Le Lettere di Sandokan – Il viaggio è meglio della meta
Prendo spunto da alcune parole che ho letto, e che in certi contesti sono anche condivisibili, per fare un ragionamento un po’ più generale.
Le parole che ho letto sono queste: «Obbedire quando si è d’accordo è un giochetto da bambini. Il difficile (e la virtù) sta nell’obbedire quando si è in disaccordo. Lo insegniamo ai nostri figli, quando imponiamo loro di andare a letto invece di guardare la TV, di fare i compiti prima di giocare, di mangiare con la forchetta e non con le mani, di dire grazie e scusa quando serve. Poi ce lo dimentichiamo e da grandi non vogliamo obbedire più. Rigettiamo ogni autorità, diventiamo anarchici dentro. Così fioriscono elogi alla coscienza, per giustificare il proprio indipendentismo morale».
Devo dire che, parlando in generale, non sono molto d’accordo con quest’idea di obbedienza.
Essenzialmente non credo che “obbedire” quando non si è d’accordo sia una virtù. Alle volte lo si fa, lo so bene, ma io non mi sento “libero” quando agisco così, mi sento “costretto”. Poi non è neanche vero che sia sempre facile obbedire quando si è d’accordo. Se la coscienza suggerisce come giusta una via scomoda, obbedire a una “scomodità” non è affatto facile.
Credo che occorra obbedire a se stessi, alla propria coscienza, sempre. Lo vado ripetendo spesso e tutti mi danno ragione, con una precisazione: è vero, però la coscienza deve essere “ben formata”.
Il problema però è il seguente: chi lo stabilisce che una coscienza sia “ben formata”?
Ora, se stiamo parlando della coscienza di un adolescente o di un serial killer, forse non ci riuscirà difficile dargli dell’incosciente, ma se stiamo parlando di Scalfari? O di Nietzsche? O di Kant? O di Pannella? E’ ben formata la loro coscienza, oppure no? E la mia? E’ ben formata la mia coscienza?
Il problema è che servirebbe una qualche autorità in grado di stabilire la “qualità” delle coscienze altrui (e della propria). Ma chi è questa autorità? A chi dobbiamo riconoscere questo onore?
Molti lamentano un generale atteggiamento di rigetto di ogni autorità. Ma io non credo che ciò sia vero, nel senso che ognuno di noi è sempre disposto a seguire una autorità che ritiene in qualche modo utile. Lo diceva la Aarendt cercando di spiegare le cause della Rivoluzione Francese: lei diceva che la Francia si ribellò a Luigi XVI e non a Luigi XIV (più despota del suo successore) perché l’autorità di quest’ultimo era ritenuta utile, mentre quella di Luigi XVI inutile.
Il fatto su cui riflettere è che ciò chi è autorevole per me, non lo è per altri, o almeno non lo è più. Ed è quindi inutile giudicare la coscienza altrui fondando il proprio giudizio su una autorità che l’altrui persona non riconosce. E’ più che inutile, direi che è dannoso sbattergli in faccia il proprio giudizio. Dire al nostro prossimo che la sua coscienza non è ben formata potrebbe essere (forse) un modo per aiutarlo se il giudizio si fondasse su una autorità riconosciuta da entrambi. Ma se non fosse così? Non è forse un modo di offenderlo?
Penso sia opportuno che ognuno obbedisca alla coscienza che ha, perché la coscienza si va formando giorno per giorno. E’ indispensabile che il bene in sé diventi bene per me, ma perché ciò accada serve una vita, che è fatta spesso di sbagli, di peccati. Siamo peccatori ed è quindi normale per noi fare peccati: è normale e anche necessario, a volte. Non è uno status sociale il nostro essere peccatori, un modo per far sentire tutti sulla stessa barca. Ognuno è peccatore a modo suo.
Su questa linea, a mio parere, vanno interpretate le parole del Papa che suggerisce, per esempio a Scalfari, di seguire la sua coscienza, la sua idea di bene. Non vuol certo relativizzare il bene, il Papa. Vuol solo dire che un uomo non può andare contro la sua coscienza e quindi lo sta “invitando a sbagliare”, cosa che facciamo tutti davanti a una persona che non ci chiede consiglio ma ci comunica semplicemente le sue decisioni. Lo stesso discorso vale per la frase “chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio”. Forse un omosessuale che cerca Dio è solo un omosessuale che non ha rapporti sessuali? Noi non conosciamo i travagli di nessuno, ma sappiamo che per imparare ad amare ci vuole tempo. La frase di Cervantes, che fa da titolo a questo articolo, dice qualcosa su cui è opportuno riflettere, secondo me, per dare importanza ai nostri giorni e ai nostri sbagli.
Si può poi “invitare a sbagliare” con la morte nel cuore (come a volte si fa con le persone che amiamo), col desiderio di curare le ferite che gli sbagli sempre provocano (l’idea della Chiesa come ospedale da campo è qui, secondo me) oppure col desiderio di vedere l’errante sfracellato sul muro dei suoi errori (come sempre facciamo con chi non amiamo). È questo che fa la differenza.
È chiaro poi che gli errori si pagano. Li paga chi li fa e chi li subisce. È il prezzo della libertà. La croce del mondo. Ma senza libertà vera, amare sul serio non si può.
Anche su chi crede di avere una coscienza ben formata ci sarebbe qualcosa da dire. La parabola del Padre Misericordioso è una perenne fonte di ispirazione su questo tema. La storia è nota, c’è un padre con due figli: uno sceglie di vivere “obbedendo”, nella casa di suo padre, un altro sceglie di vivere disobbedendo, lontano da lui.
Il secondo figlio, il disobbediente, ha obbedito alla sua coscienza, sbagliando. Ma il primo figlio a chi ha obbedito, restando? Se avesse obbedito alla sua coscienza, non sarebbe forse stato contento, come suo padre, del ritorno di suo fratello? E invece, restando, ha fatto ciò che a suo parere suo padre e il suo mondo si aspettavano che facesse. Non è stata la sua coscienza a decidere, perché non sempre chi “resta” ha ragione e chi “va via” ha torto.
Ciò che lui pensa davvero, quando suo fratello torna a casa, è quanto gli sia costato obbedire ed è roso dentro dal fatto che le sue rinunce non lo distinguano da chi ha vissuto di bagordi e poi fa ritorno a casa per disperazione. Ma chi gli aveva chiesto di rinunciare alla sua idea di felicità? Suo padre forse?
Un ragionamento analogo mi viene in mente riflettendo sulla possibilità di dare in certi casi la comunione ai divorziati che hanno contratto una seconda unione. Non voglio qui discutere se sia possibile farlo, sulle ragioni teologiche di ammettere o non ammettere alla comunione. Ciò che mi colpisce, tra quelli che predicano la necessità di non dare la comunione in nessun caso, è la seguente motivazione: chi ha deciso di rimanere in un matrimonio “rotto” si sentirebbe preso in giro da queste nuove aperture che la Chiesa sembrerebbe portare avanti verso chi ha fatto una scelta diversa dalla loro.
Ora io mi chiedo: ma chi ha deciso di rimanere nel suo matrimonio lo ha fatto in obbedienza a chi? A una regola o alla propria coscienza? Se è stato fatto in obbedienza alla propria coscienza perché dovrebbe turbarsi del fatto che qualcun altro, che ha fatto scelte diverse dalle sue, possa in qualche modo comunicarsi? Se è stato fatto in obbedienza a una regola allora capisco il suo turbamento. Ma non mi pare si possa dire che la sua coscienza sia ben formata.