
Le Lettere di Sandokan – Vita da cani
“Bisogna fallire nel nostro rapporto con Dio e scoprire che nonostante tutto Lui ci ama, per capire che nella vita non è importante essere perfetti, ma essere misericordiosi.”
Si parlava di cani, che non è proprio il mio argomento. Non ho animali domestici in casa, non ne ho mai avuti. Beh, in realtà da qualche mese ho un gatto, ma non direi che sia mio. È lui che ha scelto noi. Viene a casa nostra per mangiare e farsi accarezzare. Quando è sazio punta la porta, miagola finché non la apriamo, e se ne va. Dorme fuori, nei giardini attorno alla casa. È abituato così.
Dicevo che si parlava di cani. Andrea è molto contento del suo e lo cura con amore. Quando ascolto una persona parlare di un suo amore, sinceramente, con passione, l’oggetto del suo amore acquista rilievo pure per me. Anni fa una persona mi parlò di api – produceva miele per hobby – e da quel momento le api hanno cominciato ad esistere nel mio mondo. C’erano anche prima, ma non le avevo mai guardate come meritavano. Si dice che il senso di tutta l’opera di Magritte sia legato a qualcosa del genere: farsi meravigliare dal mondo così com’è e anche dal fatto che avrebbe potuto essere in un altro modo e invece è in questo modo. Le nuvole, per esempio, avrebbero potuto essere sorrette da coppe di champagne (e noi ci saremmo abituati a vedere migliaia di coppe di champagne in giro per il mondo, di tutte le forme e dimensioni) e invece sono sorrette dalle leggi della Fisica (e noi, che ci siamo abituati alle leggi delle Fisica, non ci facciamo più molto caso: sono invisibili agli occhi, come Dio).
Il cane del mio amico gli riempie la casa. Lo hanno voluto tutti e lui ripaga tutti con un affetto che tutti sembrano poter ricevere solo da lui, chissà perché.
Andrea è felice quando ne parla, anche se mi confida che gli dispiace un po’ che tutti siano disposti a giocarci, ma solo lui si preoccupi di dargli da mangiare, di portarlo dal veterinario e di raccogliere i suoi bisogni per strada.
Si ride un po’ riflettendo su come “carezze” e “bisogni” spesso non riescano a convivere. C’è chi sa dare solo carezze – che sono desiderio di pienezza, di donare di più di quello che si possiede – e c’è chi sa soddisfare solo bisogni. Ma è difficile che i due fenomeni si presentino contemporaneamente. Come nei matrimoni. Molti ragazzi non si sposano perché si può accarezzare senza avere legami; molti adulti sposati sono delusi perché di carezze non ne ricevono più, nonostante si sforzino di fare la spesa e lavorare fino a tardi: bisogna pur sempre mangiare.
Non appena lascio Andrea, mi chiama Giovanni. Dopo un po’ di chiacchiere mi racconta di sua figlia, che ha 21 anni e gli ha appena comunicato che la prossima estate andrà in vacanza in Spagna con il suo ragazzo, per un mese: hanno trovato un appartamento, che pagheranno con i soldi che hanno guadagnato facendo piccoli lavoretti, e vivranno assieme. Non è che gli abbia chiesto il permesso: gliel’ha fatto sapere.
“Che le posso dire? È una loro scelta che pagano con i loro soldi. E poi, anche se glielo impedissi d’autorità, cosa risolverei? Se vogliono, possono fare un po’ di vita comune anche qui, a due passi da casa. Forse la fanno già. A sposarsi non ci pensa proprio. Perché dovrebbe? Quanto alle carezze, ha provveduto a procurarsele. Ai suoi bisogni, invece, ci penso io”.
E sorride, un po’ amaro. Sa che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo, ma cosa può fare? Vietare? Fare un discorsetto sui valori? Portarle qualche esempio virtuoso? Raccontarle che lui e sua madre, cose del genere non le hanno mai fatte. Ma sono felici lui e sua moglie? Non so, lui dice di no. E se le loro scelte di ieri li hanno condotti al punto in cui sono oggi, a che cosa sono servite?
Mi sono ricordato della figlia di una mia amica, rimasta incinta a 16 anni. La mia amica si è presa cura della bambina, perché la figlia era troppo giovane, e la ragazza ha continuato la sua vita, certo un po’ più complessa di prima, ma non troppo più complessa. Mi sono ricordato del figlio di mio cugino, fuori corso da dieci anni, con la retta universitaria che i suoi genitori continuano a pagare.
Entrando in casa, sono investito da mia figlia, che mi chiede di ascoltare la sua lezione di Storia. “Tra le cause della seconda guerra mondiale ci fu il risentimento del popolo tedesco circa l’esito della prima guerra mondiale: non erano davvero convinti di averla persa, di aver subito una sconfitta. Si poteva vincere e invece si erano arresi: questo pensavano. Erano poi stati umiliati dai vincitori. La seconda guerra mondiale cominciò da qui”.
È curioso come, a volte, ci siano giorni nei quali tanti accadimenti ti spingano a guardare da differenti angolature lo stesso problema.
Spesso chiacchiero della parabola del padre misericordioso, della storia di quei due figli. Del primo, che mi sta più simpatico del secondo. Del primo, che se l’è spassata per un po’, fino a quando non gli è crollato il mondo addosso:
“Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla”.
Ogni scelta, lo sappiamo, ha delle conseguenze: la scelta di prendere in casa un cane, quella di iscriversi a una università, quella di convivere con una persona, quella di sposarsi con una persona: l’elenco è infinito. Non voglio giudicare le scelte di nessuno. Non voglio regalare il mio giudizio a chi pensa di poterne fare a meno.
Neanche il Padre della parabola si comporta così, pur avendo le sue idee. Ciò che lui fa è interessante: fa vivere al figlio le conseguenze delle sue scelte fino in fondo, fino a farlo pascolare coi porci. Non so quante persone siano capaci di arrivare fino a questo punto con i propri figli. O con i propri amici. Non so se io ne sarò capace.
Non dico con i figli degli altri, perché con i figli degli altri è facile (a volte desideriamo che paghino per i loro errori: “è giusto così”, questo diciamo accarezzando i nostri cari). Dico con i propri figli.
Non dev’essere stato facile per un padre venire a sapere che un figlio pascola con i porci. Bisogna essere un certo tipo di padre per comportarsi come si è comportato lui. Coraggioso certo, ma non del coraggio di chi urla contro una barca che va serenamente incontro a una cascata. Piuttosto coraggioso nella volontà di aspettare, con le lacrime agli occhi, fino in fondo, che il figlio si volti verso di lui.
Perché le parole o i gesti di aiuto danno sempre una certa tranquillità. Ti senti di aver fatto qualcosa, il possibile, quello che ti sembrava giusto. Ti senti più sereno.
L’attesa invece non garantisce nulla. Può essere ignavia. E forse a volte lo è, se attendi senza lacrime. Ma quando il figlio torna a casa, vi torna da uomo libero: senza risentimenti verso chi lo aspetta, senza rimpianti verso ciò che lascia.
Va verso un mondo migliore e nessuno ha più bisogno di spiegargli che è così.