Blog / Lettere | 30 Luglio 2016

Le Lettere di Sandokan – Mercy Street

Ho scoperto Peter Gabriel grazie a un mio amico che mi fece ascoltare Mercy Street. Nell’anno della Misericordia una canzone che parla della via della Misericordia ci sta bene, ho pensato.

Ho curiosato su questa canzone e ho scoperto che Gabriel fu ispirato da una poetessa statunitense che non conoscevo, Anne Sexton. In particolare fu ispirato dalla sua struggente Mercy Street, 45.

E’ una poesia postuma che parla di misericordia, di una misericordia che Anne ha cercato per tutta la vita e che non ha mai trovato. La lettura della sua poesia mi ha fatto venir voglia di conoscerla meglio e, da Wikipedia, ho tirato fuori qualche nota biografica che vi propongo.

Anne Sexton non ebbe una vita facile. Sempre a disagio tra i suoi, che sentiva ostili e temeva potessero abbandonarla (la sua biografa Diane Middlebrook ipotizza un abuso sessuale da parte dei genitori durante la sua fanciullezza), si sentiva amata soltanto da una giovane zia che viveva in casa con loro, ma che presto si ammalò e la lasciò.

La scuola non le piaceva. Dopo la high school venne iscritta in una scuola professionale dove, più che altro, si insegnava a essere mogli e madri perfette. Dopo solo un anno fuggì da quella scuola con un uomo che poi sposò.

Lavorò come modella per pochi anni e, dopo la nascita della prima figlia e i primi segni di malattia mentale, si iscrisse a un laboratorio di poesia.

La morte inaspettata di entrambi i genitori – e quindi la fine di un rapporto molto difficile – portò nella sua mente ulteriori disagi. La poesia sembrava l’unica via per la stabilità, sebbene a volte le amicizie che fece attraverso la sua arte, che l’hanno condotta ad avere rapporti sessuali con diverse persone, fossero alquanto conturbanti.

Divenne una poetessa famosa. Nel 1967 ricevette il premio Pulitzer per la poesia, e divenne anche sempre più dipendente da psicofarmaci e dai suoi amanti.

Dopo aver divorziato dal marito si notò in lei un declino nella salute e stabilità: era sola, alcolizzata e depressa. Divennero difficili anche i suoi rapporti con le figlie che stavano crescendo. Proprio nell’anno del suo divorzio – dopo diversi tentativi falliti nel passato – si suicidò.

Questa la sua storia, in sintesi. Ma la sua Mercy Street 45 dice di più.

Non starò qui a spiegare la poesia, ma semplicemente a raccontarvi cosa mi ha insegnato sulla misericordia.

Mercy Street è la via dell’anima che raccoglie i luoghi della sofferenza di ciascuno, passata e presente. In Mercy Street 45, tale via dell’anima diventa un luogo fisico, l’indirizzo di una casa, un posto pieno di ricordi, di oggetti e di persone.

Ho pensato che è vero, che è in una “casa” che cerchiamo di offrire e ricevere perdono, nella “casa” in cui abbiamo sofferto, ma in cui non avremmo dovuto soffrire. La misericordia non vuole dimenticare le offese, vuole risanare luoghi e persone.

Leggendo la biografia di Anne Sexton mi sono chiesto se non sarebbe stato meglio per lei ricominciare una nuova vita dimenticando il passato: girare alla larga da Mercy Street, 45. Perché ritornare a cercare luoghi e persone che non esistono più, o almeno non sono più quelle di un tempo?

Poi ho capito. Ho capito che lei aveva bisogno della sua casa. Non avrebbe voluto vivere un’altra vita, in un altro luogo, con altri genitori. Aveva bisogno di quei genitori, di quei luoghi, però purificati, risanati dal suo perdono.

Ho anche capito, credo, il perché della sua disperazione. A passeggiare per Mercy Street ci andava sempre da sola, ogni giorno, per tutta la vita. Non per colpa sua, mi immagino. Perché non trovò mai nessuno che avesse voglia di tornare in quei luoghi, oramai deserti di persone e di fatti, con lei. Non poteva risanare ciò che non esisteva più e tutto questo la faceva soffrire moltissimo. Poteva solo passeggiarci con qualcuno, raccontando le sue storie, i suoi pensieri. Qualcuno che non la lasciasse sola nel perdono, che perdonasse assieme a lei, in lei, perché lo voleva lei, perché lui era lei. Tutte le storie di sesso di Anne Sexton me le sono immaginate come la ricerca di questo “qualcuno” che non trovò mai.

