Le Lettere di Sandokan – Natale
In una vecchia canzone di Jannacci si fa cenno al Natale.
Se ne parla indirettamente perché è una canzone triste, che parla di morte, della morte di un soldato partito per la guerra che non torna più a casa.
O meglio ci torna però “bianco, senza più respirare”. I suoi cari lo vegliano, gli stanno attorno, e a un certo punto arriva sua madre, con in mano un telegramma: c’è una medaglia d’oro per lui, in sua memoria. Non c’è niente di più triste di una speranza certa, di una giovinezza carica di possibilità, che finisce in frantumi.
Uno dei suoi figli, ripensando a questa scena della sua infanzia, a suo padre morto, ha una speranza per sé: che a lui capiti di “partire” a Natale. “Perché a Natale stanno tutti a casa … a mangiare, bere, ascoltarsi, parlare”.
In una canzone che parla di morte la luce viene dal Natale, che è l’unica forza capace di addolcirla, di darle calore e speranza.
“Mangiare, bere, ascoltarsi, parlare”, sono questi quattro verbi le mie campane natalizie. Da sempre. Perché per me il Natale è stato essenzialmente questo, da bambino. Mi ci sono riconosciuto. E così lo vorrei anche adesso. Però è più difficile: sono più disincantato, smaliziato, alla moda rispetto al passato. Voglio decidere da me chi frequentare … e quando … e dove.
Anche allora, come oggi, c’erano le canzoni, il presepe e l’albero, i regali, le letterine, le promesse e i racconti di Betlemme, con la cometa e i Magi. Ma erano come il contorno, una scusa di cui avevamo bisogno per stare assieme. Avevamo desideri di comunione e aspettavamo un’occasione per renderli concreti.
Ci piaceva ascoltare la storia di Betlemme, perché era grazie a quella storia che i miei zii potevano avere qualche giorno di vacanza. Era grazie a quella storia che allungavamo il tavolo di casa per farci entrare tutti, tanta gente. I parenti lontani poi potevano prendere il treno e raggiungerci, con i loro figli. E mangiare con noi. E raccontarci le loro giornate, passate lontano dalle nostre, però senza volerlo.
Quando è nata mia figlia venne a trovarci tanta gente. Lei era lì, nella carrozzina, in un angolo. E noi, i genitori, ad accogliere tutti e a raccontare. A parlare di mille cose. C’era gente che non vedevamo da anni (o che forse non avevamo mai visto) e che veniva a farci visita per l’occasione (perché da noi si usa così). E noi, dopo un po’, nella foga del parlare, quasi ci dimenticavamo del motivo di tutte quelle presenze attorno a noi. Perché eravamo noi che godevamo della festa, con noi si poteva parlare, e ridere, e scherzare, mentre alla bambina erano riservati veloci sguardi, giusto per decidere se somigliasse alla mamma o al papà.
Erano i nostri pastori questi semisconosciuti nipoti di cugini di terzo grado, questi vicini di casa dei nonni, questi volti che forse non avremmo più rivisto. Come i pastori di Betlemme, che Maria e Giuseppe non rividero mai più. Forse.
Che fine avranno fatto dopo la visita alla grotta? Saranno tornati alle loro giornate di sempre, in attesa di nuove occasioni per ritrovarsi, di nuove nascite, capaci di riscaldare loro il cuore.
Ho pensato a questo. Che Gesù, che è così presente a Pasqua, è quasi una scusa a Natale. Non chiede niente Gesù a Natale. E’ solo una possibilità di comunione, la più semplice di tutte. La più capace di riscaldare la vita e la morte.
Buon Natale a tutti.