Luigino Bruni – Uscire per farci ricchi
“Signore, non avevi seminato buon seme nel tuo campo? Come mai, dunque, c’è della zizzania?” Egli disse loro: “Un nemico ha fatto questo”. Gli dissero: “Vuoi che andiamo a coglierla?”. Ma egli rispose: “No, affinché, cogliendo le zizzanie, non sradichiate insieme con esse il grano. Lasciate che tutti e due crescano insieme fino alla mietitura”
(Matteo 13,24-30)
“Un mio amico tornando da una vacanza all’estero ha esclamato sorpreso: ‘Lì ci sono molti più ciechi che da noi’. Gli ho risposto: ‘Non ci sono più ciechi: escono solo più di casa, perché ci sono meno barriere architettoniche, più infrastrutture dedicate, una cultura che incoraggia i ciechi ad avere una vita pubblica”. Questo dialogo con Giulia, una mia collega siciliana non vedente, mi ha fatto pensare molto. Consentire alle diversità, ai problemi e alle povertà, di emergere, è un grande e potente indicatore di civiltà di un popolo, è una alta forma di ricchezza delle nazioni. La piazza più bella del mondo è quella dove possiamo incontrarci tutti, con tutte le nostre abilità e inabilità diverse. La classe migliore è quella abitata da i nostri bambini e bambine brillanti insieme a quelli che brillano diversamente. Sordi, ciechi, zoppi, depressi e felici, invitati tutti allo stesso banchetto della convivialità delle differenze. Ci sono alcune povertà che se riescono a diventare pubbliche e quindi visibili nelle strade di tutti rendono un popolo più ricco. In questo senso è ancora vero che ‘la povertà è la ricchezza dei popoli’. E che la prima povertà di una persona, di un popolo o di una comunità è nascondere le proprie povertà. Le civiltà hanno sempre deciso quali ferite vedere in pubblico e quali nascondere, occultare, negare. Per millenni abbiamo tenuto chiuse dentro casa molte povertà dei nostri figli e nostre, imprigionati con esse. Dovevano restare invisibili, e molte continuano ad esserlo. Qualche volta le scoprivamo durante una crisi, un’emergenza, un cattivo odore che proveniva dalla porta di fronte. Le crisi sono sempre occasioni di emersione di povertà invisibili – lo stiamo vedendo. Ci sono nella nostra anima delle povertà che diventerebbero ricchezza nostra e di tutti se solo fossimo capaci di
raccontarle a qualcuno capace di accoglierle, se “uscissero di casa”.
Alcune povertà invisibili di ieri stanno diventando sempre più visibili, iniziano a emergere grazie a un processo di liberazione progressivo che fa più belle e civili le nostre città. Stanno però nascendo nuove povertà invisibili, tenute intenzionalmente nascoste, qualche volta anche a scopo di lucro per chi le occulta. I poveri incatenati nelle sale gioco dell’azzardo non sono più visti. I vetri sempre più neri ne impediscono la visione pubblica, e i vicini di “gioco” vedono soltanto la macchina incantatrice, avvolti in una solitudine auto-divoratrice e produttrice di guadagni privati e pubblici scellerati. Così come non vediamo i bambini che dormono in apposite stanze, predisposte per favorire il gioco diurno e notturno delle madri. Il primo passo di liberazione di questi schiavi postmoderni
sarebbe iniziare a vederli, schiarendo i vetri delle loro prigioni, entrando qualche volta dentro, illuminandole con i nostri occhi. In un Paese che non ha la forza di chiudere queste carceri, ma ne apre sempre di nuove, a noi cittadini resta solo la possibilità e la resistenza morale di
portarvi dentro la città.
Ci sono, poi, povertà personali che nei secoli avevamo imparato a trasformare in ricchezze collettive, e che stanno progressivamente tornando nel regno dell’indigenza invisibile e sola. Pensiamo alla preghiera. La preghiera nasce prima di tutto da una indigenza, dall’esperienza antropologica di essere poveri, incompleti, dall’intuizione profonda che siamo più grandi dei limiti del nostro corpo e dell’universo. Le fedi e le religioni erano riuscite a trasformare queste indigenze individuali in liturgie comunitarie, in chiese, templi, pellegrinaggi, processioni, che sono stati (quasi) sempre alte forme di beni comuni e di Bene comune. Si usciva di casa, ci si metteva in cammino con altri compagni, ci si riconosceva insieme indigenti e mendicanti. E si iniziava a
pregare, trasformando quelle povertà in ricchezza. Si può (e si deve) pregare anche nel segreto della propria stanza, ma quando riusciamo a pregare insieme, a riconoscerci l’un l’altro affamati di senso e di eternità, l’indigenza comune diventa ricchezza pubblica, per tutta la città. Anche chi non crede (o non crede più) che al di là delle preghiere ci sia un Tu a raccoglierle, sa che la presenza di comunità che sanno pregare insieme è una capacità (capability) della città, che aumenta la sua libertà. Oggi questa indigenza antropologica rimane, ma non sappiamo più trovare o riconoscere i luoghi per celebrarla assieme e i compagni per condividerla. Non sappiamo più partire per i pellegrinaggi, perché ci mancano le mete e quindi ci mancano le strade, e quelle che ci sono non le vediamo più. E così questa povertà non esce di casa, e non diventa ricchezza.
Le povertà i problemi nascosti e segregati sono allora sempre mali individuali e comunitari, ma non sempre ne siamo consapevoli. Quando, ad esempio, in una comunità le povertà e i problemi non si vedono più, dobbiamo sempre chiederci se siamo più ricchi o se semplicemente le povertà non riescono più ad uscire di casa, a causa delle nostre barriere
architettoniche civili e morali. Molte riduzioni di povertà sono allora soltanto espressione di una crisi e povertà comunitaria. Questo paradosso è generale, ma è decisivo quando abbiamo a che fare con comunità spirituali o ideali. Qui, nei momenti migliori e più vitali, la gente si sente libera di donare beni e ricchezza insieme ai propri ‘mali’ e povertà. Quando, invece, si affievoliscono la comunità e il loro spirito, diminuiscono i beni donati insieme alle richieste di aiuto, anche se spesso non ce ne accorgiamo o pensiamo che la riduzione delle povertà sia il
frutto dell’aumento dei beni e della ricchezza. Una comunità rinasce quando i suoi membri ricominciano a donarsi l’un l’altro i beni assieme alle loro molte povertà e dolori.
Le voci dei giorni/4 – Fuori dalle “case”, dagli angoli riposti, si vede e si lievita
di Luigino Bruni, su Avvenire del 20.03.2016