Blog / Sandokan | 09 Luglio 2016

Le lettere di Sandokan – La vita com’è

Guarda me, prendo tutta la vita com’è,
non la faccio finita, ma incrocio le dita e mi bevo un caffè

Per spiegare cosa sia l’ironia secondo me, a cosa serve nella vita, ho scelto un verso di una canzone di Max Gazzè.
Immaginatevi la scena. Due persone, due amici forse, seduti al tavolino di un bar.
Uno confida all’altro le proprie delusioni, i propri sogni falliti, i propri desideri che tutto cambi, desideri che – lui per primo lo sa – non si realizzeranno mai, a meno di miracoli. E’ un sentimentale speranzoso oppure, peggio ancora, un romantico disperato, e non sa vivere senza sognare che accada qualcosa di inatteso, di bello, nel proprio futuro prossimo. Ma è qualcosa di cui non vede traccia all’orizzonte, nessun segno nel suo presente, che sente come una prigione piuttosto che come una casa. E non sa cosa fare.
L’altro è un tipo pratico, un realista, uno che sa che la vita è complicata e che c’è da prenderla così come viene, che ci sono dei doveri, uno che sa che bisogna accettare ciò che non si può cambiare, che non tutto il male viene per nuocere, che ogni cosa ha un senso. E allora dispensa i suoi consigli, ponendosi come esempio di saggezza. Vuole soffocare il dolore (proprio e altrui) mortificando il desiderio, orientandolo sul servire i bisogni. Perché i desideri opprimono. Sta citando Karl Marx, – inconsapevolmente, perché è probabile che abbia letto soltanto la “Gazzetta dello Sport”, ma tanto non s’inventa niente – il quale diceva che “gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni”.
Non sono consigli da disprezzare, solo che vanno serviti con una faccia adeguata alle circostanze. Voglio dire che il bene che c’è nelle cose che si dicono deve trovare una proiezione nella vita che si fa. E non solo nella vita: nel volto, nella cura dei particolari, negli abiti che si indossano, nel modo con il quale si fissa il volto degli altri, come per trasmettere un fuoco interiore che ha bisogno vitale e nello stesso tempo discreto di farsi notare. Le parole pronunciate devono essere ascoltate con le orecchie, lette con gli occhi, odorate col naso, gustate con la lingua, toccate con le mani.
Quando tutto questo non c’è – voglio dire quando ci si accorge per esempio che chi ti parla di allegria non lo fa con il sorriso sulle labbra, chi ti parla di bene non è buono abbastanza – allora cosa bisogna fare? Tacere? Non si deve tacere il dolore: il dolore che hai; la difficoltà che hai a confidarlo a qualcuno; il sospetto che chi ti vuol cambiare voglia, in realtà, liberarsi dei tuoi lamenti con i suoi consigli; la certezza che chi ha raggiunto un suo equilibrio non ci pensa proprio a farselo sconvolgere dalla tua vita.
Ma come fai a dirglielo? A dirglielo senza ferirlo troppo, ma col desiderio (il desiderio … non si riesce proprio a metterlo in gabbia) di fargli comprendere che è ora che la smetta di nascondersi dietro alle sue parole? Non vuoi seppellire la relazione in un mare di frasi circostanza che ti porteranno un bel giorno – lo sai … è successo tante volte – a parlare d’altro. O a tacere del tutto.
Qui serve un po’ di ironia, qui, dove c’è del dolore che ha bisogno di mostrarsi per non ucciderci.
Non serve per farsi una risata sui propri guai, l’ironia. Serve per dire la verità percepita con un po’ di dolcezza, quello di cui uno è capace, ma con franchezza. Con un sorriso. L’ironia è come il cotone che si sfrega sulla pelle prima di infilarci l’ago della siringa. Chi impara ad usarla può dire di più di quanto si possa dire parlando “seriamente”.
E allora uno guarda il tipo pratico che ha davanti, che ti parla del bene che c’è nella tua vita (o del bene in sé) con lo sguardo spento di chi ha rinunciato da tempo a riflettere sul bene che c’è nella sua, con il sorriso finto di chi si è proposto di mostrarsi allegro senza esserlo e dice: “In fondo hai ragione tu, l’importante è trovare un motivo per non farla finita: incrociamo le dita e beviamo caffè”.
L’ironia non desidera che si chiami gioia il dolore, che si chiami allegria il pianto. Non vuole che ci si abitui a chiamare “realtà” le nostre delusioni o i nostri giochi di bambini adulti, tesi a trasferire importanza oggettiva a ciò che non è importante neanche per noi.
Il fatto che l’ironia abbia bisogno del dolore l’avevo capito da tempo, ma lo so da poco, perché da poco l’ho sperimentato. Quando sono felice, in una situazione felice, smetto di essere ironico e divento grato. Vorrei dire grazie a chiunque. Ma quando ho un dolore divento ironico, divertente. Non sono bravo a raccontare barzellette, far ridere mi costa sempre qualcosa.