Blog / Scritti segnalati dal blog | 17 Luglio 2016

Luigino Bruni – Ciò che davvero conta è camminare fino alla fine

La sfida più impegnativa in tutte le esperienze comunitarie è riuscire a dar vita ad un “noi” che non finisca per mangiare gli “io” delle singole persone che lo hanno generato. I nomi collettivi sono buoni e dalla parte della vita solo se sono accompagnati e preceduti dai nomi e dai pronomi personali. I “noi” senza gli “io” sono all’origine di tutte le patologie comunitarie e dei regimi illiberali, anche quando si presentano come promessa di liberazione e si rivestono di una veste salvifica.
Le comunità servono le loro persone solo se riconoscono di essere seconde, consentendo che la prima persona singolare preceda quella plurale. Quando questo ordine naturale dei plurali e dei singolari viene invertito o negato, i cammini personali si guastano, le vocazioni sfioriscono, la comunità tradisce se stessa.
Il destino di ogni vocazione è la generazione di nuova vita, la liberazione di schiavi dai faraoni, oltre il mare. Ma ogni vocazione è anche una grande storia d’amore. Il suo buon sviluppo nel tempo sta allora nella possibilità concreta di poter tenere assieme la chiamata alla liberazione di oppressi con la delicata gestione delle emozioni narcisistiche presenti in ogni innamoramento. In principio c’è l’eros. La voce ci incontra, ci chiama e ci seduce, e ci ritroviamo dentro il sogno dei sogni. Tutto attorno canta ed è illuminato da un nuovo sole dentro, più vero e luminoso di quello che splende fuori. Si accendono tutti i sentimenti, si muove e commuove il cuore, la voce che ci chiama si sente e si tocca come il pane, come le persone. È una esperienza sublime, indispensabile per far iniziare ogni volo alto sotto il sole. E chi l’ha conosciuta continua a cercarla per tutta la vita. Ma perché la vocazione prosegua bene il suo sviluppo, è necessaria la maturazione dell’eros in philia (amicizia). Quando ciò accade, la prima chiamata diventa una esperienza di compagnia e di fraternità. Si esce dal registro unico e prevalente del sentimento e della passione e si costruiscono comunità. Non è detto che i sentimenti e l’innamoramento scompaiano, ma non sono più né l’unico né il primo linguaggio. È questo un periodo della vita molto bello e in genere molto lungo, quando la vocazione costruisce città nuove, fonda opere, si sperimentano una nuova fecondità e nuovi figli. A Ismaele, il figlio della carne, si aggiunge Isacco, il figlio della promessa. Anche la fede cambia, e da esperienza sentimentale e intimistica, diventa una grande storia di popolo, sboccia in comunità. Si scopre lo stesso primo amore nell’amore degli altri, e insieme si celebra una nuova alleanza. La vocazione si apre, diventa un evento collettivo. Anche nell’età della philia resta l’eros, perché ogni forma dell’amore è co-essenziale per vivere bene: non c’è una buona philia (né autentica agape) senza eros. Ma la maturazione in philia cambia l’eros per sempre, lo apre, lo umanizza.
Nelle vocazioni che non si guastano lungo la strada, la philia, nata dalla maturazione dell’eros, fiorisce a sua volta in agape. È questo il tempo della maturità piena, quando i fiori della primavera diventano i frutti dell’estate. La comunità che ha custodito la prima vocazione e l’ha fatta diventare una avventura collettiva condivisa e feconda, diventa ora il trampolino di lancio verso orizzonti nuovi dello spirito. La comunità svolge il suo mestiere di pedagogo buono e introduce finalmente la persona alla vita adulta. Si continua a vivere con e per gli altri compagni di viaggio, ma con una libertà e una verità tutte nuove. La liberazione promessa dalla prima chiamata qui raggiunge un primo traguardo: si è liberati dalla stessa comunità che ci era stata donata. Si capisce che si è stati mandati per una comunità più grande della propria: quella di tutti. Si scopre che la famiglia che ci ha accolto non era l’ultima parola, ma solo la penultima. Che il nostro destino si trova nella terra di tutti, che il cielo sopra il giardino di casa è troppo piccolo per contenere la nostra chiamata all’infinito. E si parte, anche quando restiamo nella casa di sempre. Non c’è libertà più vera e radicale di quella che sgorga dall’agape, quando si diventa veramente anima mundi e si conosce la gratuità. Chi si imbatte in queste anime agapiche sente il battito dell’universo intero, non più limitate dai confini di una comunità o di uno specifico carisma. Le loro identità diventano radicalmente universali, le loro comunità hanno sempre la porta aperta.
