Luigino Bruni – Il rischio di generare libertà
“Esistono valori umani che sono inseparabili dalla vulnerabilità. C’è un’eccellenza che è per natura sociale e dipendente dagli altri, la cui natura non sta nell’afferrare, trattenere, intrappolare e controllare, ma nel lasciare uno spazio importante all’apertura, alla ricettività, alla meraviglia” – Martha Nussbaum, La fragilità del bene
Le organizzazioni sono organismi vivi che evolvono e cambiano nel tempo. Molte trasformazioni sono buone e generative di vita. Altre lo sono meno, alcune conducono su infelici sentieri di declino. Un fenomeno particolarmente rilevante è il cosiddetto “cambiamento di missione” (mission shift), che si verifica quando le organizzazioni, i movimenti, le associazioni, durante il loro sviluppo diventano qualcosa di diverso e si allontanano dallo scopo che le aveva generate, perché alcune attività che all’inizio erano nate in funzione della missione, col tempo da mezzi finiscono con il diventare il fine. Si iniziano attività accessorie per cogliere opportunità o per qualche necessità, e poi progressivamente, e quasi sempre inintenzionalmente, queste attività assorbono sempre più quelle energie e risorse che un tempo erano impiegate per sviluppare la missione originaria. È questo uno dei tanti importanti fenomeni dove il confine tra il bene, il meno bene e il male è quasi impossibile da individuare, perché convivono l’uno dentro l’altro, crescono insieme, e quando il “male” diventa chiaro e visibile è quasi sempre troppo tardi per intervenire con efficacia.
L’organizzazione e le persone cambiano insieme. L’identità originaria resta viva e feconda finché è capace di co-evolvere con le persone; ma superato un invisibile e realissimo “punto critico”, il frutto del cambiamento finisce per avvelenare l’identità. In questo paradosso si nasconde molto della qualità e degli esiti dei processi evoluzioni delle organizzazioni.
Il cambiamento della missione e la tensione tra mezzi e fini sono fatti importanti in ogni forma di vita organizzata, ma sono decisivi in quelle realtà che nascono da ideali, da carismi, da “missioni” grandi e complesse. Qui il cambiamento di missione non è soltanto un processo delicato, ma può condurre anche alla loro morte.
In queste comunità e movimenti si muore anche trasformandosi in qualcosa di troppo diverso dal carisma originario – e qualche volta si è già morti anche se l’organizzazione sembra essere in grande salute. Una scuola nata da un carisma educativo può morire perché chiude, ma può morire carismaticamente perché è diventata, giorno dopo giorno, una istituzione che ha perso contatto con la missione originaria. Porterà ancora frutto, ma sono frutti di un altro sapore, anche se la comunità può non accorgersi del cambiamento del sapore dei frutti che genera e di cui si nutre perché il suo palato vi si è progressivamente adattato. E così si era nati per promuovere una causa o servire un ideale e ci ritrova a promuovere e servire altro e altri. L’ancella diventa la padrona.
Se una impresa di calzature era stata fondata ieri solo come un mezzo per fare profitti (evento molto raro), la sua natura non muta sostanzialmente se si sposta prima nel settore delle Borse, poi
in quello sportivo e infine in quello finanziario-speculativo. Come accade di frequente che una attività sorta come accessoria (per esempio: prodotti per le scarpe) progressivamente diventi
l’attività principale. In tutti questi casi la missione (fare profitti) resta coerente, cambiano soltanto i modi e mezzi per incarnarla.
Le cose sono radicalmente diverse se abbiamo a che fare non con un’impresa ma con un ordine religioso missionario, che cento anni fa ha fondato un ospedale per servire i poveri e annunciare il Vangelo. In questo caso non possiamo stare troppo tranquilli se col tempo l’ospedale è diventato sempre più grande ed efficiente, ha drenato sempre più risorse economiche, spirituali e umane, e il Vangelo e i poveri si sono allontanati sempre più dall’orizzonte. Fino un giorno a scomparire del tutto, quando l’ospedale sarà diventato così bello e costoso da poter curare solo ricchi clienti – peccato però che per crescere e diventare così grande abbia consumato quasi tutte le energie
della comunità. Qui la trasmutazione dei mezzi in fini può portare semplicemente alla morte della missione originaria, perché l’opera-figlio ha mangiato giorno dopo giorno il suo genitore.
