Lettera di Un Cireneo – L’ora di farci in quattro
La riflessione di Francesco D’Agostino ha il grande merito di tentare di riportare al centro della discussione politica il tema della famiglia individuando, a mio avviso correttamente, nella crisi della famiglia la radice di ogni crisi sociale.
Tra i due attuali schieramenti – più “diritti umani” da una parte e lotta democratica a quanto già approvato dall’altra – il giurista individua la necessità di costruire nuove strategie politiche che pongano al centro tre concetti chiavi:
i) Adeguate politiche sociali (strategia socio-politica).
ii) Valorizzazione della genitorialità padre-madre (strategia biogiuridica).
iii) Ribadire la centralità della famiglia come struttura antropologica primaria (strategia dell’etica pubblica).
La capacità di implementare tali strategie dovrebbe pervenire da un rinnovato vigore nella preghiera che aiuti le famiglie e predisponga i cristiani ad agire bene nella società odierna.
Trovo condivisibili le tre direttrici di azione.
La proposta, a mio avviso, presenta però due elementi di criticità.
Il primo è legato all’individuazione dei soggetti che dovrebbero implementarla. D’Agostino, e lo dice chiaramente, si rivolge a tutti (“strategie non confessionali”) ma non tiene nel dovuto conto che, ciò che dovrebbe essere evidente, non lo è per nulla. E non lo è perfino ad una parte degli stessi cattolici. Infatti, non sono pochi i credenti che, per esempio, sostengono con diverse motivazioni il diritto di due omosessuali a crescere bambini. Per lo stesso motivo non è così certo che ci si trovi il consenso nell’individuare nella famiglia (uomo-donna) la struttura portante della società. Riportare ad evidenza ciò che già di suo lo è ma non viene più riconosciuto, mi sembra impresa improba in mancanza, soprattutto, di una chiara individuazione degli strumenti tramite i quali agire.
Per lo stesso motivo anche il quarto elemento della strategia, chiaramente confessionale, quello della preghiera (che costituisce per un cristiano la condicio sine qua non solo per il successo di ogni azione ma per poter vivere uniti a Cristo) non è detto che venga recepito se mancasse la consapevolezza della necessità di intervenire nelle direzioni indicate dal giurista.
Il secondo elemento di criticità deriva, in parte, dal primo. Per quanto detto è probabile che i tempi necessari per formare questa consapevolezza – che si dovrebbe poi tradurre in nuovo movimento? In un nuovo partito politico? O dovrebbe svilupparsi nell’esistente panorama di partiti, movimenti, associazioni? – siano lunghi. Estremamente lunghi.
Nel frattempo, non mi sembra sia da escludere in principio, come ritiene invece D’Agostino, l’ipotesi di perseguire le tre strategie, anche, nella forma di una resistenza democratica a quanto è stato già approvato.
Il lungo periodo non esclude il breve periodo. Questo per almeno due motivi.
Il primo è che, come diceva un noto economista del XX secolo, nel lungo periodo saremo tutti i morti e, quindi, è nell’oggi che si deve operare. L’uomo abita il presente e agisce nel presente.
Il secondo motivo è che se: i) queste nuove unioni civili; ii) la stepchild adoption che, esclusa dalla legge, trova applicazione per il tramite di sentenze giurisprudenziali; iii) l’affitto dell’utero di una donna per ottenere bambini, rappresentano delle ferite alla società presente e a quella futura (lo stesso D’Agostino mostra nei due articoli questa consapevolezza) è necessario intervenire d’urgenza per sanarle.
Se l’idea portante per accettare quanto già approvato dal Parlamento si fonda sulla preoccupazione di non incrementare il tasso di conflitto sociale, allora direi che si tratta di una pace di breve termine poiché, se e quando le strategie di D’Agostino dovessero trovare compimento, ma probabilmente già nel momento in cui i gruppi interessati pervengano alla consapevolezza che “qualcosa” si muova su questo fronte, riesploderebbe immediatamente il conflitto.
Se invece quanto operato dal Parlamento e dalla Magistratura non costituiscono ferite ma sono la doverosa presa d’atto di un cambiamento culturale, una estensione di diritti che rendono tutti (o quasi) più felici e se, tutto ciò, non costituisce un vulnus per la famiglia uomo-donna, per la genitorialità, per la società presente e, soprattutto, futura, allora non si capisce la necessità di adoperarsi attraverso l’impegno civile e politico e per il tramite della preghiera, per riportare la famiglia al centro della società.
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Ora che la legge sulle unioni civili è entrata in vigore, è giunto il momento di porci seriamente la domanda sul “dopo”. In realtà questo “dopo” è già iniziato, anche se i dibattiti politici si sono subito concentrati tutti sulle elezioni amministrative e sul referendum, previsto per l’autunno, in merito alla riforma costituzionale. Comunque, non è difficile registrare che si sono di fatto già costituiti due schieramenti. Il primo è quello di chi vede nella legge Cirinnà-Lumia solo il primo passo verso un più largo e più compiuto riconoscimento di “diritti umani” (in specie di diritti degli omosessuali) e si adopera per dilatare in tempi brevi il dettato della legge (in particolare, con un riconoscimento formale della stepchild adoption).
