Le Lettere di Sandokan – Borghesia
L’altro giorno ho letto la risposta che una attrice romana diede a un suo ammiratore che le urlava “sposami”, facendosi largo tra la gente. Gli disse, in romanesco: “poco te costo …”.
Chissà perché, d’istinto, una donna che non ha certo bisogno di qualcuno che paghi i suoi conti se ne esca con un frase del genere. Che fa sorridere, sul momento, ma che fa anche pensare: l’amore borghese dei “conti” da pagare non si scorda mai.
Naturalmente non si tratta di disprezzare il denaro, di tenere in poco conto le necessità della vita. Si tratta solo di capire cosa rimane dell’amore quando la vita mette fronte a scelte concrete. Il borghese, in questo, non sbaglia mai. Cioè sbaglia, ma fa sempre sbagli dello stesso tipo. Perché ha bisogno di un “certo mondo” in cui vivere, non si adatta a tutti i mondi possibili. Non si “adatta” all’amore che gli viene incontro, non si lascia sorprendere da nulla che lo allontani dalla sua idea di “correttezza”, a costo di adattare l’amore alle sue necessità.
Posto di fronte a un bivio tra lo scegliere una persona e lo scegliere un mondo, il borghese sceglie sempre il “mondo”. Voglio dire si scelgono sempre persone, ma come se fossero luoghi “conosciuti”, “rassicuranti”, come se fossero i “rappresentanti” di ciò di cui si ha bisogno.
E’ del mondo borghese che lui si innamora, forse. O forse non si innamora mai, sul serio, di nessuno. Perché di quel mondo ha bisogno, gli serve come l’aria per respirare. E nessuno s’innamora dell’aria, nessuno s’innamora di un “bisogno”.
Dispera, in fondo, degli uomini.
Per usare le parole di Fitzgerald, il borghese non è sentimentale, è romantico: “i sentimentali credono che le cose durino, i romantici hanno una fiducia disperata nel fatto che non durino”.
Egli crede ciecamente nei principi che governano il suo mondo – “… mio padre era convinto che un gentiluomo non paga un affitto e non abita in casa d’altri, e fece di tutto perché potessimo trasferirci in una casa di proprietà”, così Sandor Marai parla di suo padre – e conosce bene i “rapporti” che esistono al suo interno: sa chi invitare e non invitare nella sua casa, sa cosa dire e cosa non dire nelle conversazioni, sa a quali scuole iscrivere i figli e quali ambienti far loro frequentare, sa essere amabile e cortese per non urtare, sa cosa mostrare di sé per farsi accettare, sa essere filantropo, perché ha tante cose da farsi perdonare.
E’ molto impegnato a mostrare ciò che ha, ma non per vanità (non sempre almeno). Di solito lo fa per ricevere consenso, approvazione, incoraggiamento a continuare per la strada che ha intrapreso. E’ necessario ricevere un largo e frequente consenso per accettare di vivere rinunciando a cercare – fino in fondo, fino al perdersi in mondi mai esplorati – amori che durino. E’ così necessario che a volte si è disposti a considerare “verità” l’ipocrisia, a credere che davvero interessi sapere “come stai” a chi chiede “come stai?”, a credere a tutti i “ti amo” che ascolta o che dice, a immaginare sia possibile chiamare i pettegolezzi “conversazioni” o i convenevoli “complimenti”.
Rinunciano quindi all’amore, i borghesi?
Non proprio, non completamente: sono romantici, di solito. Coltivano mondi paralleli. Mondi in cui sia possibile amare senza scegliere, in cui sia possibile abbandonarsi all’impossibile proprio perché impossibile. Nel “possibile” non si abbandonano mai. Perché l’unica cosa possibile, per loro, è rispettare una parte, un ruolo: è stare al proprio posto.
Ma se per caso l’impossibile un giorno diventasse, per i casi della vita, “possibile”, chissà cosa farebbero. Quello che ha fatto Daisy con Gatsby, forse. Che dolore quelle pagine del romanzo di Fitzgerald, quell’incontro tra un uomo sentimentale e una donna romantica, tra la speranza e la disperazione, che conduce alla morte della speranza, alla morte di Gatsby.
“E mentre la luna si levava più alta le inutili case cominciarono a confondersi gradualmente finché non mi resi conto dell’antica isola che spuntò davanti agli occhi dei marinai olandesi – un seno verde e fresco del nuovo mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano ceduto il posto alla casa di Gatsby, avevano fatto da ruffiani bisbiglianti all’ultimo e immane dei sogni umani; per un attimo transitorio e incantato l’uomo doveva aver trattenuto il respiro alla presenza di questo continente, costretto a un’estatica contemplazione che né capiva né desiderava, faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa commensurato alla sua capacità di meraviglia. E mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l’aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa – domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”.