Giuseppe Fantasia – La famiglia e quei figli in ostaggio di genitori modello
Renato Pierri suggerisce di pubblicare questo articolo sul blog
A cosa ci riferiamo realmente quando parliamo di famiglia? Per Laura Pigozzi, autrice di libri su questa tematica e sul femminile nonché membro della Fondation Européenne pour la Psychanalyse, la famiglia altro non è che un luogo. Un luogo di trasmissione in cui si comunica uno stile, si ascoltano narrazioni e si condividono valori. “È il luogo in cui la parola costruisce gli esseri umani, nel bene e nel male”, quello dove i genitori vi esercitano la capacità di trasferire, tramandare, offrire, perché, in fin dei conti, “quello che ci fa madri e padri non è il sangue, ma la parola”. Ce lo spiega nel suo nuovo libro, Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio di genitori modello, un saggio pubblicato da nottetempo che farà male a molti, perché ogni pagina è piena di verità e – come si sa – quasi sempre la verità fa male. Leggerlo è, però, a dir poco necessario per sapere, per informarsi e per migliorarsi, perché di mamme e papà che trasformano giorno dopo giorno i propri figli in ‘mostri’ da venerare, qualsiasi cosa facciano o dicano, ne è purtroppo pieno il mondo, soprattutto nella nostra società occidentale dove le ambizioni e le frustrazioni, le competizioni e i sogni portano ad eccessi senza pari. Bisogna considerare i propri fili per quello che realmente sono, senza scadere in eccessi che – alla fine – non faranno altro che danneggiarli nell’immediato e nel futuro.
La genitorialità – spiega la Pigozzi – “è metafora di una responsabilità non agganciata strutturalmente alla generatività” e per famiglia si intendono anche quelle ricostituite con matrigne e patrigni, così come quelle omogenitoriali, dove esistono adulti che occupano una precisa funzione simbolica e di cura, senza che esistano necessariamente legami biologici con la prole. Il legame che c’è tra una madre e un figlio, il rapporto più biologico di tutti, “non è mai la condizione essenziale di famiglia”, perché in qualunque civiltà, il legame biologico è sottomesso a quello culturale e se i genitori vengono ritenuti indegni rispetto alle regole di una società, i figli sono loro sottratti, e questo accade anche nei nostri ordinamenti. “La famiglia naturale non esiste né è mai esistita”, aggiunge l’autrice, e l’idea stessa di famiglia naturale appare una costruzione del pensiero, un’invenzione puramente culturale, inventata dai sostenitori del contrario che, tra le altre cose, non riconoscono neanche le unioni omosessuali.
A ben vedere, però, anche dietro le famiglie ricostituite o allargate, monogenitoriali come omogenitoriali, c’è un’allarmante immagine della famiglia concepita e custodita come nido inclusivo ed esclusivo, come “un Uno chiuso in sé”, una sorta di corpo uterino, che ritiene di contenere tutto ciò di cui i suoi membri hanno bisogno. “Le famiglie inclusive – ci spiega – perdono e fanno perdere il mondo come orizzonte, imbarbarendosi”. È uno stile familiare che genera abitudine e dipendenza, più che amore, perché si tratta di un modello familiare fondato sull’immediata affettività più che sull’eticità, sull’utero piuttosto che sul mondo, sul legame biologico piuttosto che su quello sociale. Il mondo non deve essere risucchiato all’interno della famiglia, perché la crescita è fatta anche del rapporto con l’altro e con gli altri che è e che sono là fuori, con tanto di opposizioni, dissonanze e negoziazioni. Un soggetto potrà incontrare il vero amore quando lascia la casa genitoriale ed accetta l’esilio dal corpo della madre: “perde qualcosa per non perdersi del tutto” e solo in quel momento si realizzerà quella che lei definisce “la vera filiazione”, ovvero l’aver ricevuto dai propri genitori la possibilità di lasciarli, perché se è fondamentale avere radici, è altrettanto necessario avere delle ali. Se questa eredità non c’è stata, resta solo una cosa da fare: prendersela.
Pubblicato su L’Huffington Post