Marcello Semeraro – La chiave di una fecondità sociale
Nella catechesi svolta durante l’udienza del 30 settembre 2015, richiamando l’i ncontro da poco avvenuto a Filadelfia, Francesco parlò della famiglia come «soggetto protagonista di un’ecologia integrale», dandone ragione nel fatto che essa è «il soggetto sociale primario, che contiene al proprio interno i due principi-base della civiltà umana sulla terra: il principio di comunione e il principio di fecondità». Il richiamo a questi due principi lo ritroviamo al n. 277 di Amoris laetitia — il binomio c’è già al n. 201 — e potrebbe anche costituire un filo rosso per la lettura dell’esortazione apostolica.
«Principio », però, qui lo è non soltanto nell’ordine logico, ossia come chiave di comprensione del documento; lo è pure nell’ordine, diremmo, ontologico in quanto comunione e fecondità costituiscono l’“e s s e re ” della famiglia, anche sotto il profilo giuridico e istituzionale. Il tema della fecondità, soprattutto, la riguarda in modo particolare per la responsabilità propria dell’istituto familiare non soltanto in ordine alla “generazione”, ma ancora riguardo alle “generazioni”. È, dunque, in modo davvero appropriato e opportuno che nell’esortazione la questione “fecondità” è declinata nelle sue attuazioni, ossia a livello di fecondità biologica e sociale e pure in rapporto a quell’altra fecondità, che è quasi al confine tra le prime due e che si realizza, per esempio, nei casi dell’adozione e dell’affido. A questi tre livelli potremmo dare il nome di “generatività” in quella prospettiva di responsabilità evocata dall’esortazione al n. 82 dove, con rimandi alla Relatio synodi 2014 si legge: «I Padri sinodali hanno affermato che “non è difficile constatare il diffondersi di una mentalità che riduce la generazione della vita a una variabile della progettazione individuale o di coppia”. L’insegnamento della Chiesa “aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità […]. La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale». In questo passaggio sono esplicitamente menzionati due livelli di questa generatività: quello connesso alla procreazione coniugale e l’altro collegato alla scelta dell’adozione e dell’affido. Anche queste ultime due, infatti, sono espressione alta di un amore familiare che s’impegna a restituire dignità filiale a chi, per le più varie ragioni, ne è stato privato. È significativo il richiamo: «Con particolare gratitudine, la Chiesa “sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili”». Amoris laetitia, dunque, afferma a chiare lettere che «l’adozione è una via per realizzare la maternità e la paternità in un modo molto generoso […]. Coloro che affrontano la sfida di adottare e accolgono una persona in modo incondizionato e gratuito, diventano mediazione dell’amore di Dio che afferma: “Anche se tua madre ti dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai”» (n. 179). Citando la Relatio finalis del 2015, l’esortazione va pure oltre ribadendo che «la scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale, al di là dei casi in cui è dolorosamente segnata dalla sterilità» (n. 180). Il valore di questi due istituti giuridici, dell’affido e dell’adozione dei bambini, può e deve essere considerato in rapporto ai bambini e alle famiglie. Quanto ai bambini, perché pongono fine allo stato d’abbandono in cui versano. Essi, infatti, trovano nella famiglia adottiva quel “gremb o” familiare — un papà e una mamma e, magari, dei fratelli e sorelle — di cui necessitano per una crescita sana e integrale: habitat di vita che niente e nessuno — solo una famiglia — può garantire. Il bambino trova e sviluppa la sua identità di figlio in relazione a un padre e a una madre, affettivamente e quindi realmente esperiti come genitori: due persone che, nell’amore che gli donano, lo generano alla vita. Anche quando un domani saprà che i suoi genitori biologici sono altri, egli continuerà a percepirli come “p a d re ” e “m a d re ”. Il carattere adottivo della genitorialità, infatti, nulla toglie alla realtà e alla verità della paternità e maternità nei suoi riguardi. Le rafforza, anzi, con quel carico aggiuntivo di gratuità con cui i genitori adottivi accolgono un bambino, facendosi carico e rimediando a tutti i suoi deficit e precarietà. Considerando, a loro volta, le famiglie, con l’adozione e l’affido esse si aprono a una concezione e a un vissuto ampio e integrale di paternità e maternità, non circoscritti al significato genetico e fisico della fecondità, al vincolo strettamente “di sangue” delle relazioni genitori-figli, ma aperti nella società e nella Chiesa a genitorialità più estese e inclusive, di cui quella affidataria e, ancor più, quella adottiva di un bambino sono la forma più intensa e significativa. Quest’apertura preserva dal rischio dell’amore possessivo e captativo dei figli; dispone all’amore oblativo e gratuito, come pure libera dal familismo che centra le famiglie su se stesse, sul proprio interesse, sul proprio successo. Una famiglia affidataria e adottiva è per se stessa una famiglia aperta all’accoglienza e al dono. Su questo sfondo di senso e di valore è ben chiaro che la genitorialità adottiva non può essere assunta a paradigma di legittimazione della genitorialità eterologa, per la loro radicale diversità. Quest’ultima, infatti, è la soddisfazione di un desiderio («il figlio del desiderio», di cui ha scritto Marcel Gauchet); la prima, invece, è un grande atto di amore, con cui si dà una famiglia a un bambino che non ce l’ha. È, dunque, molto importante quanto l’esortazione riprende dalla Relatio finalis e cioè che «a fronte di quelle situazioni in cui il figlio è preteso a qualsiasi costo, come diritto del proprio completamento, l’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo». Amoris laetitia non trascura quell’altra forma di generatività, o fecondità sociale che si ha quando l’impegno profuso dalla famiglia si volge all’esterno al fine di testimoniare alle nuove generazioni valori e senso della vita. L’esortazione ne tratta al n. 181 dove si ricorda che la procreazione e l’adozione non sono gli unici modi di vivere la fecondità dell’amore, perché la famiglia «è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene […]. La famiglia non deve pensare sé stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale. In tal modo diventa un luogo d’integrazione della persona con la società e un punto di unione tra il pubblico e il privato. I coniugi hanno bisogno di acquisire una chiara e convinta consapevolezza riguardo ai loro doveri sociali».
*Vescovo di Albano
© Osservatore Romano – 15 maggio 2016