugale della seconda unione – ormai irreversibile – siano tra i criteri che conducono il «discernimento personale e pastorale» all’ammissione all’eucaristia.
AL 298 offre altri casi possibili, tra i quali va notato in particolare quello del coniuge ingiustamente abbandonato e unito in nuova unione stabile.
Non c’è dubbio che ogni confessore cattolico in questo momento si trovi in mezzo al guado tra FC e AL. Non si può negare lo sconcerto e la confusione di molti.
La FC, anche se la sua soluzione si è rivelata sempre più limitata e insufficiente, ha offerto tuttavia per anni un quadro di riferimento dotato d’autorità. Il confessore ha potuto continuare a essere più un applicatore della norma che un pastore e un padre personalmente coinvolto nel bene del penitente e nel suo cammino cristiano.
Oggi l’attitudine indicata da AL esige che il confessore assuma maggiore responsabilità personale nel valutare il bene del penitente e delle persone coinvolte dal suo agire, con cuore misericordioso e con intento terapeutico. Il suo ruolo è certamente assai più impegnativo. Bisogna però dire che diventa anche più significativo, più ricco e più ministerialmente pieno.
No al rigorismo, no al lassismo
Lo fanno percepire profondamente alcune parole di papa Francesco dette a tutti i confessori e che tutti i confessori dovrebbero ben meditare: «E bisogna guardarsi dai due estremi opposti: il rigorismo e il lassismo. Nessuno dei due fa bene, perché in realtà non si fanno carico della persona del penitente. Invece la misericordia ascolta veramente con il cuore di Dio e vuole accompagnare l’anima nel cammino della riconciliazione. La confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia!».6
«Tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”. Ma pensate questo: né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! L’uno dice: “Vai tranquillo, Dio perdona tutto. Vai, vai!”. L’altro dice: “No, la legge dice no”. Invece, il misericordioso lo ascolta, lo perdona, ma se ne fa carico e lo accompagna, perché la conversione sì, incomincia – forse – oggi, ma deve continuare con la perseveranza… Lo prende su di sé, come il Buon Pastore che va a cercare la pecora smarrita e la prende su di sé. Ma non bisogna confondere: questo è molto importante. Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare. Non dire: “Ah, no, vai, vai!”, o la rigidità. Questo è molto importante. E chi può fare questo? Il confessore che prega, il confessore che piange, il confessore che sa che è più peccatore del penitente, e se non ha fatto quella cosa brutta che dice il penitente, è per semplice grazia di Dio. Misericordioso è essere vicino e accompagnare il processo della conversione».7
1 Cf., sulle questioni riguardanti tali due momenti in generale, il mio Fare il confessore oggi, EDB, Bologna 2012.
2 Cf. can. 960 del Codice di diritto canonico (CIC).
3 Cf. il can. 980 del CIC.
4 È noto che FC non entra nella questione delle eventuali cadute (sessuali) successive all’accettazione da parte del penitente della via fratello-sorella. Va però ricordato che negli anni successivi alla FC è diventa prassi quasi universale – almeno in Italia – che le eventuali cadute non impedissero l’assoluzione permanendo la sincera e adeguata volontà del penitente di non vivere in forma coniugale.
5 FC 84 esorta pastori e fedeli ad aiutare i divorziati risposati a non considerarsi separati dalla Chiesa, «potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza»; EV 7/1798.
6 Francesco, Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, 28.3.2014.
7 Francesco, Discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica, 12.3.2015.