Non tutte le vocazioni giungono alla loro fase agapica. Molte, troppe, si bloccano negli stadi precedenti. L’esito più comune è fermarsi alla fase “erotica”. Si resta per tutta la vita dentro il registro del sentimento, delle emozioni, del romanticismo. Cadono in questo narcisismo vocazionale quelle persone che non escono mai dal primo sogno, reinventandolo e ricreandolo quando scompare. Invece di leggere la fine della fase dell’innamoramento come un segno e un invito a evolvere in un amore diverso e più maturo, rimangono imbrigliati nei lacci dei propri sentimenti, in continua ricerca narcisistica di esperienze “spirituali” emotivamente eccitanti, capaci di stimolare i sensi e le passioni. La vita diventa un continuo volare di fiore in fiore, in cerca di nuovi pollini freschi e inebrianti. Amicizie, incontri, nuove comunità, vengono continuamente cercate, “consumate” e presto lasciate non appena il nutrimento si esaurisce. La vita diventa una unica monotona e ripetitiva esperienza di “consumo” emotivo, senza mai approdare alla fase “produttiva” e alla liberazione degli schiavi.
Le emozioni e i sentimenti sono l’aurora non il mezzodì di una vocazione. Il primo dialogo esclusivo e saziante deve diventare nel tempo dialogo con gli uomini, con i poveri, con gli schiavi, con tutte le voci del mondo, con quella degli uccelli, del mare, dei sassi. Una sola voce non basta oggi a dire la prima voce che ci ha chiamato ieri. Troppe persone perdono la fede nella verità della voce del primo incontro perché la cercano nei luoghi sbagliati, nell’infanzia della vocazione, nei sentimenti e nelle passioni del cuore. Quella è stata solo la culla, ma da grandi le culle devono servire per accogliere i figli, nostri e degli altri. La fede biblica non è mai consumo individuale: è sempre generazione di salvezze non ancora compiute, per gli altri, e qualche volta per noi. Noè salì sull’arca di salvezza che aveva costruito per vocazione. Mosè invece non raggiunse la terra promessa, la vide solo da lontano. Quando riceviamo una chiamata non sappiamo se ci salveremo anche noi o se salveremo solo altri. Ma ciò che davvero conta è camminare fino alla fine. Il monte Nebo può essere un buon posto per morire se prima abbiamo visto il nostro popolo raggiungere la salvezza.
Di solito queste vocazioni bloccate approdano a una grande crisi, quando la naturale assuefazione alle emozioni riduce fino ad annullare la capacità di provare piacere dal consumo emotivo. Arriva un’aridità assoluta del sentire, che viene confusa con aridità spirituale, e avendo identificato la vocazione con quel primo e unico nutrimento, ci si smarrisce. Qualche volta questa grande aridità può aprire una nuova fase e segnare l’inizio della vita spirituale. Ma questo evento felice è raro, perché chi si trova in queste aridità “erotiche”, invece di essere aiutato a cambiare radicalmente registro, viene molto spesso incoraggiato a continuare il proprio consumo interiore per ritrovare le emozioni perdute. E la malattia diventa incurabile. Non si capisce che per passare da una età della vita ad un’altra occorre solo imparare a morire.
Non meno comune è il blocco nella fase della philia, che è più difficile da individuare come malattia e fallimento vocazionale, perché il confine tra philia e agape è molto più sfumato di quello tra eros e philia. Le persone che raggiungono la fase della philia sperimentano frutti che assomigliano a quelli tipici dell’agape. Quando dall’eros individuale si è raggiunta la coralità della vita comunitaria, si vive una nuova fecondità, soprattutto se confrontata con la sterilità della fase erotica prolungata oltre il suo naturale arco temporale. Per questo è facile restare ingabbiati dalla comunità-philia, e non approdare mai alla vera fase agapica. Quando si raggiunge l’età della philia, l’identità individuale finisce quasi inevitabilmente per coincidere con l’identità comunitaria. Ci si identifica con essa fino al punto di non riuscire più a dire “io” ma soltanto “noi”. L’arrivo della fase dell’agape diventa allora liberazione dalla philia comunitaria, una grande benedizione, che arriva come ferita, che può essere molto profonda e dolorosa. Non si può passare dall’età dell’eros a quella dell’agape senza attraversare la philia, perché la comunità-agape sono resurrezione della comunità-philia, che quindi sono essenziali. Quando, infatti, l’identità personale si è completamente identificata per anni con quella collettiva, per passare alla nuova libertà dell’agape si vive una vera e propria morte. La comunità-philia deve scomparire per fare spazio alla comunità-agape. Questa scomparsa trascina con sé tutto: il carisma, la nostra personalità, non di rado anche la fede. Lo smarrimento è totale e radicale, ma non c’è altra strada per raggiungere la terra dell’agape. La saggezza di chi accompagna le persone durante le crisi della philia sta nel saper indicare la terra promessa oltre i flutti che stanno travolgendo tutto, sapere mostrare al di là del mare un albero molto più fecondo e rigoglioso del bonsai che sta morendo.
Solo chi ha già oltrepassato la fase della philia (e dell’eros) dovrebbe accompagnare chi sta ancora lottando nel guado. Troppi fiumi Giordano non vengono attraversati perché non sono stati mai avvistati dalle guide, o sono stati confusi con il Nilo dell’antica schiavitù.

Pubblicato su Avvenire del 06.06.2016