Il secondo è quello di chi, ritenendo eversivo socialmente e giuridicamente incostituzionale il confuso riconoscimento da parte della nuova normativa di coniugalità para-matrimoniali, si sta invece adoperando per sottoporre quella stessa legge (o almeno una sua parte) a un referendum abrogativo e per favorire l’obiezione di coscienza da parte dei sindaci nei suoi confronti. È difficile prevedere quale dei due schieramenti potrà prevalere: l’esperienza storica, però (ricordiamo le vicende della legge 194, che legalizzò l’aborto), ci fa ipotizzare che quando, dopo l’approvazione di una legge presentata (a torto o a ragione) come “di mediazione”, continuano a scontrarsi due posizioni, a loro modo “estreme”, l’esito più probabile è che la legge vigente ne risulti rafforzata e che nessuna delle parti confliggenti riesca a prevalere.
Anche quanto il presidente del Consiglio Renzi ha dichiarato domenica 29 maggio a questo giornale («riaprire la discussione mi sembrerebbe paradossale e soprattutto inutile») rafforza tale ipotesi. Il che significa che il “dopo Cirinnà” potrebbe rivelarsi – in modo assai poco incoraggiante – una palude che non si riuscirà né a prosciugare, né a bonificare. Possono i cattolici accontentarsi di una simile prospettiva, che porta di fatto a rimuovere la questione? Ovviamente no: la destrutturazione dei vincoli familiari è probabilmente il massimo problema antropologico del nostro tempo e fronteggiarlo è assolutamente urgente.
Questo però non significa che sia doveroso per i cattolici attivarsi verso la legge ora vigente con iniziative nobili, sì, nei loro princìpi, ma sviluppate secondo una logica di puro contrasto e, con ogni probabilità, sterili nei loro frutti. Bisogna soprattutto abbandonare l’illusione che possano essere efficaci strategie circoscritte, di breve periodo; bisogna a tutti i costi impegnarsi per costruire prospettive “politiche” (nel senso più alto della parola) che non siano “provinciali” (cioè frutto dell’illusione di risolvere in ambiti ristretti un problema globale) e, dunque, che siano molto più ariose di quelle adottate fino a oggi. Individuarle, ovviamente, non è facile: qui ci si limita a proporne almeno tre, non particolarmente originali, ma a lungo marginalizzate.
La prima strategia è socio-politica. Consiste nel fronteggiare la crisi della coniugalità che sta pervadendo l’Occidente secolarizzato con adeguate politiche sociali, che tengano presente che non c’è futuro per il Welfare se non attraverso l’indispensabile supporto economico e valoriale che solo famiglie stabili possono garantire. Le proposte avanzate negli ultimi giorni dai parlamentari del gruppo Demos, da alcuni senatori e deputati del Pd e, tempo fa, da Ap tengono conto di questa esigenza, ma bisogna finalmente cominciare a scriverle nella realtà e non solo sulla carta. La seconda strategia è biogiuridica e consiste nel ridare un doveroso primato alla genitorialità biologica, l’unica capace di sconfiggere il “relativismo procreativo”, che indebolisce i vincoli familiari e costituisce un potente fattore di crisi demografica. E questo significa, nel campo dell’adozione, tutelare il diritto di ogni bambino a una mamma e un papà.
La terza, infine, chiama a operare sul piano dell’etica pubblica. Bisogna attivare nuove forme di ‘pedagogia sociale’ (un po’ come quelle che si attivano a favore della parità dei sessi e contro l’omofobia), che rendano chiaro a tutti ciò che gli studiosi più avvertiti sanno da tempo e cioè che la famiglia è una struttura antropologica primaria, che costituisce il paradigma di tutti quei ‘beni relazionali’ sui quali riescono a loro modo a fondarsi anche i ‘beni individuali’. La crisi della famiglia è nello stesso tempo effetto e causa di qualsiasi crisi sociale: è giunto il momento che tutti lo riconoscano. Accanto a queste tre strategie, chiaramente non confessionali, ne esiste però anche una quarta, che è invece specificamente cristiana.
È per noi la più importante e nello stesso tempo la più fraintesa: quella della preghiera. Mai come oggi la famiglia ha bisogno di diventare oggetto delle nostre preghiere. Pregare per la famiglia non significa però limitarsi pigramente a chiedere a Dio di intervenire perché sia Lui a risolvere le piaghe del nostro tempo. Significa piuttosto implorarlo perché ci aiuti a predisporci, tutti, ad agire consapevolmente nel mondo contemporaneo. Il cristiano infatti non può limitarsi a vedere in se stesso uno spettatore dei cambiamenti che caratterizzano il tempo in cui gli è capitato di vivere; egli deve sapere che ha il dovere di governare tali cambiamenti e che per realizzare questo compito ha bisogno di un supplemento di sapienza, che non deriva né dalla scienza, né dalle ideologie, ma dal cuore. Cosa di più importante si può chiedere a Dio, se non di illuminare i suoi fedeli e tutti gli uomini di buona volontà in questo compito?
Tratto da Avvenire del 15 giugno 2016