Non so se vi è mai capitato di ascoltare, o di leggere, storie di naufragi. Il naufrago è oramai al sicuro e i suoi racconti diventano favole – si arricchiscono di cose immaginarie, le onde crescono in altezza di racconto in racconto – nelle quali lui non è più vittima, ma protagonista, eroe. E’ vivo infatti, ma non solo.

Non basta essere sopravvissuti a un naufragio per sentirsi al sicuro. La sicurezza la dà chi ascolta la nostra storia da vicino, passeggiando nella nostra Mercy Street e guardandoci con gli occhi di chi non permetterà più che lo stesso dolore si ripeta. Noi lo guardiamo e non ci fa più tanto male il nostro passato e forse saremmo capaci di affrontarlo di nuovo, se mai dovesse ricapitare, ma non più soli: la nostra nuova sicurezza sta nel fatto che abbiamo trovato, finalmente, compagnia.

_________
Mercy Street, 45
di Anne Sexton

Nel mio sogno
reale fino al midollo
cammino su e giù per Beacon Hill
cercando un cartello stradale,
Mercy Street.
Non c’è.

Provo per Back Bay.
Non c’è.
Non c’è.
Eppure conosco il numero,
Mercy Street, 45.
Conosco il vetro colorato
della finestra nell’atrio,
le tre ali della casa
con il parquet sui pavimenti
Conosco i mobili e
Mamma, nonna e bisnonna e servi.
Conosco la credenza con gli Spode*,
la vaschetta del ghiaccio, argento solido,
dove il burro posa in bei quadrati,
come strani denti di gigante,
sul grande tavolo di mogano.
Lo conosco bene.
Non c’è.

Dove siete andati?
Mercy Street, 45,
con la nonna inginocchiata
nel suo corsetto di stecche di balena
che prega, a bassa voce, ferocemente,
davanti alla bacinella,
alle cinque del mattino
a mezzogiorno,
sonnecchiando sulla sedia a dondolo
il nonno schiaccia un pisolino nella dispensa,
la nonna suona il campanello per la cameriera, di sotto,
e Nana culla Mamma, con un fiore gigante
sulla fronte, per coprire un ricciolo
di quando era buona ed era …
E là, dove fu concepita,
e, dopo una generazione,
me,
la terza che avrebbe concepito,
un fiore di nome Orrido, sbocciante
da un seme straniero.

Cammino con un vestito giallo
e una borsetta bianca piena di sigarette,
pillole, portafogli, chiavi
e ho ventotto anni, o quarantacinque?
Cammino. Cammino.
Accendo i fiammiferi ai cartelli stradali,
perché è buio,
scuro come pelle morta
e ho perso la mia Ford verde,
e la mia casa nei sobborghi,
e due bambini piccoli
succhiati via come polline dall’ape che sono,
e un marito,
che si è seccato gli occhi
per non guardarmi più dentro,
e cammino e guardo
e non è un sogno,
ma solo la mia vita,
dove le persone sono alibi
e la strada è perduta
per sempre.

Indosso gli occhiali scuri.
Non mi importa.
Imbullona pure la porta, pietà,
cancella il numero,
strappa via i cartelli stradali.
Cosa può contare,
cosa può contare questa spilorcia che sono,
chi lo vuole un passato,
che uscì da un morto battello
lasciandomi solo della carta?

Non c’è.

Apro la borsetta,
come fanno le donne,
e pesci nuotano avanti e indietro
tra le banconote e il rossetto.
Li afferro uno per uno
e li getto ai cartelli stradali,
e lancio la borsetta
nel fiume Charles.
Poi tiro fuori il sogno
e lo getto sul muro di cemento
dello stupido calendario
in cui vivo
la mia vita,
e i suoi faticosi
taccuini

*è una marca di ceramiche e oggetti per la casa