Le Lettere di Sandokan – Speranza
Ieri sono uscito con Andrea, un mio vecchio compagno di scuola che vive lontano da me, in un’altra città. Ci incontriamo di solito durante le feste, quando lui torna a casa dai suoi, o in estate.
Non è sposato.
Mentre gli andavo incontro, nel luogo in cui c’eravamo dati appuntamento, pensavo al fatto che mi cerca da trent’anni, sempre, costantemente, ogni volta che può. Molto più di quanto non lo cerchi io.
Da un po’ di tempo ho molto piacere a rivederlo.
Lui è ingegnere, come me, però è il contrario di me. Parla poco ed ha come un velo di tristezza nel viso. Lo ha sempre avuto, penso a causa del clima familiare, molto austero, in cui è cresciuto. Ma forse è solo una mia impressione, perché lui non è tipo che si abbandoni a troppe confidenze. Parla poco di sé.
Ai tempi del liceo ero sempre a casa sua. Una bella casa, molto più bella e grande della mia. Era più facile studiare da lui: c’erano tante stanze disponibili.
Anche se poteva permettersi il meglio, è sempre stato sobrio: vacanze in ostelli e sacchi a pelo. Io non sarei capace di tende e sacchi a pelo, ma lui sì. Fa ancora viaggi del genere. Parte da solo, in giro per il mondo, con un bagaglio piccolo e senza prenotare alberghi. Un anno fa è stato in Nuova Zelanda, per un mese. Mi ha detto che è bellissima.
Ha scelto di insegnare, molti anni fa, nonostante avesse potuto fare altro con il suo titolo di studio e le sue capacità. Ha lasciato la sua città ed è andato a vivere da solo in un altro mondo. Ha anche rinunciato a una vita più rassicurante: poteva rilevare l’attività paterna, che ai tempi era florida, e invece campa con poco.
Non pensate che abbia mai parlato con lui del senso delle sue scelte. Non ha mai dato l’impressione di volersi giustificare con me del modo che aveva scelto per vivere. Sono tutte cose che ho pensato io, nel tempo, chiacchierando con lui.
Mi piace un suo certo infischiarsene del giudizio altrui, che io non ho (anche se sto migliorando, per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare qui … troppo lungo e forse anche inutile). E’ un infischiarsene che non disprezza le scelte di altri, le mie per esempio, e che, per questo motivo, mi induce al rispetto.
Ma, soprattutto, da un po’ di tempo a questa parte, ho scoperto di ammirare le persone che a un certo punto escono dai “binari” e proseguono “a piedi”. Abbiamo parlato di questo, l’altro giorno, con lui. Del fatto che anch’io sto diventando un po’ così.
Da ragazzo son sempre stato su binari invisibili dai quali stavo attento a non uscire.
Ero sempre sicuro di cosa avrei fatto nella vita, tra tre giorni come pure tra tre anni. Non ero costretto da nessuno a vivere in questo modo, se non da una certa mentalità borghese in cui ero immerso e che voleva per me strade sicure nella vita.
Mia madre – con i suoi “se non fosse stato per me” con i quali talvolta pretende la mia eterna riconoscenza per il fatto di essere diventato ciò che sono, per il fatto che la vita che ho vissuto non mi abbia fatto troppo male – tende a ricordarmi che quei binari li ha piantati lei, per me.
Tuttavia adesso sento che una certa adolescenza, che non ho vissuto, si stia ricordando di me. Sono uscito dai binari da un po’, senza dirlo a nessuno. Non voglio “spaventare” e poi non sento il bisogno di essere seguito da altri, come se avessi scoperto il segreto della vita, come se avessi bisogno di avere un seguito per sentirmi nel giusto.
È una adolescenza diversa, la mia, quella di oggi. Non sono certo “spensierato”, non subisco più i miei 16 anni, perché non li ho. E’ una adolescenza con pensieri. Ho però scoperto cosa sia la speranza, che è l’altra gamba dell’adolescenza oltre alla spensieratezza. Una speranza che non è solo fondata sulle mie capacità, ma sulle sorprese della vita. Sorprese che mi hanno regalato desideri che non pensavo di poter avere, che non avevo mai avuto.
Sono più curioso, per esempio, di come ero un tempo. Per dire, l’altro giorno don Mauro ha parlato del libro di Guy Gilbert “Perdonare le offese”. Mi è venuta voglia di andare a vedere che faccia avesse quel prete francese. Quando l’ho vista mi sono detto che un tempo l’avrei schifato un tipo del genere. E invece adesso mi è venuta voglia di comprare il suo libro.
Non mi attraggono più le vite perfette, ma le vite che incontro, uscendo dai binari. C’è come un segreto di verità dentro ogni storia che solo quella storia mi può rivelare, se solo smetto di osservarla dal finestrino del treno, ma scendo in stazione e comincio a passeggiare.
Non so perché Andrea cerchi uno come me, di preciso. Qualcosa so, ma non tutto. Però mi cerca sempre e questa sua ricerca mi arricchisce di significato.
Un poeta della mia città, non molto noto, l’altro giorno spiegando il senso di ciò che scrive ci disse che noi siamo insignificanti per molti, di fatto. Ma di fronte ad alcuni, il nostro significato diventa chiaro. Questo passaggio dall’insignificanza al significato è il frutto di un incontro. O di più incontri. Dopo questi incontri tutto il mondo prende nuova vita – anche gli animali, anche gli oggetti – e diventa rilevante ciò di cui in fondo ci sembrava di poter fare a meno o a cui mai avevamo fatto caso, prima di allora.
La speranza diventa qualcosa di concreto e di certo, quando scopri di essere tu la speranza per qualcuno e che qualcun altro è la speranza per te.
Sandokan è la Tigre della Malesia, questo si sa. In verità negli anni della sua giovinezza – quando il corpo esultava – le tigri, lui, le uccideva. Ma poi scelse la via di Lutet con i draghi. È l’eroe di sua figlia che, bambina, gli diceva: “Voglio essere anch’io una tigre, una tigre-femmina! Si può?”. “Certo che si può! Ma cosa credi che faccia una tigre tutto il giorno?”. “Lo so, lo so! Legge, studia e racconta favole!