Le Lettere di Sandokan – Romanzi
Ho cominciato a leggere sul serio negli anni universitari. A leggere per scelta, intendo, e non per dovere.
Prima di allora in tanti – ingegnanti, genitori – continuavano a ripetermi che “bisogna leggere”, per imparare a scrivere bene. Il loro problema era che avevo voti altissimi in ogni materia, al liceo, e quell’otto in italiano scritto, evidentemente, li disturbava.
Disturbava un pochino anche me, vi confesso, e cercavo di accontentarli, di migliorare, trascinandomi ovunque romanzi presi a caso nella libreria del salotto, romanzi che ero sempre pronto ad abbandonare su una sedia o su una panchina, per abbracciare una distrazione qualsiasi che mi liberasse da quel “bisogno” che non era mio. Perché io, allora, non avevo nulla da scrivere: questa è la verità. Ma come potevo dirlo ai miei professori e ai miei genitori? Erano così contenti di me.
Col tempo qualcosa cambiò.
Ricordo che il primo libro che lessi davvero fu “L’idiota” di Dostoevskij. Non era più tempo di compiti in classe di italiano, mi divertivo oramai a studiare cose senza importanza – tipo i “gravi” che scendono dai piani inclinati – e mi serviva qualcuno che mi raccontasse di un altro mondo, che aggiungesse “dimensioni” alla mia vita, che aggiungesse senza levare ciò che era mio.
Avevo da poco cambiato città, ero un diciottenne catapultato, un po’ per scelta e un po’ per caso, dentro un mondo nuovo entro il quale mi accingevo a entrare da estraneo e che ho sempre vissuto da estraneo, nell’intimo. Perché esteriormente sembravo di casa. Fu questo cambiamento che mi fece capire per la prima volta che anche nel luogo che avevo lasciato – in cui ero nato e cresciuto, felice – avevo vissuto da estraneo allo stesso modo, ma non me ne ero mai accorto. Forse perché quello in cui ero nato mi sembrava l’unico mondo possibile.
Ecco, leggendo le prime pagine de “L’idiota”, leggendo di quel viaggio in treno del principe Myškin – un uomo tanto spiritualmente buono e nobile quanto ingenuo e inesperto della vita – mi sono appassionato alla sua storia e l’ho seguito nella sua straordinaria capacità di cercare il bello in ogni cosa, fino a non sapere chi scegliere, fino a non saper cosa prendere e cosa lasciare, fino a farsi ingannare da tutti, fino a impazzire.
Quel libro mi trasformò in un lettore appassionato. E scoprii, dopo qualche anno, che avevo piacere a raccontare.
Riuscire in tutto, da ragazzi, può essere pericoloso. Perché gli altri finiscono per prendere ciò che a loro serve di te. E tu li accontenti, per debolezza, per vanità, senza sforzarti di scoprire e coltivare le tue passioni, quali che siano, senza aver il coraggio di rischiare di fallire.
Adesso al principe Myškin ogni tanto ci penso, quando capita. Non solo a lui per la verità. Penso pure a Elizabeth Bennet, a Florence Dombey, a Levin e a tanti altri, mischiandoli con le vite delle persone che incontro per caso o con cui vivo abitualmente.
L’altro giorno, per esempio, passeggiavo per un quartiere popolare con un mazzo di fiori da regalare a una mia amica. Sentivo un po’ di occhi addosso, o forse semplicemente immaginavo che mi guardassero tutti, perché così avrei fatto anch’io al posto loro: fisso sempre le persone che camminano portando dei fiori, cercando di non farmi scoprire, sperando di avere l’occasione di osservare lo sguardo di chi li riceverà.
Improvvisamente ho notato due anziani alla fermata dell’autobus. Erano una coppia, forse marito e moglie. Lei non era ben vestita e neanche curata in viso e nei capelli. Non era né grassa, né magra: era senza forme. Lui, volgare come lei nell’aspetto, le stava raccontando qualcosa, qualcosa sulla vita del quartiere, qualcosa che non era andata bene in quella mattinata. Probabilmente stavano separandosi perché lei gli diede appuntamento a più tardi: si stava avvicinando il bus.
Li ho immaginati, così com’erano, dentro un romanzo di Jane Austen, a parlare del loro amore. Come se fossero Elizabeth e Darcy. Sul momento ho riso, ma poi mi sono detto: chissà. Chissà se questi due non sanno dell’amore qualcosa a cui, dalle loro tenute nell’Hertfordshire, Elizabeth e Darcy non hanno mai fatto caso, così presi l’uno dell’altra, così impegnati ad attendersi, così ben incastonati nelle loro tenute, nelle loro stanze, nei loro giardini ben curati.
Me li sono poi immaginati, questi due, a prendere assieme l’autobus, in direzione Hertfordshire. Andavano a nascondersi, ogni sabato pomeriggio, dietro le siepi di Longbourn, per spiare, per imparare come si fissano negli occhi due innamorati, o come si cercano girando lo sguardo altrove, o come si toccano, o come evitano di toccarsi, o come si baciano, o come fanno di tutto per non baciarsi.
Poi son passato oltre, accanto a un’edicola. Su un giornale esposto c’era Belen in posa fotografica, che dichiarava che a lei mancava l’amore. Ho sorriso ancora. Ma poi ho pensato: perché la signora che aspettava l’autobus non era bella come Belen?
Non so dirvi perché. Neanche lei lo sa. Ma son sicuro che le sarebbe piaciuto