Tale processo è particolarmente difficile da gestire, perché queste organizzazioni diverse vivono e crescono con una radicale incertezza riguardo il loro futuro, che si apre e rivela loro solo mentre il
domani diventa oggi. Quando si fa nascere una opera o si apre una comunità in un nuovo Paese, nessuno sa bene dove porterà quella nuova fondazione, perché nelle realtà ideali e carismatiche la principale indigenza è l’ignoranza del punto di arrivo del cammino. La sola conoscenza che è data è quella dell’origine, e anche questa è imperfetta e parziale. Sono come quegli antichi messaggeri, ai quali il messaggio da trasmettere veniva scritto sulla nuca. Il vero nome delle comunità nate da carismi si svela solo quando c’è qualcuno che lo legge e lo spiega. Il destinatario dei messaggi non è la comunità che lo porta e trasmette. La scoperta di ogni identità non è mai un’operazione narcisistica, ma è dono che riceviamo da chi sa guardarci diversamente. E un carisma non è mai dato per l’auto-consumo della comunità che lo incarna. Quando non sentiamo più il bisogno che qualcuno diverso da noi legga il messaggio che portiamo scritto sulla nuca, e cerchiamo specchi per interpretarci da soli, i carismi diventano faccende minime, socialmente irrilevanti se non dannose, e si spengono presto.
Quando, allora, da una comunità nasce una nuova opera, non possiamo sapere se il “figlio” sarà quello dell’avveramento della promessa o quello che, senza volerlo né saperlo, un giorno ci ucciderà. Se sarà Isacco o Edipo. Non possiamo conoscere il loro destino finché non si compie svolgendosi nelle ambivalenze, nelle contraddizioni, negli incontri nei crocicchi della storia. Altre volte, però, non sono le opere e le attività a snaturare le comunità ideali e a farle morire. In certi casi è la stessa comunità figlia del carisma che finisce per ucciderlo.
Falsi riformatori, riforme mancate o ritardate, una crisi talmente radicale e devastante per essere superata. Qui le generazioni successive a quella della fondazione non riescono a custodire e a far
crescere il carisma: il fondatore genera figli che finiscono per uccidere il carisma che hanno ricevuto in eredità. Chi fonda una comunità o organizzazione a movente ideale teme più di ogni altra cosa che la generazione successiva, i suoi “figli”, smarriscano e tradiscano l’identità carismatica. Questo timore è nei cromosomi di ogni buona fondazione, e la sua assenza rivela semplicemente che non abbiamo a che fare con un carisma, ma con una ordinaria organizzazione. Ma questo fondatore sa, o dovrebbe sapere, che l’errore veramente mortale è trasformare quella paura naturale in fobia o in panico, e così bloccare e impedire la continuazione dell’esperienza originaria.
L’esposizione allo snaturamento della missione e del carisma originari è la precondizione per il suo compimento, della sua fecondità, della sua buona crescita. Nella fondazione di una realtà ideale o carismatica arriva allora puntuale il momento in cui i fondatori passano attraverso questa specifica e decisiva prova. La possibilità della continuazione dell’esperienza carismatica oltre il fondatore, e quindi il passaggio del carisma da una generazione a un’altra, sta quasi tutta nella capacità di gestione di questa tensione vitale, inevitabile, decisiva. Deve vincere la tentazione di non mettere la generazione che verrà dopo di lui nella condizione di poter veramente nascere, vivere e crescere. In ogni figlio si può nascondere Edipo, in ogni figlio si nasconde Edipo. In ogni figlio si può nascondere Isacco, in ogni figlio si nasconde Isacco. L’ultima e più grande tentazione di ogni fondazione carismatica è impedire al “figlio” di nascere per paura che uccida il padre. Il carisma viene totalmente identificato dal fondatore con la sua persona, blindato per renderlo intrasmissibile, impedendogli così di rinascere molte volte nelle molte generazioni. E allora il carisma muore insieme al fondatore. Tante comunità sono morte semplicemente così, per mancanza di generosità, ciò che impedisce loro di generare veramente.
Più un carisma di fondazione è grande, più forte è la tentazione di non generare per paura di morire. Nessuna fondazione di una comunità può sottrarsi al rischio della sua degenerazione, perché se lo fa, degenera sicuramente: se evolve si può perdere lungo la strada, ma se impedisce
l’evoluzione si perde con certezza. Le comunità si generano e rigenerano quando chi le ha fondate o rifondate è capace di far nascere
altri uomini e donne che diventano liberi al punto di donare la loro vita per la stessa “missione” dei fondatori. In questa libertà si nasconde anche la possibilità di abusare, snaturare, ferire, persino
uccidere il dono. Senza questo dono di libertà radicalmente rischiosa e vulnerabile, i carismi non fioriscono nel tempo, appassiscono per mancanza di figli, o perché i figli generati e poi fatti crescere senza questa libertà diventano troppo “piccoli” per poter ripetere i miracoli della prima generazione. Solo la fiducia rischiosa e vulnerabile è capace della generatività necessaria ai carismi per poter continuare a fiorire.
Il mistero mirabile della trasmissione dei doni tra le generazioni abita nello spazio libero aperto dalla tensione vitale tra fiducia e tradimento. I nostri figli possono diventare migliori di noi se doniamo loro la libertà di poter diventare anche peggiori di noi, di tradire i nostri sogni e le nostre promesse. Forse non c’è dono più grande.
Pubblicato su Avvenire il 24/04/2016